La sfida delle tre Nord

La sfida delle tre Nord
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-29)

Intorno agli anni Trenta le Alpi Occidentali furono letteralmente prese d’assalto da cordate di cittadini senza guida, i quali si dedicarono sistematicamente alla risoluzione di quei problemi che la tecnica di quei tempi e la disinibizione psicologica lasciavano intravedere come possibili. L’apporto tecnico della scuola orientale permetteva ora di guardare alle grandi pareti occidentali con occhio ben diverso. Infatti saranno proprio gli orientalisti a risolvere i tre più grandi problemi, le pareti nord del Cervino, dell’Eiger e delle Grandes Jorasses, dimostrando che è più facile per un rocciatore diventare ghiacciatore che viceversa. Si procedette naturalmente per eliminazione e si giunse ad un punto in cui alcune pareti sembravano resistere agli assalti ripetuti dei migliori alpinisti delle differenti nazioni. Però non bisogna neppure dimenticare il fattore nazionalistico e competitivo che fu essenziale in questo preciso periodo. Insomma, assisteremo a delle vere e proprie «corse» lungo queste pareti, sovente sollecitate dalla propaganda nazionalista e purtroppo con effetti tragici e disastrosi. Ma forse solo in questo modo si poteva chiudere un’epoca dell’alpinismo che era stata, appunto, caratterizzata da una forte e viva competizione tra gli alpinisti dei vari Paesi. Sovente solo il raggiungimento dell’aberrazione permette il superamento di una situazione difficile.

La parete nord del Cervino. Foto: camptocamp.org

Il rapido successo dei fratelli Schmid sulla Nord del Cervino
La prima parete a cadere fu quella del Cervino e va detto che delle tre è forse (ma ciò dipende molto dalle condizioni in cui viene salita) la più facile o meglio la meno difficile. Vista da lontano la parete si presenta di aspetto triangolare, assai elegante e pulita nella sua linea, caratterizzata da un ripido scivolo di ghiaccio nella parte iniziale. In realtà la parete nord del Cervino è un gigantesco ammasso instabile di pietre messe l’una sopra l’altra come tante pile di piatti in equilibrio precario, tenute insieme solo dall’opera cementante del gelo e del ghiaccio. È il terreno misto per eccellenza, dove l’assicurazione è sempre aleatoria e più che altro morale. Su questa parete giocano in modo essenziale le condizioni della montagna, che possono renderla più semplice e sicura oppure pericolosissima e quasi impossibile, a seconda della quantità di neve che ricopre le rocce. Comunque, chiunque abbia salito la Nord del Cervino non ne ha certo riportato il ricordo di un’arrampicata divertente ed elegante, ma piuttosto ritorna alla mente l’assillo di uscire al più presto da quel caos di blocchi ammonticchiati e di canaletti ricolmi di ghiaccio traslucido. Ma si sa che il gusto di queste imprese non va cercato nel piacere dell’arrampicata, ma nelle sensazioni che l’ambiente della parete sa dare all’alpinista.

Riuscirono a vincere la parete (al primo tentativo) due fratelli provenienti dalla scuola austriaca, Franz e Toni Schmid, nel 1931. Sorprende il fatto che essi avessero poca esperienza del ghiaccio, infatti più che altro la loro attività si era svolta sulle rocce calcaree del Tirolo, dove essi avevano realizzato imprese di polso, soprattutto Toni, che con Ernst Krebs aveva superato la difficilissima Lalidererwand nel 1929. Ma va anche detto che Franz aveva vinto con Hans Ertl la ripidissima e ardua parete di ghiaccio della Nord dell’Ortles. Non erano quindi dei nuovi arrivati… Cosa lascia di stucco è il pensare che i due Schmid partirono da Monaco di Baviera e raggiunsero Zermatt in bicicletta, carichi di tutto il loro armamentario. All’andata come al ritorno! La salita fu condotta con estrema sicurezza e con grande decisione. Un solo bivacco si rese necessario dall’attacco alla vetta. Indubbiamente si trattava di un’impresa superlativa, difficilmente inquadrabile dal punto di vista della scala delle difficoltà. Su questa parete, più che il passaggio difficile o la lunghezza di corda estrema, è tutta quanta la via da percorrere che impegna su un terreno che non ammette assolutamente distrazioni e non concede riposo alcuno.

Ed è per questo che la Nord del Cervino, a differenza di altre scalate di roccia pura che sono state assai facilitate dall’infissione di chiodi, resterà sempre la Nord del Cervino, appannaggio di cordate assai preparate e molto esperte di questo terreno particolarmente insidioso.

Franz e Toni (a destra) Schmid con lo sfondo della Nord del Cervino

La «corsa» sulla parete nord delle Grandes Jorasses
La parete nord delle Grandes Jorasses non si lascia vedere da fondovalle e si cela agli sguardi dei curiosi e dei turisti. Solo salendo a Montenvers con il trenino, essa si lascia in parte scorgere in tutta la sua imponenza, che ne fa una parete senza rivali su tutta la catena alpina. Si tratta di una muraglia poderosa, alta fino a 1200 metri, caratterizzata da alcuni speroni assai in rilievo, che si originano dalle vette sommitali che formano la cresta stessa delle Jorasses: Walker, Whymper, Croz, Margherita, Elena, Young. Ogni sperone è separato dall’altro da orridi canaloni di ghiaccio nerastro, costantemente battuti dalle scariche di sassi e di pietrisco. Gli stessi speroni appaiono come una fuga di nere placche granitiche incrostate di ghiaccio traslucido, chiazzati qua e là da alcuni nevai che occhieggiano tra il grigiore delle lastre granitiche.

È una parete che riceve poco sole e come tutte le pareti nord dà uno strano senso di assenza di vita e di morte, che riesce però ad affascinare molti alpinisti. Essa fu l’ultima a cadere nel Monte Bianco, ed è naturale, infatti la sua salita richiese dal punto di vista tecnico la massima espressione della tecnica orientale per quanto concerne l’arrampicata su roccia e la più grande abilità nell’uso dei ramponi per quanto concerne il ghiaccio. Dal punto di vista psicologico, il successo arrise proprio a quelle cordate che erano assolutamente prive di complessi, cordate quindi che giunsero dall’esterno e che non erano condizionate dalla mentalità conservatrice degli ambienti locali.

L’occhio degli alpinisti si posò subito sui due speroni che sembravano offrire una qualche probabilità di riuscita: quello della Walker e quello della Croz. Lo sperone della Walker è alto circa 1200 metri, ha una struttura monolitica formidabile ed è caratterizzato da alcune gigantesche torri granitiche, separate da sottili strisce di ghiaccio e di neve, che creano una certa, seppur minima, interruzione nella verticalità. Lo sperone della Croz, che più o meno ha la stessa altezza, è un po’ più umano, infatti la sua linea risulta più interrotta da alcuni nevai di notevole estensione.

Eppure già nel 1907 Young e Knubel raggiunsero la base della parete, ma si accontentarono di guardare. Protagonista dei primi tentativi è invece la grande guida di Chamonix Armand Charlet, specialista indiscusso del terreno misto e ghiacciatore di bravura insuperata. Ma come anche poi all’Eiger, sarà la difficoltà della roccia e non quella del ghiaccio a giocare la carta decisiva su questa parete. Charlet rivolse i suoi primi tentativi allo sperone della Walker, ma egli ne giudicò impossibile la salita: evidentemente era troppo condizionato dalla scuola classica da cui proveniva e ancora non riusciva a far sua la mentalità derivata dalla tecnica del chiodo e del moschettone. Come anche già abbiamo detto nell’introduzione, probabilmente, a causa di una sua inibizione, Charlet non riusciva a vedere nella parete il tracciato ideale già esistente. Invece altri più disinibiti, non solo vedranno il tracciato, ma anche lo realizzeranno. Vi fu anche un tentativo allo spaventoso colatoio centrale, che si concluse tragicamente con la morte di Hans Brehm e Leo Rittler travolti dalle scariche di sassi.

Bisogna giungere al 1931 per assistere ai primi veri tentativi, in cui cominciano a comparire anche gli italiani. Vediamo agire il valdostano Amilcare Crétier, con Lino Binel e Gabriele Boccalatte di Torino. Poi il grande Gervasutti, ormai inseritosi nell’ambiente torinese, con Piero Zanetti riesce a salire sullo sperone centrale della Croz per un buon tratto. Ancora provò Charlet, il quale non conoscendo l’uso dei chiodi (o non volendoli usare) si trovò in una situazione assai critica, in cui dovette rinunciare non tanto per incapacità, ma piuttosto per carenza di materiale.

Seguirono ancora altri tentativi, portati dal ginevrino Raymond Lambert con la valorosa alpinista Loulou Boulaz, e soprattutto dai primi tedeschi che giungono alla ribalta, Martin Meier e Ludwig Steinauer.

Ormai la parete era un boccone ambitissimo e si creò a poco a poco un’atmosfera di viva competizione, fino a giungere al capitolo finale, dove assisteremo ad una vera e propria corsa compiuta in parete tra le varie cordate concorrenti.

Rudolf Peters

Il 29 luglio 1934 Rudolf Peters, che ha alle sue spalle una eccellente preparazione sulle Alpi Calcaree, attacca la parete con Peter Haringer e viene raggiunto il 30 dagli italiani Renato Chabod e Giusto Gervasutti. Poi giunge anche il velocissimo Charlet che supera tutti con Fernand Bellin e sale molto in alto, fino a circa 3500 metri di quota. Però improvvisamente si scatena una bufera e tutte le cordate decidono di ritirarsi, ad esclusione di Peters e Haringer, che però restano bloccati in parete dal maltempo. Solo il 2 agosto Peters riesce a raggiungere la base dopo una tragica ritirata in cui Haringer perde la vita.

E veniamo dunque al 1935, dove si compie l’ultimo atto. La situazione del 1934 sembra ancora ripetersi: il 20 giugno Peters è ancora in parete con Martin Meier. Gervasutti e Chabod, che avrebbero sicuramente potuto assicurarsi il successo, esitano, influenzati anche dal giudizio negativo di Armand Charlet. Probabilmente essi ne subiscono il condizionamento (come poi anche ammetterà Chabod) in quanto vedono ancora Charlet come una specie di superuomo: essi forse inconsciamente si vedono inferiori alla grande guida di Argentière e non riescono a prendere coscienza di essere invece certamente più forti e preparati tecnicamente per un’impresa del genere. Peters e Meier, privi di questi complessi e forse più sicuri di loro stessi, non hanno esitazioni e concludono vittoriosamente il loro tentativo. Pochi giorni dopo (ormai la disinibizione è attuata!) Chabod e Gervasutti attaccano a loro volta seguiti da Lambert e dalla Boulaz ed effettuano la prima ripetizione della via aperta sullo sperone Croz.

Prima di narrare la conquista dello sperone Walker e della parete nord dell’Eiger, è necessario inquadrare alcuni fatti ed alcuni uomini che agirono in modo determinante in questo periodo.

Pierre Allain, il Dülfer dell’alpinismo francese, e la conquista della parete nord del Petit Dru
Abbiamo già illustrato i caratteri dell’alpinismo francese di questo periodo ancora ancorato al rigido schema classico. Se l’alpinismo francese riuscì ad uscire da questa morsa e ad aprirsi verso orizzonti più vasti, ciò fu sicuramente merito in gran parte del parigino Pierre Allain (1904-2000).

A circa una sessantina di chilometri da Parigi si estende la bella foresta di Fontainebleau, la cui caratteristica è quella di racchiudere tra i tronchi degli alberi alcuni blocchi di «grès» dalle varie forme e dimensioni, comunque di un’altezza mai superiore ai 15 metri. Su questi blocchi di roccia già all’inizio del secolo era praticata l’arrampicata, ma più che altro come esercizio fine a se stesso e non certo con pretese di intenso allenamento. Allain intelligentemente riuscì a capire che se questi blocchi fossero stati sfruttati a dovere, ne sarebbe uscita una palestra d’arrampicamento formidabile, capace di preparare all’arrampicata libera in modo eccezionale. Anche se Charlet ebbe a dire che i sassi di Fontainebleau al massimo potevano servire per stagnare le pentole bucate (ed ebbe naturalmente torto… ), Allain, invece, a poco a poco raccolse intorno a sé una schiera di parigini entusiasti e forse un po’ fanatici, i quali ben presto fecero di Fontainebleau una sorta di tempio della scalata.

In realtà, forse in nessun’altra palestra di roccia il «gesto» è stato spinto a tali raffinatezze, tanto che gli arrampicatori stranieri si trovano veramente sconcertati di fronte alla difficoltà dei passaggi. La poca altezza da terra permette di osare l’inosabile e di spingere l’arrampicata a livelli tecnici e stilistici incredibili.

Allain comprese, dunque, ciò che questi sassi potevano offrire e comprese anche l’importanza di avere un materiale curato ed efficiente per affrontare determinate salite nel Gruppo del Bianco. Fino ad allora non si dava molta importanza alla foggia delle calzature, al peso dei chiodi e dei moschettoni, alla foggia stessa dei chiodi, al materiale da bivacco. Tutto ciò creava durante la salita situazioni assai critiche, che si risolvevano in notevoli perdite di tempo oppure in incidenti che avrebbero potuto essere evitati. Allain lavorò parecchio con il cervello e con metodo e riuscì a perfezionare in modo ineguagliabile (almeno per l’epoca) la sua attrezzatura, soprattutto da bivacco.

Approfondì anche la conoscenza delle tecniche dell’arrampicata artificiale, anche se poi nelle sue ascensioni non ne fece molto uso: egli fu soprattutto un magnifico scalatore libero, maestro nel superamento delle strette e lisce fessure dove si sale con tecnica di incastro. Ma egli fu soprattutto l’uomo che nell’alpinismo francese creò una vera e propria rivoluzione e che seppe dare una poderosa spinta a molti altri, che sulla scia del suo esempio riusciranno a realizzare imprese di eccezionale valore.

La parete nord delle Grandes Jorasses. Foto: Nicolas Vigier.

La sua più grande impresa è naturalmente la prima salita della parete nord del Petit Dru. Posta al fianco della fantastica parete ovest, che a quei tempi ancora non era «visibile» agli arrampicatori per le sue difficoltà superabili solo da una arrampicata artificiale applicata sistematicamente, la parete nord del Petit Dru costituiva un problema pari a quello della Nord delle Jorasses, anzi dal punto di vista tecnico le difficoltà di roccia erano certamente superiori. Caratteristica di questa parete è una enorme nicchia (la «Niche») ghiacciata, posta proprio al centro della parete, al fondo della quale si eleva una stele di granito che di lontano pare un gigantesco fiammifero appoggiato contro il bianco fondo ghiacciato della nicchia.

Anche qui i tentativi erano stati numerosi, ma sempre infruttuosi. Addirittura i due svizzeri Robert Gréloz e André Roch si erano calati in corda doppia lungo tutta la parete, per scoprirne i punti più difficili. Allain il 31 luglio ed il 1° agosto del 1935 (dunque pochi giorni dopo la vittoria sullo sperone Croz di Peters e Meier) riesce a superare la parete, vincendo difficoltà di sesto grado assoluto, tali da classificare la sua via (e soprattutto il passaggio chiave: la «fissure Allain») come la più difficile scalata del Monte Bianco e delle Alpi Occidentali.

Certamente la via aperta era più dura della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey e fu superata solo dalle vie di Ratti all’Aiguille Noire e di Gervasutti al Picco Gugliermina e alla Est delle Grandes Jorasses (nonché di Cassin, naturalmente, allo sperone Walker, sempre delle stesse Jorasses).

Durante la salita gli fu compagno Raimond Leininger, anch’egli prestigioso arrampicatore del «tempio» parigino di Fontainebleau. Ma di Pierre Allain va ricordata anche tutta la serie di prime ascensioni che egli fece prima della guerra sulle Aiguilles de Chamonix (al Fou, al Caiman, al Crocodile, alla Blaitière, ecc), tutte scalate di notevole difficoltà tecnica, che ancora oggi sono annoverate tra le più belle classiche dell’intera catena alpina.

Dopo la guerra, Allain si è dedicato con successo alla fabbricazione di materiali per alpinismo.

La vittoria di Riccardo Cassin sullo sperone Walker
Fu proprio Pierre Allain il primo a portare un serio tentativo allo sperone della Walker: nel 1938, con Édouard Frendo, il parigino riesce a scoprire la via di salita nel primo terzo della parete, dopo aver superato con l’aiuto dei chiodi una difficile fessura che ora porta il suo nome. Era il primo agosto, ma i due decisero di ritirarsi perché a loro la parete pareva in cattive condizioni. E fu qui che Allain peccò di presunzione e si lasciò sfuggire di mano il successo. Forte della scalata compiuta al Petit Dru, Allain sapeva di essere allora il migliore scalatore di Francia ed aveva pure capito durante il suo tentativo che al momento nessun altro al di fuori di lui (almeno in Francia) era in grado di superare simili difficoltà. Egli dorme quindi i suoi sonni tranquilli e può anche permettersi di attendere che le condizioni migliorino, in quanto considera lo sperone ormai un affare suo.

Ma Allain non sa che proprio lo stesso giorno sta discendendo dal Colle del Gigante, diretto verso lo sperone Walker, un uomo come Riccardo Cassin, affiancato da Gino Esposito e Ugo Tizzoni. La «macchina per arrampicare» di Lecco non conosce il Monte Bianco e nemmeno ha mai visto la parete nord delle Grandes Jorasses. Cassin sa che lo sperone della Walker è il più grande problema alpinistico del momento, ma la parete l’ha vista soltanto su una cartolina che alcuni amici gli hanno mostrato prima di partire. Cassin non sa assolutamente nulla dei tentativi precedenti e tanto meno dove gli altri siano già saliti. Per lui quella parete non ha una storia particolare, è una parete di roccia e di ghiaccio come tante altre che lui ha già salito.

Infatti attacca la parete e sale direttamente, superando una fessura di estrema difficoltà, che in seguito non verrà quasi mai più ripetuta. Egli, infatti, non sa nulla del tracciato di Allain, certamente più facile, che si svolge invece più a sinistra. Ma Cassin è l’uomo che non si arresta di fronte a nulla: arriva, studia la parete e sale fino in vetta senza esitazione alcuna. Per vincere lo sperone i tre lecchesi impiegano tre giorni e due bivacchi, superando difficoltà di ordine decisamente superiore. Più volte Cassin, forte del suo intuito leggendario, seppe trovare la giusta soluzione in settori di parete che si presentavano come estremamente problematici.

In questo stile assolutamente fantastico, con questa decisione ed anche con questa semplicità, senza inibizione alcuna e senza timori inconsci a cui erano soggette le altre cordate, il gruppo lecchese guidato da Riccardo Cassin realizzò quella che fu definita come una delle più grandi imprese della storia dell’alpinismo. Ed è proprio questa estrema aderenza alla realtà, questa capacità di lottare in parete isolando il cervello, questo non considerare i giudizi altrui, che permise a Cassin di passare vittorioso alla Nord della Ovest di Lavaredo, al Badile e alla Walker. La via aperta presentava un concentrato di difficoltà di roccia e di misto da farne a quel tempo la più difficile salita della catena alpina. E tale rimarrà molto a lungo, praticamente fino agli anni Sessanta. Ma anche se la via Cassin è stata superata come difficoltà da altri itinerari, essa rimane pur sempre una salita eccezionale, dove l’alpinista si trova impegnato sotto tutti gli aspetti. In caso di cattivo tempo, la ritirata sovente è impossibile e non sono poche le cordate (anche di alpinisti fortissimi) che hanno dovuto combattere al limite delle loro forze e delle loro possibilità per uscire dalla parete.

Purtroppo oggi i molti chiodi presenti sulla via hanno addomesticato parecchio i tratti più duri. Ma chiunque percorra questa via non può che restare ammirato di ciò che i lecchesi seppero fare nel 1938, e soprattutto del modo in cui essi lo fecero.

La terribile parete nord dell’Eiger
La parete nord dell’Eiger (Oberland Bernese) non è certo bella e nemmeno offre agli alpinisti un’arrampicata entusiasmante e divertente. Quando si giunge ai verdissimi pascoli della Scheidegg che salgono fino a lambire la base della parete, essa non appare poi così smisurata e terribile come è in realtà. Alta circa 1600 metri (in realtà 1800 m, NdR), di roccia calcarea piuttosto mediocre, caratterizzata da grandi nevai pensili, la parete nord dell’Eiger fu l’assillo degli alpinisti austriaci e tedeschi durante il periodo che precedette il secondo conflitto mondiale. D’altronde era una parete che bene si adattava al loro spirito romantico che ormai aveva varcato le soglie del decadentismo, contaminato anche dalla propaganda nazionalista che il regime di Hitler aveva inculcato al suo popolo.

Riccardo Cassin, Gino Esposito e Ugo Tizzoni (in ordine di cordata) giungono al rifugio Boccalatte dopo la salita della parete nord delle Grandes Jorasses. Foto: Guido Tonella/Fondazione Cassin.

La storia della conquista della parete nord dell’Eiger è certamente interessante e può essere utile per comprendere più a fondo la situazione in cui l’alpinismo versava prima della guerra. D’altronde l’alpinismo rispecchiava chiaramente la situazione stessa, storica e politica, dei vari Paesi che ormai andavano preparandosi allo scontro. Chi si lascia impressionare dagli aspetti tragici e funesti che sono legati alla storia di questa parete, evidentemente è fuori strada, in quanto la sua emotività non gli può permettere di analizzare lucidamente le cause ed i motivi dell’agire umano in questa determinata situazione.

Già nella parte introduttiva abbiamo cercato di spiegare i legami che sussistono tra la morte e l’agire dell’alpinista e come, in determinate situazioni, la morte cominci a galleggiare prepotentemente e a far sentire la sua superiorità indiscussa. Gli assalti alla Nord dell’Eiger furono condotti con una violenza ed una aggressività veramente inconsueta, caratteristica di un alpinismo che ormai cercava ad ogni costo un’affermazione e una vittoria su se stessi e sulla Natura. Probabilmente le tensioni accumulate durante i duri anni vissuti nei regimi dittatoriali, avevano causato delle repressioni assai potenti, che ora cercavano sfogo e liberazione nell’azione alpinistica violenta ed aggressiva, diretta contro la Montagna. Ed è inutile dire che quando l’uomo scarica la sua aggressività contro la Natura, ha tutto da perdere (soprattutto la vita) e nulla da guadagnare.

Dunque la Nord dell’Eiger per molti alpinisti rappresenterà l’ostacolo da abbattere, il nemico da vincere, il drago da uccidere. Dopo penserà la guerra, con i suoi lutti e le sue distruzioni, a placare i bollori e a liberare l’energia distruttiva catalizzata da alcuni popoli incatenati dalla morsa dittatoriale e frustrati nella loro libertà. I tentativi e la lotta che si svolge sulla Nord dell’Eiger sono come un campanello d’allarme, un preavviso, un anticipo di ciò che accadrà in seguito. Salire la Nord dell’Eiger non fu un divertimento per nessuno, anzi per tutti coloro che l’hanno salita, salvo casi eccezionali, si è trattato di un’esperienza da non ripetere. Eppure, stranamente (ma non tanto stranamente se ci si ricollega a quanto esposto all’inizio) l’uomo a volte si sente terribilmente attratto dal rischio, dal pericolo, diciamo pure apertamente dalla prospettiva della morte. In ciò non vi è nulla di scandaloso o di riprovevole, è semplicemente un dato di fatto, come è un dato di fatto la guerra, per quanto orribile essa sia e possa apparire. Ma è una realtà. E come tale va studiata.

Poesia, retorica, pacifismo, bei discorsi, non hanno senso in una seria analisi che tenga veramente conto delle pulsioni inconsce dell’individuo e che finalmente tolga il mantello all’animale chiamato uomo, spogliandolo della sua veste di candido agnello e rivelandolo nella sua essenza celata (e abilmente sublimata) di lupo. In determinate situazioni l’aggressività non riesce ad essere filtrata e contenuta e traspare con tutta la sua potenza distruttrice, sia che venga diretta verso gli altri, sia che venga diretta contro uno specchio ribaltatore (la parete della montagna) e quindi tragicamente verso se stessi.

È quindi inutile chiedersi perché certi alpinisti amino salite come la Nord dell’Eiger. Perché amino arrampicare su roccia marcia, ghiacciata, sotto le cascate d’acqua, nei colatoi battuti dalle slavine, sotto la minaccia costante delle scariche di sassi, con la certezza che in caso di venuta del maltempo si è racchiusi in una trappola mortale. È stupido voler apparire ciò che non si è: meglio accettarsi per ciò che veramente si è, anche se ciò per alcuni può risultare molto amaro. Per molti la lotta, il combattimento costante con se stessi, sono l’unico modo di sentirsi vivi. Assurdo sarebbe voler indicare i buoni ed i cattivi, ergersi a giudici e dire «io ho ragione, perché vado in montagna così, loro sono nell’errore». Il silenzio è una regola molto dura e difficile da apprendere. Capire è diverso da giudicare.

Capire vuol anche dire scoprire in sé (con amara sorpresa) tutto ciò che con troppa facilità si sarebbe condannato negli altri.

In ogni caso l’agire umano ha una sua motivazione ed esige rispetto. Dire che coloro che persero la vita tentando la Nord dell’Eiger erano pazzi, è una giustificazione che fa comodo a molti e lascia il tempo che trova.
Esaltare il loro gesto e definirlo «eroismo» è altrettanto inutile.

La parete nord dell’Eiger. Foto. Marco Milani.

Semplicemente ci troviamo di fronte ad una realtà, ossia a dei fatti che accaddero in un preciso momento storico per conquistare una parete, che quasi era assurta ad un simbolo. In ogni caso la lotta che si svolse su quel muro di roccia a volte fu veramente terribile e richiese a chi combatteva un tributo di tenacia, di resistenza e anche di fede, che fa veramente riflettere. Ma la Nord dell’Eiger in fin dei conti non è che un simbolo: nella vita, nel mondo, e non solo sulle Alpi, ma in mille altre cose di ogni giorno, ci sono milioni di Nord dell’Eiger su cui ciascuno si impegna forse senza nemmeno sapere perché, convinto che al termine della parete vi sia la vetta tanto sognata.

Passeremo quindi assai rapidamente sulla lunga serie di tentativi, per la narrazione dei quali sono stati versati non fiumi, ma veri e propri mari di inchiostro non solo dai diretti protagonisti, ma anche da giornalisti e scrittori che dell’alpinismo nulla sanno, sollecitati dalla prospettiva di vendere assai bene il loro «prodotto tragico» ad un pubblico morboso e malato, assetato di morte, necessaria per soddisfare le sue torbide esigenze di amare gli altri e di impietosirsi per scoprirsi finalmente nella schiera dei «buoni».

Ricorderemo quindi come sia stato Andreas Hinterstoisser a scoprire la traversata che dava accesso alla parte centrale della parete. Ricorderemo anche come Max Sedlmayer e Karl Mehringer fossero giunti molto in alto, fino al cosiddetto «bivacco della morte», da cui non dovevano più tornare. Ricorderemo la tragica fine di Toni Kurz, morto di stenti a soli due metri dalla corda che gli avrebbe dato la salvezza, la morte di Bortolo Sandri e Mario Menti, gli unici italiani che tentarono di salire la parete. Ricorderemo come Hitler sia giunto ad offrire una decorazione a chi avesse superato la parete. Ricorderemo il tentativo del grandissimo arrampicatore austriaco Mathias Rebitsch, che con Ludwig Vörg trovò la chiave di risoluzione dell’intera parete, ma poi dovette ritirarsi (1937) e fu uno dei pochi che se la cavò senza alcun incidente, riuscendo a raggiungere la base dopo 100 ore di permanenza in parete. Eppure qualche parola su Rebitsch bisogna pur dirla, a prescindere dal suo tentativo alla Nord dell’Eiger. Con certezza si può affermare che egli fu il più abile arrampicatore su roccia di scuola tedesca degli anni Trenta. Alcune sue imprese hanno fatto storia e sono ancora oggi citate come dei capolavori insuperati di arrampicata libera. La sua via sulla parete nord della Laliderer offre tratti di sesto grado superiore in arrampicata libera senza alcuna possibilità di assicurazione; una via dove, per chi si accinge a ripeterla, si deve considerare quasi certa la possibilità di caduta. E lo stesso dicasi per la via aperta sulla Goldkappel, che lo stesso Reinhold Messner ha valutato, in senso assoluto, come una delle più ardue arrampicate che mai siano state compiute.

Il 1938 fu l’anno del successo, che arrise ad un gruppo austro-tedesco, diviso in due cordate, che però agirono poi in unione fino alla vetta. Da un lato abbiamo gli austriaci Fritz Kasparek e Heinrich Harrer, uomini ancora della vecchia scuola, infatti dotati di attrezzatura un po’ sommaria e rudimentale: Harrer era fornito solamente di scarponi chiodati, mentre Kasparek poteva disporre di ramponi a dieci punte.

Harrer ebbe una vita avventurosa e straordinaria, che lo portò in seguito a vagare per anni nelle valli del Tibet e poi a scoprire tra le foreste della Nuova Guinea alcune tribù di aborigeni ancora sconosciute.

Da sinistra, X, Heinrich Harrer, Fritz Kasparek, Anderl Heckmair, Ludwig Vörg, Y, alla Kleine Scheidegg dopo la prima ascensione della parete nord dell’Eiger.

La cordata dei tedeschi era sicuramente più forte e preparata sia sul piano tecnico che su quello psicologico. Poteva contare su un uomo come Anderl Heckmair, dotato di una tenacia, di una determinazione e di una resistenza fisica e morale quasi leggendarie. Heckmair ebbe un’infanzia durissima, infatti crebbe in un orfanotrofio e mai ebbe vita facile. Forse proprio per questo trovò nell’alpinismo una compensazione alle durezze della sua esistenza. Pochi alpinisti, comunque, seppero dare dimostrazioni di tenacia e di resistenza come lui seppe fare sia sulla Nord dell’Eiger che sulla parete nord delle Grandes Jorasses (sperone Walker), superata in condizioni decisamente invernali, con assoluta noncuranza del cattivo tempo scatenato durante tutta la loro permanenza in parete. Non per nulla durante la prima salita all’Eiger, fu proprio Heckmair ad assumere il comando del gruppo e lo conservò fino in vetta, dimostrando più volte di possedere doti fisiche e psichiche assolutamente fuori del normale. Lo stesso Harrer ebbe a dire: «… guardai giù lungo la nostra interminabile fila di gradini e vidi la Nuova Era che sopraggiungeva a velocità sbalorditiva. Due uomini “correvano”, non scalavano lungo il nevaio verso di noi. Era sorprendente pensare che, attaccando quel mattino, avessero potuto fare già tutto quel cammino; erano di certo i migliori candidati all’Eiger. Si trattava di Heckmair e Vörg attrezzati con ramponi a dodici punte: improvvisamente mi sentii vecchio e sorpassato… ».

Eppure, durante le successive ripetizioni, vi è anche chi sulla Nord dell’Eiger si è divertito. Probabilmente dipende molto dallo spirito con cui si affronta la parete e dalle condizioni in cui essa viene trovata. Tecnicamente i passaggi di roccia non sono mai estremi (se trovati in buone condizioni), ma bisogna tenere conto che quasi sempre la roccia è ghiacciata o bagnata. Ma ciò che fa della Nord dell’Eiger una salita durissima, non è tanto la difficoltà tecnica in sé, ma l’impegno fisico a cui si è sottoposti: il tracciato, che cerca i punti più deboli della parete e quelli posti al sicuro dalle scariche di sassi e dalle valanghe, compie numerosissime traversate orizzontali, tanto che la via si sviluppa per circa 2500 metri! La progressione deve essere sempre rapidissima e sovente bisogna letteralmente correre senza alcuna possibilità di assicurazione per lunghi tratti, per sottrarsi in fretta al pericolo delle scariche. Il problema della tensione nervosa e dell’angoscia derivata dal timore del cattivo tempo, è determinante e richiede all’alpinista un provato controllo della propria emotività, oppure un fatalismo che raggiunge l’incoscienza. La Nord dell’Eiger e la vittoria di Cassin sulle Jorasses, sono i due ultimi episodi che chiudono questo periodo prima della Seconda guerra mondiale.

Da sinistra, Renzo Pasquazzo (con dietro X e Y), Riccardo Cassin, Anderl Heckmair, Z: visita degli ospiti del Festival di Trento alle Cantine Ferrari del Trentino (1982).

Ma prima di passare al periodo post-bellico, dobbiamo fare un piccolo passo indietro ed illustrare la figura di uno dei personaggi-chiave di tutta la storia dell’alpinismo: Giusto Gervasutti, che proseguì la sua attività anche durante gli anni della guerra.

È anche necessario inquadrare l’evoluzione del mondo alpinistico torinese e piemontese che ruotò intorno alla figura di Gervasutti, la cui vita ci permette di comprendere abbastanza bene tutto il travaglio interiore di una generazione. Non solo, ma anche la stessa contraddizione di base che sta alle radici dell’alpinismo. Giustamente si dice che fu Cassin a porre senza alcuna possibilità di replica la parola fine alla polemica tra occidentalisti ed orientalisti. Ma bisogna anche dire che fu Gervasutti a realizzare l’unione sul piano culturale (ed anche tecnico), risvegliando un ambiente come quello piemontese, che probabilmente soffriva di una pesante tradizione classica, la quale lo ancorava a schemi inibiti e circoscritti, limitando il suo potenziale raggio d’azione.

Il merito fondamentale di Gervasutti fu quello di dar coscienza delle proprie e reali possibilità agli alpinisti delle Alpi Occidentali.

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La sfida delle tre Nord ultima modifica: 2024-07-12T05:04:00+02:00 da GognaBlog

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29 pensieri su “La sfida delle tre Nord”

  1. Io considero l’egoismo come una grande virtù ma mi guardo bene dall’avere opinioni positive su chi, anche forte alpinista, non sia prima di tutto una brava persona. Conosco moltissimi grandi alpinisti ma amici alpinisti ne ho pochissimi. 

  2. Non generalizzo affatto, leggi la seconda-terza riga dell’intervento precedente.

  3. Armando Aste , che ho avuto la fortuna di conoscere di persona, ci siamo incontrati più volte, di cui ho ripetuto parecchie sue vie, è stato un grande alpinista e, per me, anche una grande persona.
    Quindi caro Crovella non generalizzare.

  4.  Andare “bene” in montagna non ha una indiscutibile correlazione diretta con i “buoni sentimenti” individuali. Ovviamente ci sono alpinisti che sono ANCHE delle bravissime persone a titolo individuale, ma in genere gli alpinisti di punta hanno non poche ombre gravanti sulla loro personalità. Non arrivo a dire che siano stati tutti delle SS, ma dei gran egoisti sì. Un alpinista che ha contribuito alla storia dell’alpinismo, nel ventennio come in altri periodi, è stato un gran egoista o almeno un egocentrico. non faccio nomi per non beccarmi querele per diffamazione, ma chi conosce la storia dell’alpinismo coglie l’aspetto. Insomma, non erano delle Madri Terese di Calcutta, sennò non si sarebbero dedicati all’alpinismo di punta, ma alla filantropia. Quindi collegare i buoni sentimenti all’importanza alpinistica dei personaggi è una presunzione che ha una finalità di tornaconto individuale. Intendo che si vuole dare una pennellata di nobiltà a un’attività che piace a noi in prima persona, è un po’ come dire “l’alpinismo è la “mia” passione e voglio che sia nobilitato agli occhi di tutti, quindi cerco i buoni sentimenti negli alpinisti, così anche io salgo su quel carro di nobiltà d’animo e vengo ammirato da parenti/amici ecc.”

  5. Nessuno mette in discusione il valore alpinistico di certi personaggi, anche se poi ci sarebbe da domandarsi se, questi stessi personaggi, sarebbero stati in grado di fare certe prime, senza altri personaggi. Comunque non conta solo l’aspetto alpinistico, sapendo come alcuni umanamente la pensano, me ne guarderei bene da legarmi alla stessa corda. Quindi mescolare l’aspetto umano, con quello alpinistico non mi sembra affatto fuori luogo.

  6. Scrive Crovella:

    […] c’è una tara di fondo: che un alpinista tecnicamente “bravo” sia, a monte, un uomo di sani principi, per cui uomini tarlati non possono esser alpinisti tecnicamente bravi. Anzi spesso si rovescia il ragionamento: se uno è un alpinista bravo, ciò è prova della sua nobiltà umana (altrimenti non sarebbe un alpinista tecnicamente bravo).

    In effetti non escludo che questa convinzione sia ancora diffusa in qualche circolo parrocchiale (con rispetto parlando) oppure in qualche gruppetto di vecchi caiani (sempre con rispetto parlando), mentre in tutti gli altri ambienti è stata sfatata almeno dagli anni ’60 (se non prima).
    A me sembra che questa visione dell’alpinista come eroe puro sia proprio figlia di quella, superata, cultura degli anni ’20/’30 cui anche Crovella fa canno.
    Quindi, come qualcun altro ha già scritto in un altra discussione su questo blog: nessuno mette in discussione il valore alpinistico di certi personaggi, ma il valore umano sì!
    Nella storia dell’alpinismo ricordiamo tutti i grandi alpinisti, ma quando si tratta di ricordare/celebrare l’uomo anche al di fuori del ristretto ambito dell’alpinismo (ad esempio con un monumento pubblico, o con l’intitolazione di una via/piazza) a chi dobbiamo guardare?
    A chi ha commesso azioni o, peggio, crimini odiosi e/o spregevoli?
    Questo vale non solo per gli alpinisti.

  7. Mescolare le due cose crea solo un gran minestrone. Se si vuole parlare di alpinismo, occorre astrarsi dal resto. Altrimenti se si accettano solo gli individui “immacolati”  non se ne esce. Inoltre c’è una tara di fondo: che un alpinista tecnicamente “bravo” sia, a monte, un uomo di sani principi, per cui uomini tarlati non possono esser alpinisti tecnicamente bravi. Anzi spesso si rovescia il ragionamento: se uno è un alpinista bravo, ciò è prova della sua nobiltà umana (altrimenti non sarebbe un alpinista tecnicamente bravo). Ma è un errore logico: non c’è nessuna correlazione fra i due fenomeni. Anzi, nello specifico va sottolineato che la cultura nazionalista dei ’20-’30 (del Novecento) ha contribuito alla crescita del contemporaneo alpinismo austro-tedesco e quindi è alla base dell’epopea del VI grado. E’ una generalizzazione, che faccio per sintetizzare i concetti, ma, chissà, forse senza la cultura nazionalista di quei due decenni non ci sarebbe stata l’epopea del VI grado, o almeno non si sarebbe sviluppata nel modo in cui si è sviluppata. Quindi, da alpinisti (e appassionati della storia dell’alpinismo), dovremmo esser contenti che, storicamente, ci sia stato quel periodo e quella cultura. Ovviamente i costi complessivi che ha pagato l’umanità non legittimano il fenomeno storico nel suo insieme. Ma, appunto, i veri appassionati della storia dell’alpinismo devono tenere le cose ben distinte e saperle analizzare con chirurgica freddezza. Altrimenti si inseriscono nella storia dell’alpinismo delle distinzioni valutativi (individui/alpinisti “buoni” e individui/alpinisti “malvagi”) che non c’entrano un fico secco con l’alpinismo.

  8. Bellissimo, bravo Gogna,articoli che sembrano libretti questo tuo blog mette i puntini sulle i con precisione assoluta, sono classe 1960 ho fatto in tempo a conoscere Cassin nel 1981 quando arrampicavo a Monte Cucco a Finale Ligure, era lì con tutta la sua storia, eppure arrampicava a  Finale il Cassin! Nel 1980 avevo fatto da capocordata la Cassin alla Ovest di Lavaredo già piena di chiodi, un’opera d’arte, ricordo che eravamo partiti presto eppure nella parte finale ci siamo trovati davanti in alto una cordata francese! I TEDESCHI sono una razza superiore lo dicono i fatti, Hitler è stato un artista di valore ma senza il popolo coeso,e che popolo, con lui, non sarebbe diventato Hitler. Certo è sempre rischioso parlare in certi termini di Hitler ma siamo tutti sicuri che non avrebbe ricevuto il premio nobel per la pace!

  9. Crovella, sarà forse come dici tu…
     
    Però un alpinista membro orgoglioso delle Schutzstaffel a me fa comunque uno strano effetto. Come dire? Di repulsione, disgusto, ripugnanza.
    Detto in altro modo, se Josef Mengele fosse stato nella cordata sulla nord, io lo avrei prima giudicato per i suoi “contributi” alla medicina, ad Auschwitz Birkenau, poi – ma solo poi – per l’Eiger.
    Tu no?
     
    N.B. Qui non si sta parlando della cultura della cancellazione (o, meglio, della cancellazione della cultura). Qui non si sta parlando di Indro Montanelli o Cristoforo Colombo.
    Qui si sta parlando di boia dell’umanità. 

  10. Certi commenti sull’attività politica dei personaggi mi fanno cascare le… braccia. Mi ricordano quei “fenomeni” che vorrebbero togliere la statua di Indro Montanelli, accusandolo di essere un pedofilo, perché, in Africa, sposò una giovane donna, che – 12enne mi pare – nella sua cultura tribale, tra l’altro nel 1935-36, cioè 90 anni fa!, era in “età da marito” (cioè se non avesse sposato Montanelli, nello stesso periodo sarebbe cmq andata in sposa a un altro uomo). Oppure quelli che vogliono abrogare la via dedicata ad Almirante o che richiedono le “dimissioni” di tizio o di caio per eventi collaterali e/o esternazioni varie. Qui poi le questioni ideologiche non c’entrano niente con l’importanza alpinistica dei personaggi. Non è che un alpinista sia migliore o peggiore in funzione del suo backstage ideologico. Ho già citato nei mesi scorsi che esiste una linea di pensiero (accreditata, anche se io non la condivido, ma solo perché non ritengo che i riferimenti citati siano delle “prove oggettive”), secondo la quale Gervasutti fu un agente dell’OVRA (la polizia politica del regime) o quanto meno un delatore prezzolato. Allota domando: se si arrivasse a prove oggettive di tale tesi, che succederebbe fra gli alpinisti odierni? Improvvisamente la Est delle Jorasses diventerebbe una latrina da cui tenersi alla larga per il tanfo che emana? E il Pilier Nord del Freney? E l’Ailefroide?… In realtà il valore alpinistico di quelle imprese non ha nessun correlazione con l’eventuale agire di Gervasutti.
    In parole povere: l’importanza di Gervasutti nella storia dell’alpinismo non cambierebbe di un micron. Lo stesso quindi deve valere per tutti gli altri alpinisti, compresi quelli qui citati.

  11. E ora – squillo di trombe e rullo di tamburi! – una calorosa lode al nostro amministratore del GognaBlog (sia chiaro: questa NON è una volgare ruffianata):
    Alessandro, non sei orgoglioso del tuo “Mesolcina – Spluga. Monti dell’Alto Làrio”?
     
    P.S. Beninteso, il merito va anche ad Angelo Recalcati.

  12. Alberto, scommetto che le pagine si sono consumate a forza di sfogliarle. Da lustrarsi gli occhi!
    😀 😀 😀
    N.B. Certi libri vanno comprati in duplice copia: una da battaglia e l’altra da conservare religiosamente in vetrinetta come una reliquia.
    …. … …
    Come qualità quel libro equivale, nel campo della storia dell’alpinismo, ai capolavori di Gino Buscaini tra le guide alpinistiche.
     
    DOMANDA AI MAGGIORENTI DEL CAI
    Il CAI non si vergogna di aver cessato la pubblicazione della Guida dei Monti d’Italia? 
    Ah, già! Ora vanno di gran moda le biciclette e le passeggiate tra i prati. Però, come disse Renato Chabod tanti anni fa, sullo stemma del CAI c’è un’aquila, non un fagiano…

  13. Eiger. Trionfi e tragedie. 1932-1938”,di Rainer Rettner, Casa Editrice Corbaccio, Milano, 2010.

    c’è l’hò

  14. Da me ( Nord est ) gli orrori li hanno messi in atto i partigiani : PUNTO !

    di orrori ne hanno commessi in tanti: neri, rossi, cristiani, mussulmani, fascisti, nazzisti e comunisti, ect. Ma questa non è una scusante per giustificare e fare spallucce. 

  15. Per quanto concerne la storia dell’alpinismo, uno dei libri piú interessanti che conosco è “Eiger. Trionfi e tragedie. 1932-1938”, di Rainer Rettner, Casa Editrice Corbaccio, Milano, 2010.
    Il testo è esauriente, frutto di accurate ricerche; innumerevoli sono le fotografie in bianco e nero dell’epoca (stupende!).
    Il libro, pur redatto con rigore storico, è pieno di pathos e rispettoso verso gli alpinisti che affrontarono la montagna in quegli anni. Alcuni brani si leggono come un romanzo giallo.
     
    Io, se fossi in voi, non me lo lascerei scappare…

  16. La storia della conquista delle nord è cosa nota.
    La parte che più trovo interessante in questo racconto, è quella che va dalla fine del Cervino alla traversata Hinterstoisser dell”Eiger.
    Ci sono considerazioni applicabili a molti ambiti della vita che trovo molto profonde. 

  17. Bellissime anche le foto e attenta l’analisi che l’autore sviluppa rispetto all’aggressività del dopo guerra e della tendenza a condannare senza sapersi osservare.

  18. Nutro stima per chi si ribella senza assoggettarsi a ordini folli, per chi è riuscito a non partire per combattere guerre e per chi ha saputo e sa offrire il proprio aiuto a chi fugge.

  19. Da me ( Nord est ) gli orrori li hanno messi in atto i partigiani : PUNTO !
    .
    E ho fatto in tempo a parlare con tanti vecchi e vecchie con i neuroni non ancira ostruiti dall’ideologia , che hanno dato alloggio a militari tedeschi in rotta , inseguiti da gruppi di delinquenti titini che poco tempo prima al massimo fuggivano sulle montagne e rapinavano qualche contadino.

  20. Sempre densi, i racconti di Motti!

     

    Per Alpi Calcaree ci si riferisce a un particolare tratto o è solo un nome generico?

    Grazie, Fabio, per i preziosi aneddoti!

    Sorvolo sui deliri di Expo, che ancora sto cenando 🙂

  21. Fin quando l’argomento è leggero, posso anche accettare di leggere un anonimo, ma quando si fanno nomi e cognomi, soprattutto di questa portata, bè io a uno che non si firma lo mando tranquillamente a fanc.

  22. Le SS sono state un ORRORE del passaggio dell’uomo su questa terra.
    PUNTO E BASTA!!

  23. Nessuno con un minimo di sale in zucca nega che un ex SS possa anche essere una compagnia piacevole per farci una partita a bocce; il problema semmai si palesa quando si va più in profondità ed emergono i valori in cui si riconosce (o meglio, parlando di valori, NON si riconosce).
    Per quanto riguarda il ventennio, credo sia corretto distinguere chi aderì al fascismo con convinzione da tutti gli altri (non che questo sia sempre possibile, ovviamente).
    Per tornare ai 4 dell’Eiger: giustamente li celebriamo tutti insieme come primi salitori, ma se dovessimo fare un monumento ad uno di loro, a chi lo faremmo?
    All’ex SS Harrer?

  24. SS e’ una sigla.
    Sotto quella sigla c’erano degli uomini.
    .
    Io non ho avuto l’impressione di “macellai” ne dall’uno ne dall’altro ; anzi , l’italiano , come chi ha visto molte atrocita’ non amava parlare della guerra.
    .
    Mio nonno paterno festeggiava sempre un anonimo giorno di marzo , un giorno chiesi a mio padre perche.. ?
    .
    Per uno scherzo del destino quel giorno era sfuggito a morte certa sul fronte Greco.

  25. Non si giudica un essere umano solo sulla base delle sue opinioni politiche, ma una SS sí!
    Emilio Comici fu fascista (commissario prefettizio) ma prima di tutto uomo buono, leale e generoso, lontano anni luce dai fanatismi dell’epoca. Io lo stimo per ciò che è stato, non per la tessera (che, tra l’altro, avevano quasi tutti).
    Però le SS – tutte le SS – furono un orrore, chi piú e chi meno.

  26. Io mi sono fatto una personale opinione : la storia e la verità sono scritte da chi vince le guerre..Pensare che al tempo (n-1 ) minuti tutti i tedeschi fossero “bastardi” perchè nazisti e che tutti gli italiani fossero “bastardi” in quanto fascisti , e che un minuto dopo la conquista da parte degli alleati fossero tutti ferventi atlantisti mi fà un filo ridere , ma sic transit gloria mundi..Volevo portare l’esperienza diretta di due vegliardi che ho conosciuto incidentalmente praticando sport..Vegliardo 1 : parente di un amico , ingegnere del fuherer ed invitato ai ricevimenti del “capo” al “nido d’aquila” , chiudeva le lettere indirizzate al “boss” con qualcosa tipo “Heil H…”..Come persona abbastanza normale , e con qualche pregiudizio verso noi italiani , che eravamo :”Bravi a correre e a scappare”..Campò piu di 100 anni , e cercai di vivere di lui solo l’aspetto sportivo , che fu bello ed interessante perchè amava molto la vita all’aria aperta..Vegliardo 2Fu mio insegnante di scherma e se ne andò a 89 anni una decina di anni fa’..Persona rocciosa e caustica , ma schietta,Aveva affrontato dei duelli “veri” , con la sciabola e senza maschera quando andò a combattere insieme ai tedeschi e gli dissero :”Italiano di merda” , e mi raccontò di quanto ci si cagava addosso dopo avere lanciato un guanto di sfida da cui poteva dipendere la tua esistenza..La divisione di “arditi” a cui apparteneva , da quello che mi dicevano , fu quasi completamente sterminata in Indocina in un attacco suicida..Morì come un anziano qualunque , e pur con un carattere difficile ci faceva piacere quando passava in sala..Nessuna apologia dei “cattivi” , ma erano uomini non troppo diversi da noi..Adesso se fossi un politico Bonelli o Conte mi chiederebbero di :”Dare le dimissioni”..:-)
     

  27. All’epoca in cui scrisse Gian Piero Motti, non si sapeva ancora del passato nazista di Harrer, dapprima SA e poi addirittura SS.
    Anche Kasparek fu una SS.
    Invece di Heckmair e Vörg non si ha alcuna notizia in merito. O meglio, sappiamo quanto segue, secondo quanto riferí lo stesso Heckmair. Durante l’ascensione sull’Eiger Harrer gli rivelò che aveva intenzione di sventolare in vetta la bandiera nazista (o gagliardetto con la svastica). Al che Heckmair gli avrebbe ribattuto: “Se ci provi, scaravento giú te e la tua bandiera”. Fortunatamente la bufera in cima impedí di affrontare la questione.
    Una volta scoperto il suo passato nazista, dapprima Harrer tentò di negarlo, poi – di fronte a prove inoppugbabili – lo giustificò come errore di gioventú (sic).
     
    Un’altra vicenda, nel 1957, fu quella di Corti e Longhi con Nothdurft e Meyer, di nuovo sulla parete N dell’Eiger. Harrer in un suo libro accusò Corti in modo pesantissimo, senza prove certe. Poi, qualche anno piú tardi, quando la scoperta dei cadaveri dei due tedeschi scagionò Corti, Harrer non ammise l’errore, ma insistette in modo testardo nelle sue accuse di negligenza, incapacità, imprudenza, impreparazione.
     
    Io mi sono formato l’opinione che i sette anni nel Tibet non avessero poi cambiato di molto il suo carattere, almeno la sua protervia.
     
    Vörg combatté in guerra. Morí sul fronte russo, il primo giorno dell’Operazione Barbarossa. Aveva ventinove anni.

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