Franco Ribetti

Giovedì 18 aprile 2024 Franco Ribetti ci ha lasciati. Era entrato giovanissimo nel nostro Club e per me, e per molti altri, oltre ad essere collega di scalate, è stato un grande amico. Non è nel mio carattere fare commemorazioni e tessere le lodi di un personaggio scomparso. Io amo raccontare storie e quella di Franco è una bella storia che merita di essere raccontata. Cercherò perciò di ripescarla nei miei ricordi per quanto ne sono capace. Oltre al dolore per la perdita dell’amico, mi rattrista pensare al lungo periodo di malattia che lo ha accompagnato negli ultimi tempi (Ugo Manera).

Franco Ribetti
di Ugo Manera
(pubblicato su clubalpinoaccademico.it il 23 maggio 2024)
Foto: Archivio Ugo Manera

La prima volta che incontrai Franco Ribetti fu il 25 aprile 1959 alla Rocca Sbarua. Dopo poco più di un anno di scalate facili volevo alzare un po’ il tiro e misurarmi su arrampicate più impegnative, era la prima volta che mi recavo nella più celebre e severa palestra di roccia di allora dei torinesi. Quel giorno alla Sbarua vi erano diversi dei nomi noti della scalata torinese; sulla via Rossa al Bimbo, la più difficile tra quelle allora esistenti, vi erano impegnate due cordate: la prima era condotta da Giorgio Rossi legato con Majulin Turvani, la seconda era guidata da Ribetti con Mauro Maccagno. Turvani andava molto lento e Ribetti superò la cordata che lo precedeva scavalcandola mentre erano ancora sulle staffe dell’artificiale. Conoscevo già di fama Franco Ribetti, ma i particolari della sua storia alpinistica li appresi molti anni dopo, quando diventammo compagni di cordata.

Franco

Franco Ribetti, fine anni ’50
Giorgio e (a destra) Franco Ribetti
Al centro Ribetti quattordicenne con lo zio Dionisi, quello con pipa in bocca e distintivo della Scuola Gervasutti sul petto

La famiglia Ribetti era una famiglia numerosa: tre sorelle e due fratelli. Franco era il più giovane dei due fratelli e, probabilmente, il più viziato dalla mamma. In presenza di rappresentanti del “gentil sesso” Franco, scherzosamente, amava dire: “ Per concepire mio fratello e me i miei genitori hanno dato il meglio di se stessi: dopo, completamente esauriti, non sono riusciti a far altro che femmine”. Ad Ala di Stura trascorrevano le vacanze estive e dai genitori, e soprattutto dalla zia Adriana (sorella del padre e moglie di Giuseppe Dionisi) ,Franco e suo fratello Giorgio avevano ereditato la voglia di andare in montagna. Fin da ragazzini scorrazzavano sui pendii della valle cacciandosi sovente in posti pericolosi.

Franco mi raccontò che lui, da ragazzo, era magrolino e cagionevole di salute. Riferendosi a quel tempo diceva di sé: “Ero una ‘mezza sega’, sempre ammalato!”. Lo zio, Giuseppe Pino Dionisi, sosteneva che bisognava fargli fare attività fisica per rinforzarlo, così, tredicenne, lo portò in veste di allievo alla scuola di alpinismo Giusto Gervasutti. Non solo Franco si rinforzò, ma si dimostrò eccezionalmente dotato nell’arrampicata e totalmente senza paura, tanto che spesso suo zio doveva intervenire per frenarlo. A 16 anni, nel 1955, divenne istruttore nella scuola. Scalava spesso con suo fratello Giorgio con il quale aveva uno stretto legame. Anche Giorgio divenne istruttore della Gervasutti.

Franco Ribetti quattordicenne alle Courbassere
Ribetti Istruttore della Gervasutti sulle placche delle Courbassere alte
Uja Mondrone: in ombra, il versante nord
Ribetti con lo zio ciclista
Albaron di Sea, parete nord e Ciamarella

Per come l’ho conosciuto io, Franco era un tipo che non amava parlare troppo ma era sempre pronto alla battuta spiritosa. Credo sia sempre stato così: portato più all’azione che alle parole. Un loro problema a quel tempo era la cronica mancanza di soldi; Franco per guadagnare qualche cosa si mise a tracciare i sentieri a cottimo, vestito di un vecchio impermeabile, con i barattoli della vernice appesi a vita, su e giù di corsa per i sentieri della valle. Sempre per racimolare qualche lira, si mise anche a catturare le vipere che poi vendeva ai centri di raccolta per la preparazione del siero antiofidico. Non disponevano di mezzi di trasporto e le salite cominciavano quasi sempre a piedi da Ala con avvicinamenti infiniti.

Cresta sud-sud-est dell’Évêque, 1982; integrale della cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses, 1982
Franco Ribetti sulla Via dell’Addio, Parete dei Titani, Vallone di Sea, 26 giugno 1983
Da sinistra, Franco Ribetti, Ugo Manera e Isidoro Meneghin in vetta al Monte Lera
1983, Ribetti e Claudio Sant’Unione verso l’ancora inviolato spigolo del Monte Lera


In quegli anni l’arrampicata sui massi era quasi sconosciuta. Era noto che i parigini scalavano sui massi nella foresta di Fontainebleau e si conoscevano altri pochi esempi qua e là, ma da noi questa pratica non esisteva prima delle Courbassere e, su quei massi vicino ad Ala, Franco fu il principale protagonista. Superò per primo dei passaggi molto difficili e rischiosi. Come è stata sempre sua abitudine, egli minimizzava le prestazioni in genere e soprattutto le proprie. Non gli è mai importato nulla di apparire, per cui raramente dava notizia delle cose fatte così, anche alle Courbassere, molti passaggi attribuiti ad altri erano già stati saliti da lui, come il passaggio “Casarotto” che Franco aveva già superato molti anni prima che il celebre scalatore vicentino venisse condotto da Gian Carlo Grassi sui quei massi.

In valle d’Ala in quegli anni c’era un altro giovane destinato a lasciare traccia nell’alpinismo torinese: Alberto Marchionni. Aveva una casa a Balme e lì trascorreva le vacanze estive. Come Franco era un tipo trasgressivo, pronto a qualsiasi azione poco raccomandabile. Si dimostrò un ottimo arrampicatore e Franco lo portò alla Gervasutti dove divenne istruttore nel 1961. Viste le affinità, legò molto con i fratelli Ribetti ed insieme girarono in lungo ed in largo tra le pareti della valle, sempre senza quattrini e con avvicinamenti infiniti, essendo privi di mezzi di trasporto. Mi pare che Alberto fu il primo a poter disporre di uno scooter per gli spostamenti.

Franco, divenuto istruttore della scuola Gervasutti, sviluppò la sua azione alpinistica con molti degli scalatori di punta dell’ambiente torinese di quel periodo. Si legò di grande amicizia con Guido Rossa, erano ambedue scalatori eccezionali, disincantati, senza paura e sovente trasgressivi. Insieme ne hanno combinate di tutti colori in quelle che Franco amava definire: “Stronzate Alpine”. Franco era il più giovane e con poche inibizioni e paure, spesso veniva mandato avanti come apripista in scherzi ed azioni ben fuori dalle righe. Nel curriculum alpinistico di Franco di quel periodo troviamo, oltre ad altre salite importanti, la cresta sud e parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, la via Bonatti-Ghigo al Grand Capucin, la prima invernale della parete nord del Monviso. Una volta, mentre Rossa era militare alla Scuola Alpina, quindi soggetto a restrizioni, e ciò malgrado voleva salire la cresta sud della Noire. Slegato, Franco, in cordata con un altro amico, lo accompagnò e salirono la celebre cresta a passo di corsa. Per la sua cospicua attività alpinistica venne accolto giovanissimo nel Club Alpino Accademico e nel 1959 venne premiato a Roma per essere tra i migliori cinque giovani alpinisti d’Italia.

Torre d’Ovarda, via Manera-Ribetti

Franco era sempre più scatenato in montagna fino a quando, nel 1960, avvenne un grave incidente. All’inizio dell’estate la scuola Gervasutti aveva in programma una uscita nella abituale Valle d’Ala con, tra gli obiettivi, l’Uja di Mondrone. Il tempo non era bello e nella notte era piovuto, ciò malgrado Franco ed altri si diressero sotto la Nord per salire la via Rosenkranz. Franco attaccò la via per primo e, come era nelle sue abitudini, salì i primi 40 metri non difficili senza piazzare alcuna protezione. Forse gli scivolò un piede sulla roccia umida o forse l’allievo che era legato con lui lo sbilanciò, non dandogli con sufficiente rapidità la corda, fatto sta che cadde e rotolò fino alla base della parete. Per sua fortuna non si schiantò sulle pietre ma finì su una lingua di neve che ancora esisteva. Fu subito chiaro a tutti i presenti, istruttori ed allievi, che era gravissimo e in pericolo di vita. Si trattava di trasportarlo a valle. Allora non esistevano elicotteri e, per operazioni di soccorso, bisognava trasportare l’infortunato a spalle. Qualcuno si precipitò alla ricerca di qualche cosa di idoneo al trasporto. Nelle grange più prossime venne rinvenuta una vecchia scala a pioli, fu trasportata fino alla base della parete e questa fu la barella per il trasporto di Franco fino alla strada carrozzabile.

Aveva riportato fratture ovunque oltre che gravi lesioni interne. Il professore che lo prese in cura fece miracoli, ma gli ci vollero due anni per guarire completamente.

Franco Ribetti sulla Via della doppia P… alla Parete delle Aquile
1983, tentativo al Pilastro della Tour des Jorasses

Quando fu in grado di riprendere l’attività motoria provò nuovamente a scalare, ma intanto si era molto impegnato nella carriera lavorativa e stava per sposarsi; decise di chiudere con l’alpinismo. Cessare l’amata attività non significò smettere con lo sport, anzi. Si dedicò al ciclismo: aveva uno zio ex campione ciclista e con lui percorse tutti i colli più duri e celebri delle Alpi, compresa la traversata del Colle delle Traversette passando per il Buco di Viso con le biciclette a spalle. Continuò intensamente con lo scialpinismo, spesso con il fratello. Praticò molto anche la corsa a piedi, attività per la quale era portato.

1984, Ribetti e Manera nell’avventuroso viaggio verso la Valle dei Tirich

Passarono gli anni e il nome di Ribetti nell’ambiente alpinistico torinese era sempre vivo, soprattutto quando qualcuno ripeteva le sue vie. Ma tutti pensavano che appartenesse ormai al passato.

Non molto tempo fa Marvi, la moglie di Franco, ci ha raccontato un aneddoto che mi ha fatto sorridere. Franco era spesso via di casa, un po’ per il suo lavoro ed un po’ per le sue attività sportive; Marvi, che doveva badare a due figli piccoli, si sentiva sola e qualche volta si lamentava. Una volta, credo all’inizio degli anni ’70, che la discussione su tale argomento si era fatta piuttosto accesa, Franco proferì una minaccia: “Se non la smetti di lamentarti vado a cercare Ugo Manera, così tu a casa non mi vedi più”. Ho appreso così che in quegli anni, nell’ambiente torinese, godevo di ben sinistra fama.

Attorno alla metà degli anni ’70 Franco Ribetti ritornò all’alpinismo. Anche questa volta il promotore del ritorno fu suo zio. Dionisi stava organizzando una delle sue molte spedizioni nelle Ande Peruviane e convinse Franco a prendervi parte. La spedizione riaccese in lui la passione e riprese ad arrampicare. Una volta ci incontrammo casualmente, in una bella giornata di gennaio, ai Denti di Cumiana: Pino e Franco da una parte ed io con i soliti compagni dall’altra. Parlammo naturalmente di scalate, poi Dionisi mi prese in disparte e mi disse: “Franco scala di nuovo come una volta e ritornerebbe volentieri alla scuola”. “Magnifica notizia”, risposi. “La porto subito in consiglio istruttori”. Fu così che Ribetti rientrò alla Gervasutti.

Era entusiasta e subito divenne molto attivo nella scuola, era infaticabile e sembrava intenzionato a ricuperare le scalate non fatte negli anni lontano dall’alpinismo. In arrampicata era ritornato ad essere il Franco di prima dell’incidente: determinato, senza dubbi, silenzioso ed efficiente. Mi resi presto conto che poteva essere il compagno di cordata ideale per i miei innumerevoli progetti. Cercai di coinvolgerlo in uno di questi, un po’ pazzo, direi: una nuova via sull’enorme parete nord dell’Albaron di Sea in inverno nel vallone di Sea (Val Grande di Lanzo). Da tempo avevo in testa l’idea di salire quella parete in inverno. Pensavo di ripetere in prima invernale la via dei fratelli Enzo e Livio Berta del 1974, ma poi, esaminando il problema da vicino, notai che vi era un possente sperone che risultava mai salito: una via nuova d’inverno su una parete nord, cosa pretendere di più? Feci la proposta a Franco che, senza battere ciglio, mi rispose: “Ok, quando partiamo?”. Ed io: “Il primo fine settimana di bel tempo”.

Claudio Sant’Unione, Lino Castiglia e Franco Ribetti in vetta al Bindu Gol Zom II

Era il mese di gennaio del 1982 e quella salita avrebbe sicuramente richiesto un bivacco in parete, bisognava sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione. Partimmo al venerdì sera dopo la giornata lavorativa. Al buio percorremmo il vallone fino alle Alpi di Sea, la neve era poca e non fu necessario l’uso degli sci. Ci sistemammo al meglio nelle grange e, al sabato, alle prime luci dell’alba, eravamo già alla base della parete. La roccia era sgombra da neve, c’erano solo delle colate di ghiaccio al fondo dei diedri e dei camini. Incontrammo difficoltà elevate ed un gran freddo per tutta la giornata: quella parete in inverno non vede mai il sole. Superammo qualche passaggio con l’uso delle staffe, delizia riservata a me, stante lo scarso amore di Franco per l’uso dei chiodi.

Bivaccammo in un luogo scomodissimo, semi appesi ai chiodi in mezzo agli strapiombi. Non avendo trovato spazio per rannicchiarci vicini, usammo un cordino teso per passarci, a guisa di teleferica, la poca acqua che riuscimmo a produrre fondendo il ghiaccio presente vicino a noi. Gran freddo, poche parole, ma comunque improntate all’auto sarcasmo per la situazione in cui ci eravamo cacciati. Al mattino riprendemmo la scalata e dopo alcune lunghezze ancora impegnative, scalate sempre a mani nude tra una bollita e l’altra, le difficoltà diminuirono e progredimmo rapidamente lungo un vago crestone, mentre in cielo si stavano addensando le nubi. Giungemmo in vetta avvolti dalla nebbia e durante la discesa, fatta a lume di naso ma fortunatamente facile, cominciò a nevischiare. La nostra impresa si concluse di notte lungo il sentiero del vallone di Sea, con le batterie delle pile ormai scariche e con il timore costante di prendere qualche “culata” a causa delle placche di ghiaccio presenti sul sentiero. Il collaudo reciproco era stato più che soddisfacente: la nuova “cordata” era pronta per ogni obiettivo.

Ribetti dopo 5 giorni e 4 bivacchi sui Bindu Gol Zom II

Come ho già accennato, Franco non è mai stato ciarliero, salendo ai rifugi nel corso delle numerosissime salite effettuate insieme, o nelle tante gite sci alpinistiche, spesso camminavamo ore senza proferire una parola. N­­on amava scrivere, rari sono i suoi articoli comparsi su riviste e bollettini. Ma anche a lui piaceva raccontare, nel suo modo disincantato, preciso, avvolto sempre da un velo di umorismo. Da lui ho appreso storie divertenti come quelle legate alla “Villa Pisolino” del campeggio UGET di Val Veny, grangia ceduta a titolo gratuito agli squattrinati membri del Gruppo Alta Montagna UGET. Tanti episodi che mi hanno divertito e che mi hanno fatto conoscere i lati meno noti dell’ambiente alpinistico torinese degli anni Cinquanta, così diverso da quello mitico caratterizzato da personaggi come Boccalatte e Gervasutti.

Ribetti in discesa dopo aver raggiunto il primo dei Bindu Gol

Ascoltando racconti o leggendo scritti di alpinisti che raccontano le loro storie, capita di notare quanto è facile scivolare, a volte involontariamente, nell’auto celebrazione. Non è mai stato il caso di Ribetti, egli ironizzava su tutto sminuendo anziché esaltare le imprese, soprattutto le sue.

Franco era disponibile per qualsiasi idea alpinistica pur di scalare. Da parte mia avevo più progetti che tempo per realizzarli; da anni cercavo un socio per tentare la parete sud-est dell’Aiguille de l’Évêque, in Val Ferret, gli amici interpellati dopo uno sguardo alla parete declinavano l’invito. Franco no, fu una strana ed emozionante avventura.

Al di sopra dell’Aiguille si sviluppa la poderosa Cresta di Tronchey delle Grandes Jorasses, non era mai stata salita percorrendo integralmente le tre grandi torri che la compongono. Avevo già fatto un tentativo nel 1976, interrotto dal sopraggiungere del maltempo. Franco si dimostrò subito entusiasta del progetto che realizzammo nell’estate 1982 con altri due amici: Laura Ferrero e Giovanni Bosco. Fu una magnifica scalata conclusa con un bivacco in vetta alla Punta Walker delle Jorasses, allietato da un tramonto meraviglioso.

Innumerevoli le salite compiute in quegli anni da Franco, con me, con Claudio Sant’Unione, con Lino Castiglia e con altri, spesso erano prime ascensioni. Elencarle sarebbe monotono e non aggiungerebbe molto alla nostra storia. Oltre alla spedizione nelle Ande con lo zio Dionisi, Franco ha affrontato altre spedizioni lontano dalle Alpi, in due eravamo insieme nell’ Hindukush Pakistano: 1984, 1986. La spedizione del 1984 si concluse con una splendida cavalcata lungo la cresta spartiacque dei Bindu Gol Zom fino in vetta al Bindu Gol Zom II, toccando cinque punte che non risultavano scalate. In vetta Lino Castiglia, Ugo Manera, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione. Dopo preparazione di più giorni per raggiungere la prima cima, dove erano concentrate le maggiori difficoltà, il completamento della salita richiese 5 giorni di scalata con 4 bivacchi in parete.

Ben diversa fortuna ebbe la spedizione del 1986. Dalle creste dei Bindu Gol avevamo ammirato la formidabile parete del Tirich Est e ritornammo in Italia convinti che quello sarebbe stato il nostro prossimo obiettivo. Così due anni dopo eravamo nuovamente a Citral pronti a partire lungo l’emozionante pista che conduce nella valle del Tirich. Ai quattro che erano giunti in vetta al Bindu Gol Zom II si erano aggiunti Mario Pelizzaro ed il giovane medico Alessandro Naccamuli. Non giungemmo mai al fondo della pista, il mezzo che ci trasportava uscì di strada e ci scaraventò nel greto del fiume. Persero la vita Alessandro Naccamuli e l’ufficiale di collegamento pakistano. Franco uscì provato da questa tragedia, il padre di Alessandro, alla partenza dall’Italia, si era raccomandato proprio a lui per vigilare sulla sicurezza del giovane figlio.

Ugo e Franco in Calanques

In quegli anni Ottanta si stava sempre di più affermando l’arrampicata sportiva con le sue regole ed anche noi, non più giovani, ne fummo coinvolti. L’arrampicata libera assumeva un significato diverso da quello da noi interpretato nel nostro passato alpinistico, non più soste di riposo appesi ai chiodi, ma massimo impegno nell’usare gli ancoraggi solo per protezione e mai, nel limite delle nostre capacità, come aiuto per l’arrampicata. Nel gruppo di amici che aveva condiviso tante avventure, anche nelle spedizioni extra europee, a fare da apripista in questa nuova specialità fu Lino Castiglia seguito poi da Ribetti, Sant’Unione e da me.

1986, (da sinistra) Franco Ribetti, Lino Castiglia, Alessandro Naccamuli in Pakistan
La grande parete del Tirich Est dai Bindu Gol, obiettivo per il 1986
Ribetti, Manera e Gogna in Provenza

Franco non aveva solo l’arrampicata in testa e non rifiutava l’impegno sociale. Assunse la Direzione della scuola Gervasutti per qualche anno e per vari anni operò come Presidente del Museo della Montagna. Quando ambedue entrammo nel prestigioso Group de Haute Montagne francese (GHM) egli, per qualche anno, ne assunse la Vicepresidenza.

A suo modo non era insensibile alla cultura alpinistica, divenne un agguerrito collezionista di libri a pubblicazioni alpinistiche. Come tutte le cose che ha intrapreso, anche questa nuova mania venne portata avanti con determinazione, competenza e professionalità; la sua collezione di libri divenne importante e di valore, finché non decise di liberarsene a favore di un altro progetto: una casa a Briançon per sfruttare le enormi possibilità che questa località stava proponendo per l’arrampicata sportiva. Vendette la sua collezione di libri e con il ricavato acquistò casa a Briançon. Casa che per diversi anni divenne un punto di riferimento per chi desiderava scoprire le nuove possibilità offerte agli scalatori dal Briançonnais.

Franco Ribetti al Caporal
Franco Ribetti e Fabrizio Ferrari ai Mallos de Riglos

Anche nel campo lavorativo Franco ha collezionato successi. Era nel campo vendite, mi pare abbia iniziato con il padre curando l’importazione di un formaggio francese divenuto poi molto noto. Passò poi nel campo dei vini per approdare in seguito alla Perfetti. Decise ad un certo punto di mettersi in proprio nella distribuzione dei prodotti Perfetti, in società con il fratello Giorgio. Tutto filava liscio quando per qualche motivo il rapporto con la casa madre si interruppe. Franco, allora, decise di prendersi un anno di libertà per arrampicare. Era sempre in giro, dal Verdon alle Calanques e ad altri luoghi di arrampicata, sempre con giovani arrampicatori emergenti tra i quali Marco Bernardi. Ricordo molto bene quando, con sorriso sornione, mi descriveva qualche ritorno a casa: “ Sai, qualche volta vedo, negli sguardi di Erica e Marco (i figli), un po’ di preoccupazione, sembrano dirmi ‘papà, continuerai a portarci il pane a casa?’“.

Valentina Villa e Franco Ribetti a Freissinières-Briançon, 2005
Nelle Calanques, Valentina e Ugo, 2006

Di scalate così dette “moderne” ne abbiamo fatte tantissime, alcune anche molto impegnative con amici sovente molto più giovani di noi, tra i quali: Fabrizio Ferrari, Maurizio Oviglia, Mario Ogliengo, Alessandro Gogna.

I lontani traumi dell’incidente del 1960 avevano lasciato il segno, negli ultimi anni di arrampicata capitava che Franco fosse soggetto a momenti di forte mal di schiena che superava facendo ricorso alla sua forte volontà. Ricordo con un po’ di rimorso una salita nel Massif des Cerces: Les Dents de Cyrielle alla Terza Torre del Queyrellin. Era una via appena aperte da due forti scalatori francesi, la relazione letta sul libro del rifugio Chardonnet ci aveva conquistato, cosi decidemmo di provare. La scalata si dimostrò molto impegnativa, almeno per il nostro livello. Giunti a metà della via Franco fu assalito da un forte mal di schiena, la via mi stava venendo bene ed egoisticamente lo esortai a proseguire. Tra tante sofferenze per Franco, giungemmo fino in vetta, ma mai mi propose di scendere per non togliere a me la soddisfazione di una via così bella.

Poi i malanni presero gradatamente il sopravvento, e Franco fu costretto, negli ultimi anni, a rinunciare anche a qualche periodo nell’amata casa di Briançon.

Mi sembra che la storia di Franco non sia finita, che continui ancora attraverso le parole che mi viene da scrivere, attraverso ricordi di scalate ed avventure, attraverso le tante battute scherzose rivolte un po’ al mondo alpinistico a volte troppo serioso, ma spesso rivolte verso noi stessi con autoironia, arte in cui Franco era maestro.

Franco Ribetti ad Antalia, Turchia, 2007
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Franco Ribetti ultima modifica: 2024-07-26T05:55:00+02:00 da GognaBlog

4 pensieri su “Franco Ribetti”

  1. Pagherei per avere un oncia dello stile e dell’ ironia di Franco. Indimenticabile 

  2. Il commento di Angelo Recalcati calza perfettamente con il personaggio Franco Ribetti

  3. Solo da questo post vengo sapere della morte di Franco e ciò mi ha molto rattristato Per una quindicina d’anni ci siamo frequentati, mai in montagna però! Franco è stato a lungo rappresentante di alcune case vinicole piemontesi e girava mezza Italia. Oltre al libro degli ordini, che per il suo lavoro prendeva da grossisti e supermercati, aveva anche una specie di rubrica, cosa a lui molto più cara e a cui si dedicava con maggior passione. Era l’elenco dei suoi libri di montagna e dei suoi mancolista e con questa nei momenti liberi girava per tutte le librerie antiquarie a lui note in una ricerca attivissima. Aveva una conoscenza molto profonda di tutta la letteratura alpinistica sia Italiana che inglese e soprattutto francese (era socio del GHM e in stretti rapporti con le figure più importanti). Quando mi veniva a trovare mi sembrava di essere come un medico che per placare la sua ansia di trovare un volume da tanto tempo cercato o completare una collana, ogni volta mi sentivo in dovere di cavar fuori da uno dei miei scatoloni qualcosa per lui interessante e inaspettato. Aveva così raccolto migliaia di volumi che riempivano altissimi scaffali di casa sua (pazientissima la sua dolce moglie Marvi). Negli ultimi anni novanta però mi confessò che faceva sempre più fatica a leggere; e da qui nacque la decisione di venderli. Intendeva tenersi solo le guide d’arrampicata che lo vedeva ancora in piena attività nonostante i trascorsi. Mi offrì di acquistare la sua collezione, ma gli feci solo una utile stima. La cifra infatti risultò assai più alta dei miei mezzi e così si rivolse a un libraio assai più professionale di me! Per la stima mi diede un piccolo ma prezioso omaggio che tengo molto caro. Quella vendita gli facilitò l’acquisto della casa a Briançon  che fu il suo “buen retiro” molto apprezzato. E’ trascorso un ventennio dall’ultima volta che l’incontrai. Rimpiango molto la sua figura. L’interesse per i libri nelle nuove generazioni sta declinando inesorabilmente. L’unica è prenderla con quella sottile ironia che lo distingueva. Una volta gli chiesi di far analizzare dal tecnico della sua ditta una bottiglia di vino che avevo cavato da un bel pergolato, a me sembrava buonissimo. “ Beh la prossima volta mangiala l’uva!…” 

  4. Ricordo che a un numero della Rivista della Montagna dell’anno 2000 era allegato un ricchissimo catalogo librario dello Studio Bibliografico Il Piacere e il Dovere di Vercelli.
    Come imparai in seguito dallo stesso titolare dello studio, i libri in vendita provenivano dalla biblioteca di un alpinista non meglio precisato. Erano tutti l’uno piú interessante dell’altro; io ne comperai alcuni, mentre con altri giunsi in ritardo.
    Tra me e me osservai: “Questa è senza alcun dubbio la biblioteca di montagna di un intenditore e appassionato”.
     
    Dopo quanto ho letto qui, credo proprio che si trattasse della biblioteca di Franco Ribetti. Purtroppo non sono piú in grado di identificare quali furono i miei acquisti. Certamente ora lo avrei annotato (a matita!) sulla prima pagina bianca.

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