Formazione continua

Formazione continua
(severamente messi alla prova nella prima ascensione dello sperone sud-occidentale (alto 2600 m) dell’University Peak, in Alaska)
di Kevin Ditzler
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2012)


Ho posato per la prima volta gli occhi sull’University Peak 4410 m nel 2007. La vista quotidiana dell’enorme parete sud dal basso dell’Hawkins Glacier era come una droga che ti fascia il cervello e ti perseguita nei sogni. Ma era fuori dalla mia portata. Così ho fatto l’unica cosa logica: mi sono trasferito in Alaska. Nei successivi quattro anni di vita e scalate sulle Wrangell Mountains ho portato a casa alcune foto aeree dell’University Peak. La sua storia leggendaria mi si è lentamente rivelata quando ho incontrato i suoi primi scalatori.

Kevin Ditzler in avvicinamento all’University Peak. Tracciato della loro via sullo sperone sud-ovest. Foto: John Kelley.

I numerosi dettagli di una spedizione in Alaska hanno trovato il loro posto il 4 aprile 2011. Ancora una volta mi trovavo alla base dell’University Peak. Assieme a noi per quell’avventura c’era John Kelley, un duro dell’Alaska con radici nella mia città natale di Durango, Colorado. Negli gli ultimi due inverni abbiamo scalato insieme linee difficili e sconnesse nel Chugach. Il Chugach a dicembre è un’impresa fredda e buia, un posto dove gli approcci sono complicati e la protezione è solo uno stato mentale. Un pugno di tranquilli alpinisti del posto aveva spuntato superbe linee alpine moderne sulle pareti più ripide della catena. John e io abbiamo raggiunto quel livello vitale in cui non abbiamo bisogno di parlare molto e ci siamo congelati abbastanza il sedere da sapere che il compagno può insieme soffrire e sorridere.

Paul Claus dell’Ultima Thule Lodge ci aveva fatto atterrare su un piccolo ghiacciaio laterale a ovest del ghiacciaio superiore di Hawkins e a sud-est dell’Hobbs Peak. Abbiamo scavato un campo base e trascorso una settimana sciando e osservando le condizioni. Giocando con obiettivi diversi, abbiamo scoperto pareti complesse costellate di pericoli oggettivi. Imprevedibili periodi di nevicate e scarsa visibilità non erano incoraggianti. Alla fine, tuttavia, la parete più grande si è rivelata irresistibile e abbiamo iniziato a pianificare per la successiva pausa del meteo. Ci siamo concentrati su uno sperone che divide la parete sud-occidentale. Una sottile linea su ghiaccio sembrava l’unica opzione protetta dalle cadute di seracchi su entrambi i lati. La nostra discesa sarebbe stata la complessa e rotta cresta nord, aperta nel 1955 da una spedizione di sei uomini guidata da Keith Hart. La vetta non fu più raggiunta fino al 1997, quando Paul Claus, Rüdi Homberger, Danny Kost e Dave Staehli atterrarono a Beaver Basin, un circo glaciale a 3050 m, e compirono la seconda ascensione della vetta, sempre per la cresta nord.

Dopo 42 ore di salita Ditzler e Kelley hanno trovato terreno buono per ricavarci il campo 1. Foto: Kevin Ditzler.

Le uniche persone a scendere da questa cresta senza prima scalarla furono Carlos Buhler e Charlie Sassara, nel 1997. Avevano appena terminato la loro linea di 2600 metri sulla parete est, e Claus li sorprese con un inaspettato lancio di cibo sulla cima. Mentre scendevano dalla cresta nord, trovarono qualche paletto che segnava il percorso del gruppo di Claus; ebbero la fortuna di essere prelevati immediatamente al loro arrivo al Beaver Basin (vedi AAJ 1954, 1955 e 1998 per queste imprese e per le buone descrizioni della montagna). Mentre la cresta nord è probabilmente la migliore via di discesa, i lati negativi sono che il Beaver Basin è un vicolo cieco preso di mira da continue cadute di seracchi, che per di più si trova sul bordo di una cascata di ghiaccio di 1200 metri, vero azzardo da scendere. I primi salitori avevano percorso 20 miglia su per l’Hawkins Glacier dal fiume Chitina e avevano scalato la cascata di ghiaccio del Beaver Basin prima di scalare la cresta nord fino alla cima. O erano molto più coraggiosi di noi, o la cascata di ghiaccio era cambiata dal 1955. John e io eravamo contenti di essere “viziati dall’aerotaxi”, come direbbe Rüdi Homberger.

L’unica altra salita con una nuova linea è stata quella di Lorne Glick, Bob Kingsley, Lance McDonald e John Whedon nel 2002. Dopo aver scalato la parete sud, aperta in condizioni ideali, i quattro sono scesi con gli sci per 2100 m (AAJ 2003). Questa “gita di un giorno” ha fatto guadagnare loro una notevole linea di sci vergine, ma li ha fermati a circa 400 metri di distanza dalla vetta, più alta di loro di circa 100 metri.

L’8 aprile, con il miglioramento del meteo, John e io abbiamo lasciato un biglietto nelle nostre tende del campo base con le informazioni sul percorso e le istruzioni per il nostro recupero, come da accordi presi con Paul. Avevamo deciso di scalare la linea, attraversare la cima e aspettare una settimana al Beaver Basin fino al nostro ritiro programmato per il 24 aprile.

Abbiamo ridotto il materiale tecnico, aggiunto combustibile e cibo, ma senza esagerare. Avremmo dovuto trasportare già troppa attrezzatura.

All’una di notte dell’11 aprile abbiamo attraversato la crepaccia terminale a 1830 m e abbiamo iniziato a salire slegati. Presto abbiamo preso ritmo e ci muovevamo bene nonostante gli zaini opprimenti. All’inizio della giornata abbiamo attraversato una gola ripida con echi bizzarri: abbiamo urlato varie assurdità alle pareti, solo per sentirle ripetere e amplificare sette o otto volte prima che rimbalzassero giù per la parete. Nel pomeriggio ci siamo fermati per il nostro primo spuntino. Proprio mentre ci rilassavamo sulla nostra piattaforma di neve calpestata e iniziavamo a goderci il perfetto clima soleggiato, una valanga di polvere ha travolto un canalone vicino a noi. Abbiamo afferrato tutto quello che potevamo, mentre la raffica di polvere ci colpiva. Quando finalmente è passata, tremavamo. La neve aveva riempito ogni apertura nei nostri vestiti, zaini e caschi, ma non abbiamo perso nulla. Finito lo spuntino, abbiamo continuato a salire slegati, per poi legarci ma continuare in simultanea su un terreno misto sempre più ripido.

John Kelley ha appena lasciato il campo 2, la cui cengia scavata è visibile poco sotto. Foto: Kevin Ditzler.

Circa 900 metri più in alto, quando avremmo dovuto cercare un campo, il canalone di neve finiva, uscendo a destra su una parete di ghiaccio a 60 gradi. Da lì potevo vedere i successivi 300 metri. Potevo anche vedere la parete fratturata di un seracco sospeso che pendeva precariamente lì vicino. L’avevo studiato da terra, tracciando linee di caduta per vedere come potevamo evitare le sue eventuali scariche, e mi ero convinto che potevamo tranquillamente passare sulla destra. Ora, però, era la mia voce a stridere, bloccata in gola mentre il mio cuore batteva forte. Ho iniziato a salire sul ghiaccio. Potevo sentire John alla fine della corda, fuori dalla vista nel canalone, che aumentava il ritmo per adattarsi al mio ritmo. Ho continuato a salire finché non ho esaurito l’attrezzatura, allora mi sono fermato, guardando dal seracco verso John e poi di nuovo il seracco. Non volevo davvero fermarmi lì. L’ho avvertito e ho ricominciato a salire. Quando lui arrivò all’ultima protezione, la recuperò e continuammo a salire, sempre legati, ma in solitaria sul ghiaccio azzurro sempre più ripido.

Infine, mi sono portato a destra del mostro sospeso e fuori dalla linea di caduta. Respirando a fatica, ho piazzato l’unica vite che avevo e ho iniziato ad assicurare John. Senza dire una parola, è arrivato in sosta mentre si faceva buio. Prima che uno di noi due parlasse, il seracco si è fratturato, rilasciando una cascata di ghiaccio fragorosa lungo la parete. Sorpresi ma al sicuro, abbiamo guardato la valanga che precipitava finché non è svanita in una luce grigia fuori dalla vista. Ho tracciato la sua linea di caduta lungo la parete. John e io ci siamo scambiati delle smorfie.

Avevamo esaurito la luce e non vedevamo nulla che assomigliasse a una cengia, né alcun elemento che ci riparasse. Così ci siamo allacciati le lampade frontali e sono partito, sperando di trovare un terreno più protetto. Presto ha iniziato a nevicare, e i più di 1200 metri di ghiaccio bluastro a 60° al di sopra di noi rilasciavano spindrift con regolarità. Le colate di neve aumentavano mentre continuavamo a salire, alcune ci martellavano per minuti interi. A un certo punto durante quella notte contorta ho raggiunto il mio limite. Con i polpacci sul punto di scoppiare come angurie troppo mature, mi sono inginocchiato contro il muro di ghiaccio, con la testa china.

“Non credo di poter più andare avanti”, dissi a John quando mi raggiunse. John rispose, ma non lo ascoltai davvero. Sapevo che mi stava dicendo che neppure lui poteva mettersi in testa. Chiusi gli occhi mentre un’altra scarica di neve fresca si abbatteva sulla nostra sosta. La polvere fredda mi entrò nei polmoni. Quando il diluvio si fermò, aprii gli occhi. La prospettiva di un bivacco così esposto e con quel tempo ci convinse che l’unica opzione era salire, salire a un qualunque piccolo ripiano, magari sotto una sporgenza che ci riparasse un poco dalle valanghe. In uno spasmo di volontà che posso paragonare solo alla riorganizzazione di un organo interno, mi rassegnai al mio destino, alla mia penitenza. Mi alzai, calciando le punte anteriori nel ghiaccio.

John Kelley dopo 40 ore di salita. Foto: Kevin Ditzler.

“Bene, ma non ho intenzione di portare questo fottuto zaino oltre”.
Lo tolsi dalle spalle, lo agganciai alla sosta quasi sospesa e ci legai una corda di recupero. John e io avevamo vissuto insieme varie esperienze e sapevamo che potevamo averne ancora. Mirai il fascio di luce in alto e ripresi in mano gli attrezzi.

Abbiamo scalato per il resto della notte e il giorno seguente. La neve leggera continuava a cadere, e così gli spindrift. Alla luce del giorno tutto sembrava più gestibile, anche se non c’era ancora terreno protetto, né altro che non fosse ghiaccio blu a 60°-75°. Continuavo a salire davvero lentamente.

Quarantadue ore dopo aver attraversato la crepaccia terminale ho raggiunto la relativa protezione di una fascia rocciosa e scoperto una costola di neve a 60°, appena profonda per poter scavare uno spazio protetto per la tenda. Alla fine di un’ora di lavoro, ho visto uno dei miei attrezzi ballare in testa. Ci siamo accasciati nella nostra piccola tenda, abbiamo preparato una rapida infusione e nel giro di un’ora siamo caduti nel nauseante sonno comatoso di quelli che sono completamente esausti. La sporgenza simile a una caverna avvolgeva la nostra piccola tenda nelle pieghe della montagna.

La mattina dopo abbiamo aperto gli occhi e abbiamo visto che il tempo era migliorato. Abbiamo preparato e mangiato avidamente, alleggerendo i nostri zaini. Ho dato un’occhiata più da vicino alla mia piccozza: uno dei due dadi che tenevano la becca era andato. Prima della scalata avevo controllato l’hardware, serrandolo con forza. Avrei dovuto aggiungere colla. Eravamo a metà della montagna senza pezzi di ricambio. Mi sono messo al lavoro con mezzi di assoluta fortuna, riuscendo in un bricolage che sembrava funzionare anche dopo furiosi colpi di prova.

Abbiamo finito di smontare la tenda alle 16, impazienti di muoverci dopo quel ritardo. Mi misi in azione traversando a sinistra su ghiaccio e tiri misti a 75°. Mi potevo proteggere bene su quel ghiaccio freddo e vecchio, ma l’arrampicata metteva a dura prova i nostri polpacci stanchi. Dopo solo cinque o sei tiri di traversata a sinistra sotto la fascia rocciosa, la luce ha iniziato a svanire. Merda. L’ultima cosa di cui avevamo bisogno era un’altra epica notte passata cercando di trovare una cengia. Sebbene tornare al comfort dell’ultimo campo fosse allettante, nessuno di noi due era disposto a rinunciare ai progressi duramente guadagnati. Ho fatto un tiro verso la fascia rocciosa al di sopra, nella speranza di trovare un po’ di neve abbastanza profonda per ricavarci una cengia. Senza luce e senza scelta, ci siamo accontentati di un’altra ripida costola di neve, sperando di trovare un nevaio come la notte precedente.

Quattro ore e mezza estenuanti dopo, abbiamo finito di tagliare il ghiaccio durissimo e abbiamo montato la tenda. Abbiamo dormito bene e a lungo, e il giorno dopo, sotto un cielo soleggiato, abbiamo dormito e mangiato finché il sole non è tramontato. Ci siamo goduti la nostra giornata di svago, bevendo montagne e cielo.

Il giorno dopo, il 15 aprile, eravamo in piedi prima del sole, riposati e motivati. Avremmo posto fine a questa implacabile parete di ghiaccio. Abbiamo continuato a obliquare verso l’alto e verso sinistra, cercando un’apertura nella fascia rocciosa che potesse portarci alla calotta nevosa a 3800 metri. Alle 17 abbiamo trovato una soluzione attraverso la fascia rocciosa e io ho rinunciato a continuare da primo. John si è munito del materiale e ha completato il tiro. Una lastra di roccia coperta di neve e con passi assai difficili lo ha portato a raggiungere ancora la neve. Sopra la fascia rocciosa John è andato avanti facendosi strada attraverso le debolezze di un labirinto di ghiaccio sporgente e levigato e in una notte gelida. Il tiro finale era una parete non proteggibile, con un’inclinazione a 70°, di water ice che si crepava e si assestava mentre John saliva.

Ditzler al campo 3 alla sommità dello sperone sud-ovest, il primo ripiano dopo la crepaccia terminale. Foto: John Kelley.

E finalmente potemmo apprezzare con gioia tutto ciò che attorno a noi era piatto: un piccolo altopiano all’apice dello sperone sud-occidentale. Slegati, abbiamo potuto rilassare i polpacci (dopo 1200 metri sulle punte anteriori), abbiamo fatto uno spuntino e guardato la luna rossa brillare su una serie infinita di montagne silenziose.

La mattina dopo ci siamo mossi senza corda sulla cresta massiccia con un clima limpido e freddo, finché crepacci spalancati e terreno sempre più ripido ci hanno costretti a legarci e a procedere in alternata. Presto eravamo ancore sulle punte dei ramponi, in traversata sotto enormi conglomerati di brina delle dimensioni di una casa: ragnatele vuote di ghiaccio, neve e aria. La traversata da 50° a 75° era nella migliore delle ipotesi difficile da proteggere e nella peggiore terrificante. A volte il ghiaccio si crepava a ogni nostro movimento. Abbiamo iniziato a conficcare le punte smussate dei nostri attrezzi trattenendo il respiro.

Eravamo tornati alla routine dell’arrampicata al buio. Il termometro sul mio zaino segnava -27° e il vento stava aumentando. Dopo altre ore di spaventoso attraversamento di ghiaccio brinato e cavità, John ci ha portato di nuovo su un terreno più pianeggiante e al nostro campo successivo, in cima alla parete sud. Questo era il punto in cui quattro anni prima Lorne Glick e la sua banda avevano indossato gli sci per scendere dalla parete sud. Guardando in basso ora, non vedevo altro che un blu liscio e lucido per 2100 metri.

Il giorno seguente siamo arrivati ​​sulla sommità di un pinnacolo di brina con due guglie in vista della cima. Era uno di quei posti in cui ti senti come se ti stessi aggrappando a un punto focale terrestre, un vertice svettante sopra il pianeta. Ci siamo calati dall’altro lato e abbiamo iniziato una camminata di un quarto di miglio nella neve alta fino alle ginocchia verso il nostro obiettivo. La neve alla fine si è solidificata su un’ampia cresta compattata dal vento e siamo andati senza corda fino all’ampia cima. Sotto un cielo limpido a mezzogiorno, temperature di -23° e un vento salutare, ci siamo goduti la nostra prima vista a 360°.

La discesa è iniziata come una piacevole passeggiata per un lungo e dolce pendio, ma presto ci siamo legati per navigare attraverso il labirinto contorto della cresta nord. Discese quasi verticali, pendii di valanghe, ponti che ti prendono a pugni le gambe e infiniti crepacci spalancati hanno catturato la nostra attenzione. A circa due terzi della discesa, la luce ha iniziato a svanire e un forte vento turbolento ci ha avvolti. Abbiamo scalciato per fare una piattaforma, montato la tenda e ci siamo infilati dentro. Abbiamo trascorso gran parte di quella notte e della mattina seguente usando le nostre schiene per sostenere le pareti della tenda contro la forza del vento. Che si è fermato a mezzogiorno del 18. Allora ci siamo fatti strada attraverso l’ultimo labirinto e siamo entrati nel Beaver Basin.

Il silenzio e la quiete dei sei giorni successivi ci sconvolsero.
La scalata era stata un atto di volontà. A volte una battaglia che purificava la mente e a volte un piacere intenso. Ora non restava che aspettare. A corto di cibo, siamo entrati in modalità letargo.

Ero fisicamente e mentalmente esausto, incapace di impedire a una depressione strisciante di prendermi; le ho permesso di piegare i miei pensieri verso la disperazione. Avevo deluso il mio compagno e me stesso; mi ero messo all’angolo senza alternative. Le nostre vite dipendevano da qualcuno lontano e dalla fortuna di un meteo favorevole. John ha fatto il possibile per sollevarmi il morale. Abbiamo scherzato sullo sfruttamento delle nostre rimanenti 2.000 calorie e 170 grammi di combustibile per sei giorni o forse di più. Abbiamo riso dell’immangiabilità degli scarponi sintetici moderni. John ha trascorso il tempo raccontando storie di arrampicata, descrivendo dettagliatamente le montagne che aveva visto e che avevano del potenziale. Abbiamo parlato emozionandoci quando abbiamo scoperto una scalata passata o un compagno in comune. Alla fine, tuttavia, mi ritiravo nella mia cupa tristezza.

Tutto ciò che ho fatto in montagna è stato governato da una filosofia di autosufficienza, di consapevolezza che ogni passo e ogni decisione portano con sé la gravità della vita e della morte. La parte più difficile dell’attesa era sapere che tutto era fuori dal mio controllo. Ero troppo stanco, troppo debole per contemplare la discesa della cascata di ghiaccio. Anche in perfetta salute, sarebbe stato difficile e oggettivamente pericoloso. L’opzione migliore ora, in accordo con la decisione che avevamo preso prima di mettere piede su questa vetta, era aspettare, sapendo che Paul alla fine avrebbe ricevuto il messaggio lasciato in tenda al campo base e si sarebbe presentato lì.

Ho dormito tra incubi stressanti, incapace di ricacciare indietro i miei pensieri. Verso la fine del sesto giorno, il 24 aprile, la data programmata per il recupero, le nuvole hanno iniziato ad accumularsi e ho chiuso la tenda come se stessi chiudendo una tenda scura sulla mia mente. È stato allora che il debole ronzio di un aereo ha sussurrato nell’aria. Trattenendo il respiro, ascoltavo e pregavo. Pochi minuti dopo, Paul e il suo aereo hanno sfondato le nuvole proprio di fronte a noi e sono atterrati a un tiro di schioppo.

Ci siamo ammucchiati nell’aereo e abbiamo decollato fuori dal bacino. John e io abbiamo premuto la fronte contro i finestrini vibranti, studiando le cascate di ghiaccio orribilmente fratturate sotto il Beaver Basin. Ci siamo scambiati delle smorfie che volevano esprimere quanto l’avevamo scampata. Forse aspettare nel Beaver Basin non era stato poi così male.

Kevin Ditzler e John Kelley in cima all’University Peak. Foto: John Kelley.

Sommario
Area: Monti St. Elias, Alaska.
Ascensione: prima ascensione dello sperone sud-ovest dell’University Peak 4410 m. Kevin Ditzler e John Kelley hanno scalato il percorso di 2600 m in sette giorni, raggiungendo la vetta il 17 aprile 2011. L’arrampicata è stata “su un infinito ghiaccio di grado 3 con qualche occasionale tratto di grado 4” su 1200 m di ghiaccio da 60° a 75°, seguito da una cresta di ghiaccio con angolazioni diverse fino alla vetta. Sono scesi lungo la cresta nord fino al Beaver Basin, dove hanno atteso sei giorni per un prelievo, quasi senza cibo e combustibile.

Una nota sull’autore
Kevin Ditzler ama le avventure fantasiose e le linee di arrampicata estetiche. Lui e sua moglie Piper dividono il loro tempo tra il lavoro nelle remote Wrangell Mountains dell’Alaska e una vita presumibilmente più “civilizzata” durante l’inverno nella città di Palmer, Alaska.

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Formazione continua ultima modifica: 2024-07-13T05:47:00+02:00 da GognaBlog

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