Gianni Ellena e le Alpi Marittime (GPM 052)
di Gian Piero Motti
(pubblicato nel 1976 su Montagne nostre n. 53bis)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
L’alpinista tutto preso dalla collezione di salite, l’escursionista frettoloso, oppure quello troppo attento ai minuti impiegati nel salire ad un rifugio, difficilmente sanno cogliere l’essenza e la bellezza della montagna piemontese.
Davanti al paesaggio dolomitico chiunque si sente di dire che è «bello», come chiunque di fronte al versante meridionale del Bianco, sa dire che è «grandioso e selvaggio». Invece, percorrendo una qualsiasi valle delle Alpi piemontesi, non ti compare di fronte agli occhi nulla di così bello, nulla di così sconvolgente e grandioso. Ma se poi ti soffermi, se osservi, invece di guardare semplicemente, se vi ritorni con luci ed ombre diverse, se ne segui il mutare dei colori nelle stagioni, con tutta facilità e come per magia ed incanto ne scoprirai un mondo di bellezza riposta e nascosta che esplode in tutta la sua luminosità solo dopo un lungo approccio.
Ed è per questo che tra gli uomini e queste montagne a volte sorgono amori un po’ disperati ed esclusivi, fedeli e tenaci. Ed è per questo che per capire l’alpinismo cuneese è necessario amare o per lo meno capire il terreno di gioco di questi uomini: le Alpi Marittime.
Autunno in Alpi Marittime (Valle Gesso). Foto: Enrico Chiovasso
L’accusa di provincialismo fatta sovente agli alpinisti cuneesi può anche essere giustificata, ma andando più a fondo nell’analisi, mi pare che agli alpinisti cuneesi di ieri e di oggi non importasse gran che l’uscire dalle «loro» Alpi Marittime. Forse la fantasia, la suggestione, l’immaginazione vi giocano come sempre un ruolo predominante; ed ecco che il fondo di un vallone agli occhi di un innamorato appare ancor più bello e grandioso del versante di Peuterey. Alcune dirupate torri rocciose nella luce trasparente ed irreale di una sera di ottobre sono ancor più affascinanti del Vajolet.
Forse non è così, ma io stesso che cuneese non sono, quando in qualche sera di ottobre esco dal mare di nebbie al Gias del Saut e mi appare come una visione la rossa bastionata dell’Argentera e della Madre di Dio, oppure giungo nel silenzio invernale al Gias del Lagarot, mi sembra di entrare in una sorta di mondo magico, una specie di Shan-Gri-La che difficilmente ho ancora trovato in altri posti.
In quest’articolo dovrei ricordare una delle figure predominanti dell’alpinismo cuneese, Gianni Giani Ellena, recentemente scomparso, che ne è stato forse l’esponente più significativo e la chiave di volta di tutto l’edificio su cui oggi si è andata costruendo una Sezione estremamente attiva e capace, culturalmente viva e ricca di iniziative.
Ed è anche per questo che forse non apparirà inutile il discorso introduttivo: parlando di Gianni Ellena è necessario avere ben presente tutta una situazione tipicamente cuneese. A volte parlerò di grande alpinista e di eccellente arrampicatore, eppure i lettori forse con sorpresa non vi troveranno nomi celebri e garanti di gloria, come Grandes Jorasses, Eiger, Cime di Lavaredo e Civetta. Qui si parla di Corno Stella, di Argentera, di Maledìa, montagne sicuramente più modeste e meno famose. Eppure se io in queste poche righe riuscissi a rendere il senso di certe lotte svoltesi nell’isolamento o nel silenzio autunnale delle Marittime, il fascino dello sconosciuto che uomini come Ellena, Giuliano, Soria, potevano «sentire» di fronte a una parete del Corno Stella mai scalata, oppure semplicemente cosa poteva suscitare in loro la visione del Corno Stella, quasi un simbolo, ebbene forse mi riterrei soddisfatto.
Ma molto più probabilmente scriverò un sacco di cose senza riuscire a penetrare a fondo l’anima e lo spirito di tutto un modo di andare in montagna nato intorno alla figura di Gianni Ellena.
Non amo molto la storia intesa come pura cronaca di date e di fatti e quindi perdonatemi se non troverete quell’esattezza esauriente così frequente in altri scrittori più lucidi e precisi nel tracciare la storia di un’epoca in alpinismo. A me invece interessa la storia soprattutto come fatto umano e cerco di vedere come l’uomo si è inserito nella storia e come ha agito in seno ad essa; quindi mi affascinano soprattutto le azioni e le imprese che hanno determinato una piccola rivoluzione, una svolta, quelle che hanno infranto un tabù, gli uomini che hanno saputo dissacrare dogmi e regole irrigidite nel tempo.
La vita alpinistica di Gianni Ellena sembra essere tutta protesa in questo senso: vi è un’ansia di scoprire, di realizzare, un vivo desiderio di conoscere e far conoscere, tuttavia senza che si raggiunga un’angoscia nevrotica di tipo gervasuttiano. Non pare esservi quella lacerante insoddisfazione che, sì, è capace di spingere a gesti impensabili, ma che non riesce mai a dare quel senso di pace e di serenità che invece seppe circondare Ellena di amici e di allievi affezionati, i quali seppero proseguire la sua opera in senso assolutamente positivo. E non per nulla anche la sua azione in seno alla Sezione dei CAI di Cuneo fu determinante.
Ma vi è un altro aspetto che mi preme sottolineare nell’alpinismo di Ellena ed è quello estetico. Vi è tutta una sensibilità accurata nel saper individuare nuovi itinerari, nel saper cogliere un tracciato logico ed elegante su una parete
ancora inviolata E se poi nell’azione era arrampicatore agile e potente, molto dotato atleticamente, tuttavia nella concezione non può non essere sottolineata una pungente intuizione nel saper individuare la linea di passaggio elegante e difficile.
Ed è anche molto interessante inquadrare storicamente l’epoca in cui ha agito Gianni Ellena in Piemonte. Tutti sappiamo che intorno al 1930 l’alpinismo piemontese era ancora ancorato a tradizioni di stampo puramente occidentalista che lasciavano l’arrampicata su roccia a un ruolo di secondo piano, anche se una figura come quella di Francesco Ravelli cominciava già a rompere questa corazza di ghiaccio con la sua azione moderna e innovatrice. Ma i veri rivoluzionari come Giusto Gervasutti e Gabriele Boccalatte non erano ancora giunti alla ribalta. Invece nelle Alpi Orientali la scalata su roccia stava entrando nell’epoca d’oro, anzi, prima ancora dell’avvento del chiodo su vasta scala, nelle figure leggendarie di Paul Preuss, Hans Dulfer e Tita Piaz aveva forse raggiunto la massima espressione dell’arrampicata libera intesa in senso elegante e leale.
Vi è dunque un forte ritardo nel settore dell’arrampicata su roccia tra alpinismo occidentale e alpinismo orientale. Generalmente si dice che il ritardo fu pareggiato e colmato con la venuta di Gervasutti a Torino e con l’orientalizzazione dell’alpinismo occidentale da parte di Cassin. Sicuramente è una tesi che non si può controbattere, ma io mi permetto di dire che il ritardo fu pienamente colmato dagli arrampicatori cuneesi, soprattutto da alpinisti come Ellena e Matteo Campia, i quali in arrampicata libera seppero raggiungere vertici veramente insoliti se paragonati a quelli raggiunti dagli altri arrampicatori piemontesi dell’epoca.
E se gli arrampicatori attuali volessero rimanere fedeli a un’eleganza purtroppo rara ed affrontassero i passaggi di certe vie di Ellena e di Campia con lo stesso stile con cui loro le superarono, ossia senza chiodi o con scarsissimo impiego di mezzi artificiali, ebbene si accorgerebbero con sorpresa che il quinto grado ed il quinto grado superiore in arrampicata libera furono sicuramente raggiunti e superati.
Solo che come sempre il tutto si svolse nel silenzio più assoluto e nell’ombra di un pudore che rasenta il complesso d’inferiorità. Certo è bello parlare di umiltà e di modestia quando si parla di questo periodo dell’alpinismo cuneese, ma a volte troppa umiltà e troppa modestia oscurano la realtà e non permettono di mettere in luce nella giusta ottica il reale valore di questi uomini.
La parete nord-est del Corno Stella con la via Ellena-Soria (numero 66) e le vie successive. Si noti come nella parte alta rifugga dalle difficoltà in artificiale della futura variante Cavalieri-Bussetti (69) per traversare a sinistra ancora più in parete. Foto: dalla guida di Versante Sud, Corno Stella.
D’altronde forse erano essi stessi a non desiderare eccessiva pubblicità per le loro imprese e le loro montagne, quasi vivessero una sorta di gelosia, una paura che esse fossero troppo conosciute e quindi poi troppo frequentate da altri alpinisti, che di certo non avrebbero varcato la soglia del tempio con lo stesso rispetto e con il medesimo incantato stupore. Quindi vi è stata forse come una paura di profanazione, che venne a creare una sorta di setta carbonara, intesa in senso positivo, una specie di congregazione che teneva per sé amori e segreti di un microcosmo alpino chiamato Alpi Marittime. E non per nulla molti di questi uomini con lo stesso spirito, nello stesso silenzio e con la stessa umiltà svolgeranno un ruolo di primissimo piano nella lotta di Liberazione, resistendo con tenacia, lavorando a una causa comune senza pericolosi isterismi isolati che con troppa facilità a volte passano sotto il nome di «gesta eroiche».
Parlando dunque di Ellena non dobbiamo pensare a un egocentrico, dedito ad un alpinismo solitario e ascetico: ciò che simpaticamente caratterizza questo magnifico periodo dell’alpinismo cuneese è l’azione di gruppo, l’unione di alcune fortissime personalità alpinistiche, orchestrate magistralmente e mantenute in assoluta armonia dallo stesso Ellena, senza tuttavia che questo ultimo arrivasse a dominare gli altri.
Finalmente il discorso deve cadere sull’attività alpinistica di Ellena: elencare tutte le sue ascensioni sarebbe sì interessante, ma anche arido. Meglio quindi, come già ho detto, mettere a fuoco quelle più importanti e significative. Comunque la quarantina di nuove ascensioni effettuate nelle Alpi Marittime sta a testimoniare tutto un lavoro meticoloso di ricerca e di scoperta, un desiderio di affrontare lo sconosciuto, una vera e propria sete di avventura che lo portò a spaziare in ogni angolo del massiccio: dall’Argentera al Prefouns, dall’Asta alla Maledìa. Nessuna via aperta da Ellena è banale: ognuna esprime una propria logica elegante, il concetto si materializza alla perfezione nella struttura rocciosa scelta per la salita.
Resta comunque il fatto che la montagna più cara, quella più osservata, studiata, forse amata e odiata, fu sicuramente il Corno Stella. Il primo approccio è del 1926, ancora in scarponi chiodati. Ma Ellena non si accontenta delle ripetizioni, seppure di valore. Già il 21 agosto 1927, con Luigi Giuliano, compie la sua prima nuova via sulla montagna, lungo un tracciato molto logico ed elegante, che in futuro diverrà la via più ripetuta delle Alpi Marittime: lo spigolo nord-ovest. Il 17 agosto 1930, questa volta con Edoardo Dado Soria, supera lungo un itinerario di straordinaria eleganza, l’affilato e vertiginoso spigolo sud-est del Corno Stella.
Il profilo della parete nord-est del Corno Stella. Tra ombra e sole è lo spigolo sud-est, salito da Gianni Ellena ed Edoardo Soria nel 1930.
Tuttavia i suoi maggiori interessi erano sicuramente rivolti alla parete nord della montagna, il più «grande» problema delle Alpi Marittime. Sarei quasi tentato di descrivere o per lo meno di riportare tutta la serie dei tentativi effettuati per vincere la parete: al centro, a sinistra, a destra, le traversate esplorative, le calate in corda doppia per cercare di intuire il punto debole della parete, il passaggio naturale nella barriera superiore di strapiombi.
Ma la via più naturale si rivela proprio nel settore destro, dove Ellena con rara intuizione riesce a scoprire una fessura particolarmente difficile che è la chiave risolutrice del problema. La salita dunque venne condotta a termine il 27 agosto 1933 con Dado Soria: credo che di tutte le ascensioni effettuate da Ellena, sicuramente questa gli fosse la più cara, certo quella che maggiormente aveva esaltato la sua fantasia e la sua passione per l’avventura.
E ancora il 15 luglio 1945 il Corno Stella lo vede protagonista di una notevolissima impresa: la prima salita diretta della parete sud-ovest, con Riccardo Cado Nervo e Campia, quest’ultimo arrampicatore libero di classe assolutamente superiore. Ancora oggi, malgrado la ragnatela di vie tracciate sul Corno, la «Campia-Ellena-Nervo» resta certamente insuperata in senso estetico e come purezza di arrampicata libera elegante e difficile. Purtroppo la chiodatura abbondante operata da alcuni ripetitori, ha mortificato il primitivo valore dell’impresa.
Sarebbe anche interessante esaminare l’attività scialpinistica di Ellena in seno alle Alpi Marittime: di certo fu un vero e proprio pioniere, se si pensa che già nel 1930 effettuò la prima sciistica al Monte Matto, partendo addirittura da Sant’Anna di Valdieri!
Ed è con tristezza che concludo questa commemorazione. Al pensiero di un alpinismo che oggi disperatamente si dibatte per trovare ancora un briciolo di avventura e di fascino per l’ignoto, ma che lentamente e inesorabilmente scivola verso la banalità alienante di molte altre attività sportive inserite e strumentalizzate, il ricordare un’epoca come quella di Ellena, dove ignoto, avventura, fantasia e arte avevano un significato anche in alpinismo mi lascia un velo di nostalgia per un mondo irrimediabilmente perduto. Soprattutto pensando che sono trascorsi non più di quarant’anni.
Alcune prime ascensioni nelle Alpi Marittime di Gianni Ellena
12-9-1926 Antecima Ovest della De Cessole – sperone nord (con L. Giuliano)
19-10-1926 Cima del Baus per la cresta sud-ovest (con E. Soria e A. Parola)
21-8-1927 Corno Stella per lo spigolo nord-ovest (con L. Giuliano)
5-8-1928 Cima dell’Oriol per la parete nord (con Dante Livio Bianco, Giuseppe Laurenti, E. Soria, A. Parola e G. Uderzo)
23-8-1928 Cima Nord Paganini per la cresta sud e traversata alla Sud per cresta fra le due vette (con L. Giuliano)
14-7-1929 Punta Ghigo, per la parete sud, e prima traversata, per cresta, della Catena delle Guide (con E. Soria)
15-8-1929 Cima Madre di Dio, per la cresta est (con E. Soria e L. Giuliano)
19-1-1930 Monte Matto, prima sciistica da S. Anna di Valdieri (con E. Soria, D. L. Bianco e Aldo Quaranta)
22-6-1930 Guglia Dragonet per la parete nord (prima ascensione, con Soria)
17-8-1930 Corno Stella, per lo spigolo sud-est (con E. Soria)
14-9-1930 Punta Piacenza, per la parete sud (con E. Soria e D.L. Bianco)
31-5-1931 Forcella Argentera per il versante est (con L. Giuliano e M. Bertone)
28-6-1931 Punta Plent – via diretta (con E. Soria)
5-7-1931 Cima De Cessole, per la parete nord (con E. Soria)
16-8-1931 Cima Ovest di Nasta, per la parete ovest (con E. Soria, D. L. Bianco e A. Quaranta)
10-7-1933 Cima del Giegn, per la parete nord (con E. Soria e D.L. Bianco)
20-8-1933 Cima dell’Oriol, per la parete sud-ovest (con D.L. Bianco e A. Quaranta)
27-8-1933 Corno Stella, per la parete nord (con E. Soria): risolto l’ultimo grande problema delle Alpi Marittime, la conquista della sola parete vergine rimasta.
1-10-1933 Uja di S. Lucia, per la parete ovest, prima ascensione, con E. Soria e A. Quaranta)
29-7-1934 Cima Est della De Cessole, per lo sperone nord
9-8-1937 Cima Sud Paganini, per il contrafforte ovest (con L. Giuliano)
30-6-1946 Cima Nord dell’Argentera, per lo sperone ovest (con D. L. Bianco e Anton Buscaglione)
20-8-1946 Cima Maledìa, per la parete sud-ovest (con D. L. Bianco e A. Buscaglione)
21-8-1946 Cima Peirabroc, per la parete nord (con D. L. Bianco e A. Buscaglione).
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Oddio, bisogna vedere. Perché se di zoticoni parliamo non già in senso figurato, come credo faccia Marcello, ma in senso proprio e stretto, ci sono molti più zoticoni che ingegneri, non solo in Italia, ma nel mondo. E fanno anche molti più danni…
Marcello credo che hai fatto bene hai fatto bene a scegliere la categoria degli “zoticoni” invece di quella degli ingegneri. In Italia ce ne sono anche troppi di ingegneri e hanno fatto più danni che la grandine.
Complimenti!
Una storia semplice ma emblematica,un pensiero umile ma significativo,per certi versi un indirizzo di vita.
Una “vita vera” può essere nn obbligatoriamente in montagna ma la propria montagna e la propria vita si può trovarla in qualsiasi forma e in qualsiasi luogo si ami con semplicità e dedizione al territorio. Gli animali con la loro naturale ingenuità insegnano molto basta voler imparare da loro.
Ah…le “aspre” Marittime, mi pare le chiamasse affettuosamente così proprio Motti…montagne apparentementi ai margini della catena alpina, palcoscenico un po’ provinciale per le gesta dei soli cuneesi, a prima vista montagne senza la maestosità dei grandi massicci glaciali….eppure così ruvide che ancora oggi sono temibili banchi di prova per tutti…
Bellissimo questo testo di Motti, non lo ricordavo ed è stato un vero piacere rileggerlo a distanza di decenni.
Interessantissima l’annotazione storica che il gruppo dei cuneesi “chiuse” il gap con gli arrapicatori dolomitisti un po’ in anticipo rispetto ai pezzi da novanta dell’alpinismo torinese. Per un gervasuttiano di ferro come me questa sottolineatura lascia un po’ il segno, ma la dice lunga sul livello raggiunto dai cuneesi a cavallo fra anni ’20 e ’30.
Cordiali saluti a tutti.
Caro Marcello, ben detto!
Ti invidio per la tua scelta di vita, che io allora non feci (anche perché non avevo certo le capacità di diventare guida alpina). Però ti assicuro che la mia passione e la mia gioia in montagna e in alpinismo sono state il sale della vita (assieme alla gioia di una cara moglie e di una cara figlia).
Sicuramente non interesserà giustamente molti, ma proprio lungo una via di Ellena al Corno Stella ho deciso della mia vita. Era una domenica degli anni settanta ed ero con il mio allora “maestro” Francesco Leardi, istruttore della sez. Ligure del CAI. Il fatto che fosse domenica non ci era indifferente, perché rappresentava la “porta” aperta sul lunedì. Per Francesco si riapriva sulla fabbrica e per me sulla scuola dove mi annoiavo a morte e mi sembrava una galera senza avere commesso nessun reato.
Decisi quel pomeriggio che i miei futuri lunedì non dovevano essere tutti uguali e da allora iniziai una lotta furibonda con un sistema: scuola, famiglia, lavoro, che mi mise contro tutti o quasi. Più sentivo dire che di montagna non si poteva vivere e più mi sembrava che dovessi farlo. Lo spirito di bastian contrario aiuta eccome! Infatti, l’anno della maturità feci l’ultima vacanza con la mia famiglia in Val Veny, litigando affettuosamente con i miei genitori e mia sorella che vivevano quei momenti in maniera, secondo me, banale e superficiale. Mi ero pentito subito di avere accettato l’invito a quella vacanza perché non ero con i miei amici alpinisti con cui avrei potuto essere. Credevo che l’alpinismo fosse l’unica forma di vita possibile e lo imponevo a tutti, sbagliando, ma ne ero così convinto. Quando dovevamo partire io dissi che sarei rimasto lì. È così feci, perché di tornare in città non ne avevo nessuna intenzione. Dopo 35 anni di vita e lavoro in montagna vedo i cittadini, quale ero anch’io, con un occhio di compassione misto a pena (non scherzo) e vado in città raramente e solo per andare al cinema. Non penso più che tutti debbano fare gli alpinisti, anzi, ce ne sono fin troppi. Sono diventato più montanaro dei montanari, convinto che essere un po’ zoticoni sia un pregio. Anni fa ho provato ad allevare un gattino in casa. Appena ha scoperto che nella zona vivevano altri gatti selvatici (abito in un posto molto isolato di una valle delle Dolomiti), che dormono nei fienili, lottano con tassi e volpi, cacciano topolini e talpe, non ne ha più voluto sapere di stare in casa ed è fuggito con loro. È ancora vivo, l’avevo chiamato Geppo, e quando d’inverno fa molto freddo mi guarda ma non entra più in casa. Mi guarda come io guardo chi vive in città. Tutta colpa di quella domenica in Marittime e di mia madre che mi sognava ingegnere.
Scusate la tiritera ma la convinzione che ancora ho è quella che le storie come questa (anche a me ne sono servite un certo numero) possano aiutare chi è in bilico tra una vita routinaria è una da trapezista senza rete, in cui i rischi sono ridicoli se paragonati a quella del primo tipo.