Contro i giornali. Per amore del giornalismo – 2 (2-2)
di Arianna Ciccone
(già pubblicato il 28 ottobre 2014 su http://www.festivaldelgiornalismo.com/contro-i-giornali-per-amore-del-giornalismo/)
segue da XXXXXXXXXXXXXXXXXX
I giornalisti
Cos’è il giornalismo? Chi è giornalista?
Jeff Jarvis ha pubblicato su Medium nei mesi scorsi alcune riflessioni sul tema (tradotte in Italia dal sito Ldsi). In particolare può esserci utile la sua definizione di giornalismo oggi nell’era dell’open web e della fine dei mass media:
“Proviamo a considerare il giornalismo come un servizio. Il contenuto va a riempire qualcosa, mentre il servizio punta a raggiungere un obiettivo. Per essere un servizio, il giornalismo dovrebbe mirare ai risultati piuttosto che ai prodotti. Quale dovrebbe essere questo risultato? Sembra ovvio: individui meglio informati e una società meglio informata. Ma come definire il concetto di “informato” e chi ne sancisce il successo? I giornalisti ritengono che il loro mestiere sia quello d’informare il pubblico, mentre spetta agli editori stabilire cosa debba sapere la gente. Dobbiamo mettere da parte quest’atteggiamento piuttosto paternalistico rispetto a chi ci rivolgiamo, perché se non crediamo alla volontà del pubblico di essere informato, allora dovremmo arrenderci e rinunciare alla democrazia, al libero mercato, all’ideale dell’istruzione, per non parlare del giornalismo. Ho fiducia che continuerà a esistere mercato e domanda per quell’informazione di cui la società ha bisogno per funzionare. Questo deve essere un atto di fede, se vogliamo avere la speranza di sostenere il giornalismo.
Occorre altresì prendere nota di quanto afferma Dan Gillmor: il nostro pubblico ne sa più di noi. E così non è necessariamente nostro compito informare, quanto piuttosto rendere ciascuno di noi in grado di informare gli altri. Vale a dire: sappiamo cosa hanno bisogno di sapere gli altri, ma in passato avevamo strumenti spuntati per diffondere questa conoscenza. Il reporter trovava l’esperto, il testimone o il funzionario adatto per rispondere ad una domanda e la testata giornalistica diffondeva quanto aveva scoperto. Adesso abbiamo maggiori strumenti a disposizione per comunicare in maniera diretta. Quindi, forse, il nostro primo compito nell’espansione del giornalismo di servizio dovrebbe esser quello di offrire piattaforme che mettano in grado individui e comunità di cercare, portare alla luce, raccogliere, condividere, organizzare, analizzare, comprendere e usare le proprie informazioni (oppure di ricorrere a piattaforme già esistenti per tutto ciò). Internet ha dimostrato di essere un ottimo strumento per permettere alle comunità di informare in modo indipendente, condividendo gli eventi via Twitter, lo scibile via Wikipedia e le questioni importanti tramite strumenti di conversazione: messaggistica istantanea, blog, post e tweet. Strumenti che, pur se banali, ripetitivi e usati talvolta in maniera incivile, sono comunque parte del contesto culturale“.
È quello che sottolinea in uno dei suoi ultimi articoli Mathew Ingram: i più grandi competitor del giornalismo sono cose che nemmeno sembrano giornalismo:
“I think this is also what Jeff Jarvis means when he talks about journalism as a service, and it’s what I was trying to get at when I wrote about companies like BuzzFeed and Gawker and Quartz and how they see news as a service: they don’t seem to worry much about whether it’s journalism or not, they are more concerned with whether they are serving readers“.
Cosa possono fare i media tradizionali per sopravvivere? Avere al centro i lettori e i loro bisogni:
“What can you do to survive if you are a traditional media entity? You can adapt, obviously, but you can also do a number of other things, Stijn Debrouwere says: focus on storytelling and personality, because those things are irreplaceable, and concentrate on appealing to readers who are passionate about a specific topics. Just don’t think that the only things you’re competing with are other journalistic outlets”.
In questo contesto il giornalismo tradizionale deve fare i conti con l’ascesa del lettore. In uno speech sul giornalismo nell’era dell’open web, Katherine Viner del Guardian parla proprio di questo e della necessità di accettare le nuove dinamiche che vedono l’informazione da formato fisso a flusso:
“Digitale non significa semplicemente pubblicare una storia sul web. È una ridefinizione fondamentale del rapporto dei giornalisti con il pubblico, della nostra opinione sui nostri lettori, della nostra percezione del nostro ruolo nella società, del nostro status.
Non siamo più giornalisti onniscienti, che distribuiscono parole dall’alto per lasciarle raccogliere ai lettori, passivamente, salvo forse qualche lettera occasionale al direttore. Da un giorno all’altro il digitale ha distrutto quelle gerarchie, creando un mondo più livellato, in cui le risposte possono essere istantanee e alcuni lettori sanno quasi certamente di più di un giornalista su un particolare argomento e potrebbero trovarsi in una posizione migliore per scoprire una storia. Per questi motivi, Jay Rosen dà ai lettori la definizione di “persone precedentemente conosciute come pubblico”, e Dan Gillmor di “ex pubblico“. Nell’era del giornale, esistevano alcuni giornalisti e molti lettori. Adesso può essere difficile determinare lo scarto. Le persone precedentemente conosciute come “pubblico” non si limitano a stare a guardare, e se non le ascolti, lavori con loro, lavori per loro, dai loro quello che vogliono e di cui hanno bisogno, hanno un sacco di altri posti dove andare.
Un web aperto permette di interagire con il pubblico come mai in precedenza, e di collaborare per scoprire, diffondere e discutere le storie in una serie di modalità nuove“.
E allora ha proprio senso in un ecosistema così profondamente cambiato e complesso definire oggi chi è giornalista?
“Chiunque ormai può agire da reporter, a date condizioni tecnologiche – rammenta Jarvis – tanto da rendere la ricerca di una definizione univoca di ‘giornalista’ quasi superflua, se non in termini strettamente legali: è il giornalismo a fare il giornalista, nel momento in cui presta il proprio servizio a una comunità informata, includendo chiunque voglia contribuire a questa ‘missione‘“.
Ed è giornalista, continua, chi è in grado di dare un valore aggiunto ai processi di disvelamento delle voci incontrollate, di verifica dei fatti, di analisi e racconto di un contesto. È la trasformazione del giornalismo da prodotto di ‘manifattura’ a vero e proprio atto, concorda Deggans su Poynter: «Siamo al servizio di una società informata. Lo siamo sempre stati», conclude Jarvis. Ma come definire chi, rendendo un servizio alla comunità da semplice cittadino, arriva a fare del vero e proprio giornalismo? Un esempio è quello dei cosiddetti «random act of journalism», espressione coniata nel 2011 dal digital editor di Npr Andy Carvin (ora a First Look Media) nel descrivere fenomeni come quello dell’utente Twitter pakistano che ha lanciato, inavvertitamente, il primo aggiornamento sulla cattura di Osama Bin Laden: è evidente come uno scenario mediatico nel quale chiunque, con una connessione Internet, può fare del giornalismo – e persino farne la storia – ‘a sua insaputa’, porti a una distinzione sempre meno marcata fra cittadini e giornalisti, fra blogger e professionisti. La tesi di Mathew Ingram su Paid Content è che proprio grazie alla rete il giornalismo sia diventato effettivamente ciò che si fa, e non più soltanto ciò che si è”.
Potrei fare mille esempi, dal blog Brown Moses che ha svolto un lavoro impressionante sulla guerra in Siria, ripreso tra l’altro da diversi media, e tutt’oggi con una operazione di crowdfunding si occupa di giornalismo investigativo sui social media, ai Cittadini reattivi in Italia e al loro civic journalism.
Ci rendiamo conto che in un simile contesto un Ordine dei Giornalisti, così com’è strutturato, è stato completamente travolto dalla storia, vero? Abbiamo ancora bisogno dei giornalisti? Sì. Anche se per me non sarà certo un tesserino a stabilire la qualità di un lavoro, a certificare la professionalità di chi fa informazione. Sono convinta della necessità della formazione, le competenze richieste in un’epoca come la nostra non sono solo diverse dal passato ma sono terribilmente più complicate e infinitamente – almeno per me – più affascinanti. Bisogna studiare, aggiornarsi, e i luoghi in cui apprendere e formarsi sono decisamente di più e più aperti rispetto al passato.
Come hanno detto Anderson, Bell e Shirky nel documento “Post-Industrial Journalism”:
“Ora e per il prossimo futuro abbiamo bisogno di un gruppo di lavoratori a tempo pieno che scrivano cose che qualcuno da qualche parte non vuole segnalare, e che lo facciano in un modo che non si limiti a rendere disponibili delle informazioni, ma costruendo quelle informazioni in maniera che esse raggiungano e colpiscano il pubblico“.
E scusate se la formula “new media, old values”, tanto usata soprattutto da alcuni giornalisti tradizionali (quasi una forma di protezionismo verso un mondo che non c’è più), non mi convince. Anche perché dovremmo aprire una onesta riflessione su come sono stati rispettati e sono rispettati tutt’oggi dal mondo mainstream questi vecchi valori.
Possiamo ancora parlare di old values senza considerare che siamo davanti a nuove figure professionali, come quella del publisher, inaugurata da Buzzfeed con una accezione completamente diversa da quella tradizionalmente intesa? Il publisher, spiega il CEO Jonah Peretti, “guiderà la pubblicazione per il social web nel senso più moderno del termine, laddove contano data science, Cms, tecnologia e comprensione dei social network, del mobile e del digital video”.
Giornalisti e cultura digitale
Imparare a essere nodi: questo è il primo compito di un giornalista nell’era dell’open web.
“Il fulcro del giornalista si sposta dal prodotto al processo. Non compro più il giornale, compro la capacità di un giornalista (o di un gruppo di giornalisti) di fare ordine nell’attualità in modo professionale e non in alternativa, ma semmai in simbiosi col filtro collettivo di Internet. La Rete vive di relazioni: compito di ciascun nodo è alimentare quelle relazioni. Piuttosto che portarsi dietro rigide sovrastrutture ereditate dai suoi avi monomediali, il giornale dovrebbe allora trarre spunto dalla liquidità, dall’elasticità, dall’intensità e dall’umanità che emergono nei social network e nei luoghi più vitali della Rete… (Sergio Maistrello – Giornalismo e nuovi media)”.
Oggi io purtroppo questo nel mondo mainstream italiano non lo vedo. I social network sono un mondo complesso e ricchissimo. Una fonte inesauribile per il giornalismo. E invece spesso vedo testate storiche – tra i brand online ancora più potenti – come La Repubblica o il Corriere della Sera – usare i social come semplici piattaforme per spammare link. I social sono ambienti culturali, pieni di vita, bisognerebbe avere il coraggio e la voglia di immergersi. Si possono trovare storie, si possono coinvolgere i lettori nel processo giornalistico stesso, come ha fatto ProPublica, una organizzazione giornalistica non-profit, su Facebook, coinvolgendo i cosiddetti fan in un’inchiesta sull’assistenza sanitaria.
Non funziona calare dall’alto hashtag, non funziona trattare i lettori come mangiaclick, usare i social in modalità broadcasting (a senso unico e solo in funzione del maggior traffico possibile da portare a casa). O meglio può funzionare nel breve termine, ma nel lungo termine è una scelta perdente. Anche perché, in tutto questo, sempre più spesso testate storiche sui social inseguono il click facile, la notizia fuffa, pop, immettendo nell’ecosistema sempre meno qualità e approfondimento. Ho visto usare la tecnica del clickbait anche per una notizia di un suicidio.
Non si può davvero pensare di salvaguardare il brand e la propria identità riservando la qualità (presunta tra l’altro) su carta, tipo riserva indiana. Sul digitale sempre più spesso purtroppo puntano tutti sullo stesso contenuto confezionato allo stesso modo. I media si rilanciano tra di loro, penso alle notizie sulle varie trasmissioni televisive che rimbalzano dai siti ai social e alla carta senza soluzione di continuità. Senza originalità, senza provare a contestualizzare la notizia (se poi notizia è), a lavorarla giornalisticamente, provando a offrirla agli utenti nel modo più efficace a seconda della natura della news (sulle infinite possibilità di storytelling vale la pena leggere Steve Buttry, ex Digital Transformation Editor di Digital First Media).
Il mondo digitale è ignorato, o demonizzato. Oggi è anche “velinato” – il copyright del termine è di Mafe De Baggis, autrice di #Luminol, un saggio sui media digitali, che l’ha usato a proposito del rapporto tra politici che disintermediano grazie ai social network e giornalisti e testate che si fanno megafono di propaganda – o banalizzato: quanti servizi su Ballarò in questi anni sulla satira del web? Come se il web si risolvesse continuamente nel prendere in giro la politica.
Colpisce una narrazione semplicistica e distorta in buona o in malafede del web. Le resistenze psicologiche al cambiamento posso capirle, quelle culturali meno. Mario Tedeschini-Lalli, mio ex docente all’IFG di Urbino, spiega molto bene perché i giornalisti non possono rinunciare a parlare la lingua dei social media e della cultura digitale, in risposta a Michele Serra che, maldestramente a mio avviso, definisce “club” i social:
“È utile ribadire il concetto, perché Michele Serra è un giornalista assai autorevole e la ragionevolezza del suo argomentare potrebbe rafforzare nell’ambiente una tendenza assai dannosa e diffusa nella “categoria” a pensare di poter fare a meno, di poter prescindere da quel mondo e continuare a vivere e a lavorare come se esso fosse altro dal mondo nel quale hanno sempre vissuto“.
C’è questo senso di indifferenza se non fastidio verso l’aspetto “sociale”, la dimensione social della notizia, che è sostanzialmente la natura più profonda del giornalismo oggi. Indifferenza o fastidio per i lettori e la loro identità di prosumer che commentano, che hanno voglia di partecipare e che a volte appunto ne sanno anche più di noi. Il contributo dei non professionisti non ha valore? Il citizen journalism non è credibile? E perché? In realtà potrebbe essere il grande alleato del giornalismo tradizionale, se sapientemente gestito e valorizzato. Si dovrebbe cercare e stimolare la partecipazione dei cittadini-lettori, troppo spesso ignorati o a volte liquidati con uno #smammatroll se si permettono di esprimere delle critiche.
La reputazione, la credibilità non valgono per sempre, sono crediti che si rinegoziano giorno dopo giorno. E sui social ci si gioca tutto. Perché alla fine sono uno svelamento potentissimo della nostra professionalità e della nostra umanità. La parola chiave in questi ambienti è fiducia. Non è più ereditata per appartenenza a una testata. I giornalisti devono sapere che la notizia comincia con il punto finale di un articolo. Da lì ha inizio il controllo, la discussione, il confronto, il commento. Che arricchisce il contenuto stesso a patto di essere aperti verso la propria community.
Tutto ricade su reputazione e credibilità della testata: da come si usano i social a come i singoli giornalisti di una testata stanno dentro questi ambienti. È importante dunque anche darsi una policy interna (molte testate straniere ce l’hanno, in Italia credo che, forse, l’unica testata ad averla sia La Stampa). Io addirittura proverei a renderle pubbliche, a condividerle con il mondo là fuori. Se un lettore chiede conto di un copia e incolla o di un presunto plagio, il giornalista e la testata hanno il dovere di rispondere. Qui da noi quasi sempre si ignorano scientificamente le richieste di chiarimento.
A proposito di copia-incolla, voglio riportare un episodio abbastanza emblematico: all’annuncio del Premio Nobel 2014 per la letteratura, su Wikipedia per 10 minuti alla voce “Patrick Modiano”, voce presumibilmente ancora debole su wiki, anche perché in pochi conoscevano lo scrittore, si poteva leggere questo alert:
Cioè un editor dell’enciclopedia collettiva (gratuita), conoscendo un’abitudine poco corretta da parte dei giornalisti, avverte: attenzione la fonte primaria è ancora la migliore fonte per i giornalisti. Purtroppo è successo diverse volte di vedere articoli di professionisti interamente copiati da Wikipedia, con la beffa che a fine articolo c’era pure la scritta riproduzione riservata. Sul plagio – che a differenza dell’Italia in altri paesi scatena dibattiti e più che giusta indignazione (e anche conseguenze gravi fino al licenziamento per i giornalisti che ne fanno uso) – consiglio questo articolo di Poynter e questa utilissima flowchart che ogni direttore dovrebbe ritagliare, appendere in redazione e consultare costantemente. Altra sfida importante è saper bilanciare accuratezza della notizia e velocità.
Gli approcci possono essere diversi. C’è chi, come Margaret Sullivan, public editor del New York Times (consiglierei vivamente a tutte le testate di avere una figura simile in redazione che faccia da link e garante di ascolto verso i lettori e che risponda in maniera indipendente e trasparente alle critiche rivolte al giornale), sostiene che è meglio arrivare dopo, ma arrivare su una notizia in maniera corretta, in nome appunto della credibilità e della reputazione. Oppure c’è l’approccio di diverse testate digital native, che si aprono di più alla notizia intesa come processo aperto. Questa è la versione che preferisco e che include la partecipazione dei lettori: this is what we know, this is what we do not know, what do you know? (vedere a riguardo il rapporto del Reuters Institute for the study of Journalism su Accuracy, independence and impartiality: How legacy media and digital natives approach standars in the digital age).
In questa dinamica non è contemplata la prassi a cui stiamo assistendo in questi giorni sulla vicenda Ebola: ogni giorno i media lanciano la non-notizia (non verificata evidentemente) di un caso sospetto, e poi subito dopo lanciano la notizia del falso allarme. È giornalismo questo? Gioca sulla fiducia del lettore o sulla sua paura? Su questioni così delicate sarebbe il caso di far prevalere nella maniera più assoluta la cura della notizia sulla velocità. Anche perché la smentita del presunto caso arriva puntualmente dopo pochi minuti.
La gestione e correzione di errori è fondamentale. Dalla gestione di un errore si può rinsaldare il rapporto di fiducia con i lettori. L’errore è assolutamente contemplato in un lavoro come il nostro. Ma ammetterlo e farvi fronte è cosa rara nei nostri giornali. La correzione degli errori dovrebbe essere una pratica ben precisa con regole ben precise, online andrebbe lasciata traccia delle modifiche, in trasparenza (da noi solitamente un errore o diventa “giallo” o viene sostituito con la notizia corretta senza informare i lettori del cambiamento e dell’errore, semplicemente cambiando – zitti, zitti – titolo e testo).
Upworthy, una testata digital native, addirittura usa le GIF animate per mettere in evidenza la correzione di un errore. Se un articolo contenente un errore si è diffuso in modo virale, quello che cercano di fare con questo metodo è rendere altrettanto virale le scuse e la correzione.
Qui si riconoscono gli errori a denti stretti, a volte – spesso – si risponde a una richiesta argomentata di rettifica “sì, va bene, ma la sostanza non cambia”. Oppure si viene ignorati, come è successo a me ai tempi di Augusto Minzolini direttore del Tg1. Allora vennero raccolte in 10 giorni su Facebook 200mila firme di cittadini per chiedere la rettifica di una notizia falsa (“prescrizione non è assoluzione”), e cosa fece in risposta la Rai (servizio pubblico)? Ignorò la richiesta, e infatti la rettifica non è mai andata in onda. Apro una parentesi a margine, perdonatemi: quando i partiti decideranno finalmente di liberare la Rai – dopo averla massacrata, certo anche con la complicità di giornalisti compiacenti, come stiamo vedendo in questi anni – sarà sempre troppo tardi.
Ci giochiamo il nostro rapporto con i lettori proprio su questi aspetti, come riporta Editor & Publisher in Trust in Media: conflitto di interessi (vi dice qualcosa?), imprecisioni ed errori sono tra le principali motivazioni del calo di fiducia nei media.
Abbiamo bisogno di etica nel giornalismo. E a proposito vorrei segnalare un progetto dell’Online News Association, la principale associazione mondiale di giornalisti “digitali”, che ha da tempo lanciato una iniziativa di costruzione in crowdsourcing di una cassetta degli attrezzi sui temi dell’etica.
Altra parola chiave: trasparenza. Secondo Jay Rosen è la nuova obiettività. Cosa che io condivido. Dichiarare eventuali conflitti di interessi è la prima regola. Avere una posizione e dichiararla è una forma di rispetto verso i lettori, verso la nostra comunità. Quello che però non si può fare a mio avviso – e qui da noi purtroppo l’ho visto fare diverse volte – è forzare il racconto, la narrazione dei fatti, manipolando e distorcendo la realtà, perché quei fatti aderiscano alla propria visione.
Comunità e commenti: Scrive Marco Pratellesi:
“È sempre più al centro, anche dei modelli economici dei media. I giornalisti devono tenerne conto, accettando la sfida dei lettori, dialogando con loro e prestando attenzione ai loro contribuiti“.
E così ripensando al modello Guardian, vale la pena ancora citare Andrew Miller:
“We have continued to invest in quality journalism. The Guardian has maintained its commitment to deliver accurate, incisive and relevant news to our readers.
They are no longer just readers. They are viewers. They are listeners. They are multi-active – some say hyper-active – users of digital devices. They are members. They are often journalistic contributors, for instance through our award-winning Guardian Witness initiative. They are loyal. They attract advertising. They are discerning in their news appetites. And they are extremely valuable. They also happen to be people just like you.
That is why the Guardian has always believed that the reader is king. Everything we do; everything we distribute; everything we sell must be uniquely “Guardian” if it is to be valued by global, 21st century readers“.
E questo, aggiungo io, a partire dalla cura e dalla moderazione dei commenti. È faticoso, impegnativo, bisogna investire risorse umane, tempo, denaro. Qui si può scaricare un utile report del Wan-Ifra sulle migliori pratiche per la gestione dei commenti online (Online comment moderation emerging best practices).
Valorizzare i commenti, la discussione online significa valorizzare i lettori che si impegnano e dedicano il loro tempo a commentare gli articoli, significa accogliere e gratificare la voglia di partecipazione. E significa valorizzare il contenuto stesso del nostro lavoro giornalistico, che ne esce così più forte e più solido. La conversazione e il coinvolgimento della community in nome di un giornalismo migliore.
Il New York Times e il Washington Post insieme hanno stretto un accordo con Mozilla per sviluppare una piattaforma specifica per la gestione e valorizzazione dei commenti e dei contributi dei lettori. Il progetto ha ricevuto un sostegno della Knight Foundation, che promuove l’innovazione nel giornalismo, di quasi 4 milioni di dollari.
D’altra parte il giornalismo non dovrebbe solo informare i lettori, ma, come ha sottolineato Ingram, dovrebbe anche aiutare le comunità ad agire rispetto a temi di particolare interesse. Invito indirizzato soprattutto ai giornali locali. La riflessione prende spunto da un esempio piccolo ma molto significativo riportato anche in un articolo di Vincenzo Marino sul potere dei social media:
“Il Manchester Evening News aveva dato notizia di un incendio che aveva distrutto il canile di Manchester e ucciso decine di cani, seguendo poi gli aggiornamenti: la struttura, dalla storia centenaria, è un’istituzione locale che ha tenuto in apprensione molti cittadini. Le visite sul sito del giornale hanno continuato a salire ora dopo ora, e letto l’ennesimo “cosa possiamo fare per renderci utili?” ricevuto sui social, la redazione ha deciso di prendere l’iniziativa e lanciare una raccolta fondi con l’ambizione di raggiungere almeno 5000 sterline da donare alla Manchester Dogs’ Home. Il totale delle donazioni dopo quasi 24 ore è stato di 105 mila aderenti, più di un milione le sterline raccolte. La storia la racconta David Higgerson di Trinity Mirror sul suo blog e, depurata dalla curiosità dell’aneddoto, può raccontare qualcosa del giornalismo moderno. «Le redazioni devono capire il potere dei social media», scrive. Non solo per racimolare visualizzazioni e like, ma «per dare una risposta a ciò che la gente dice sui social». Essere realmente parte di un territorio e di chi lo abita, offrire una soluzione“.
Altri esempi significativi sono Mediapart, in Francia, e InfoLibre in Spagna. Modelli basati su giornalismo indipendente, coinvolgimento e partecipazione della comunità (a tutt’oggi Mediapart vanta 100mila abbonati e un fatturato in attivo con 52 giornalisti in redazione). Ricordo anche l’olandese De Correspondent che attraverso il crowdfunding ha raccolto nel suo primo anno di vita quasi 2 milioni di dollari. Uno dei punti di forza di De Correspondent è proprio la relazione con i lettori, trattati come partner. Un modello basato su giornalismo investigativo e di qualità e un forte coinvolgimento della community nel processo di costruzione e condivisione delle notizie. Scrive uno dei fondatori, Ernst-Jan Pfauth:
“At De Correspondent, we believe that journalists should work together with readers, since every reader is an expert at something. And 3,000 teachers know more than just one education correspondent. That’s why we see our journalists as conversation leaders and our members as contributing experts“.
Sì, non è affatto facile gestire una comunità, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei commenti. Sì ci sono i troll e quelli che provocano e usano un linguaggio che disturba e allontana la comunità che partecipa. È noto che la moderazione dei commenti aiuta la conversazione, se i giornalisti intervengono nelle discussioni, i commenti incivili diminuiscono. Col tempo poi le comunità si auto-moderano. Basta darsi delle regole semplici, lineari e fare in modo che vengano rispettate. Come fa il Guardian, per esempio, che ha dato alla comunità dei partecipanti 10 linee guida. Segnalo in modo particolare la regola numero 10, che dice tutto della filosofia che c’è dietro queste scelte:
“The platform is ours, but the conversation belongs to everybody. We want this to be a welcoming space for intelligent discussion, and we expect participants to help us achieve this by notifying us of potential problems and helping each other to keep conversations inviting and appropriate. If you spot something problematic in community interaction areas, please report it. When we all take responsibility for maintaining an appropriate and constructive environment, the debate itself is improved and everyone benefits“.
Io in più farei a parte una sezione aperta a tutti dove è possibile leggere i commenti bannati dalla discussione, per far capire il motivo, la logica dietro quella scelta e smontare l’eventuale accusa di censura.
Sul rapporto giornalisti-commenti sono intervenuta più volte sul blog Valigia Blu. Rimando per semplicità a questo mio post nato da una discussione virtuale con Michele Serra.
Spesso leggiamo titoli sull’ormai mitologica fogna del web a causa appunto di commenti violenti e di odio, ma proprio qui andrebbe fatta la domanda ai miei colleghi: ma voi e i vostri giornali che tipologia di notizie riversate massicciamente sui social, come vi ponete rispetto alla moderazione della community? Perché c’è anche la responsabilità delle grandi testate – e va detto – rispetto al loro modo di stare sui social. Dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai.
Come disse Luca Bottura, conduttore su Radio Capital di Lateral, durante l’ennesima discussione online: Occorre un bilanciamento tra lo sdegno per i social e la carne da cannone data in pasto ai navigatori.
Voglio chiudere questa parte su giornalismo / giornalisti riprendendo la conclusione dello speech di Margaret Sullivan al Festival Internazionale del Giornalismo 2014:
“Forse, però, la cosa più importante di qualsiasi altra, nel bel mezzo di questo vortice di nuova tecnologia e nuovi strumenti, è che non possiamo perdere di vista i valori di fondo che tanto per cominciare hanno attirato così tanti tra noi verso il giornalismo: un profondo senso di compassione per i derelitti della società, unitamente al desiderio, talvolta nato da una doverosa indignazione, di rendere il mondo un luogo migliore gettando un fascio di luce su ciò che è sbagliato“.
Noi lettori, we the media
Quest’ultima parte voglio dedicarla a noi i lettori. A noi media, come direbbe Dan Gillmor, giornalista e direttore del Knight Center for Digital Media presso la scuola di giornalismo Walter Cronkite dell’Arizona University e autore dei libri Mediactive e We the media.
Anche ognuno di noi in questo ecosistema complesso è media, è nodo. È parte integrante di un sistema operativo sociale basato sulle interconnessioni. Mai come oggi abbiamo voce, possibilità di esprimere i nostri pensieri, le nostre opinioni e di attivarci, mobilitarci in nome delle nostre idee. Viviamo un’era che ci permette attraverso la tecnologia di apprendere e sviluppare competenze per entrare a pieno titolo nel giornalismo inteso come conversazione. Questo ci rende più forti, a patto però di avere piena consapevolezza del potere che abbiamo fra le mani e della profonda responsabilità di questa nuova dimensione che abitiamo ormai quotidianamente.
Nell’era del sovraccarico di informazione ognuno di noi può contribuire a creare senso dove c’è rumore. Contribuire a smontare false notizie, bufale, a immettere nel sistema anticorpi contro errori, manipolazioni, disinformazione. Aiutando noi stessi e le persone che frequentiamo nel mondo digitale, le nostre piccole o grandi comunità, ad affinare le nostre capacità di consumo critico dell’informazione.
La pretesa etica nei confronti dei giornalisti dovrebbe guidare anche i nostri comportamenti online. Essere pronti all’ascolto, al confronto, verificare prima di postare un link, retwittare una foto, condividere un video; rispettare gli interlocutori, ammettere un errore, se è il caso rettificare una notizia sbagliata, sentire la responsabilità del “tasto like”.
“Capitalizzando il rapporto di fiducia che tradizionalmente caratterizza le relazioni di amicizia, questi tasti di Facebook rappresentano nuovi indicatori per la diffusione di informazione credibile e rilevante (Lee Rainie, Barry Wellman – “Networked, il nuovo sistema operativo sociale”)”.
Ognuno di noi in questi spazi digitali, in questi ambienti sociali e culturali, decide che informazione intestarsi. A partire anche dal linguaggio e dalle parole che usiamo. Perché le parole decidono non di me o di te ma di noi, decidono che comunità siamo e che comunità vogliamo costruire intorno a noi.
“Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità… Dovremmo ritrovare l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti (Gustavo Zagrebelsky – “Sulla lingua del tempo presente”)”.
Se ognuno di noi è media e se facciamo sempre più parte di un ecosistema informativo aperto, non possiamo sottrarci a questa responsabilità, in quanto consumatori attivi e partecipanti.
Richard Gingras, Head of news di Google, anche lui speaker del Festival 2014, ha detto:
“Io non ho dubbi che quel che ci aspetta sarà migliore di quel che abbiamo vissuto perché le informazioni e le notizie non sono solo una parte della nostra vita, ma sono diventate il tessuto stesso dell’esistenza delle persone“.
Fermiamoci un attimo. Proprio perché sono il tessuto stesso delle nostre esistenze dovremmo imparare a filtrare, selezionare, scegliere. Le notizie, tutte le notizie che ogni giorno ci vengono “servite”, ci servono davvero?
L’ossessione di controllare le notizie, l’immersione quotidiana e totalizzante nelle news non è naturale. È come il consumo eccessivo di cibo. Anche per le news, per il nostro benessere psico-fisico, è necessaria una dieta informativa equilibrata.
Chiederci se le news sono importanti – dice il filosofo Alain De Botton – non significa dire che non lo siano, ma valutare i vantaggi di una fruizione più ponderata e consapevole.
Concludo questo mio intervento, proprio sul consumo critico e consapevole dell’informazione. Nel suo libro News, le notizie: istruzioni per l’uso, De Botton sottolinea la straordinaria capacità della stampa di influenzare il nostro senso della realtà e di modellare ciò che potremmo chiamare – senza alcun riferimento spirituale – la nostra anima. E invita al buon senso nel nostro rapporto quotidiano con la macchina dei media, a un consumo ponderato. Il ritmo del ciclo informativo è inarrestabile, dovremmo imparare a maneggiarlo con cura, essere capaci anche di distacco:
“Una esistenza piena richiede la capacità di riconoscere i momenti in cui le notizie non hanno più nulla di originale o importante da insegnarci; i periodi in cui è meglio non farsi distrarre da legami immaginari con perfetti sconosciuti, in cui conviene lasciare a qualcun altro il compito di governare, trionfare, fallire, creare o uccidere, nella consapevolezza di avere i nostri obiettivi personali da perseguire nel breve tempo che ci è ancora concesso“.
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Ci fosse un italiano!
Lasci stare, son tutte belle parole.
I fatti, lo sanno loro, lo sa lei, sono che i media (praticamente tutti) si attengono a quel che vogliono sia pubblicato e/o reso noto dal potere economico/politico.
Le faccio un esempio.
Le dichiarazione dell’ex-capo dell’FBI licenziato da Trump davanti al Gran Giurì: enfasi sulle sue parole.
Ma ad un paio di commentatori non è sfuggito questo: perché ha aspettato di essere licenziato per farsi ascoltare dal Gran Giurì? Poteva farlo anche quando era in carica se le accuse contro Trump erano così evidenti e schiaccianti (se, ripeto, se).
La ripicca di un frustrato o una bella imbeccata dai democratici frustrati per non aver fatto eleggere la Clinton?
Nessun media del mainstream se l’è chiesto questo?
No, ovviamente.
Finita la questione su cosa chi come si fanno i giornali e su chi siano i giornalisti.