«La generazione ansiosa» (Rizzoli, uscito il 10 settembre 2024) dello psicologo Jonathan Haidt. Sotto accusa l’abuso degli smartphone e l’iperprotettività dei genitori.
Giovani che non dormono
(non si concentrano, stanno poco in società: così lo smartphone ha reso depressi e ansiosi i nostri adolescenti)
di Walter Veltroni
(pubblicato su corriere.it/cultura il 1 settembre 2024)
Leggevo il libro di Jonathan Haidt La generazione ansiosa, colpito in primo luogo dall’esplicito sottotitolo: Come i social hanno rovinato i nostri figli quando, a causa di un incendio avvenuto in zona,improvvisamente è saltato ogni collegamento telefonico. Non il wifi, non l’operatore mobile. Nulla. Silenzio.
Con quel telefono, che un incendio ha momentaneamente reso un ninnolo superfluo, di solito si può: parlare, scrivere, acquistare, leggere, giocare, controllare il conto in banca, il peso, la cartella sanitaria, scattare fotografie, girare video, ascoltare musica, ordinare cibo, organizzare viaggi, definire percorsi stradali…
Tutto in un clic. Tutto tempo restituito alla propria vita. Cose che richiedevano ore, come andare in banca, sostituite da un gesto. Diciamoci la verità: una meraviglia.
In teoria, questo oggetto ci restituisce tempo di vita.
Ma come lo usiamo noi? Sul cellulare.
Un paradosso
Il problema è particolarmente acuto tra gli adolescenti.
Haidt, nel libro La generazione ansiosa (Rizzoli, uscito il 10 settembre 2024) che molto farà discutere, sostiene che, con l’arrivo dei social, si è progressivamente passati, tra i ragazzi, dalla «generazione del gioco a quella del telefono». Parla di una «Grande Riconfigurazione dell’infanzia» come «unica e sostanziale ragione alla base dell’ondata di malattie mentali tra gli adolescenti iniziata nei primi anni Dieci del Duemila». E aggiunge: «La prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con in mano lo smartphone (e internet) è diventata sempre più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari…».
Secondo i dati pubblicati nel libro la depressione tra i ragazzi americani, in questo periodo, è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine, l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine. È chiaro, almeno per me, che altri fattori — storici, sociali, ambientali — hanno inciso nel profondo sul grado di fiducia nella vita e nel futuro di questa generazione.
Dice Haidt: «Il cervello umano contiene due sottosistemi che lo mettono in due modalità: la modalità di scoperta (per approcciare le opportunità) e la modalità di difesa (per difendersi dalle minacce). I giovani nati dopo il 1995 hanno maggiori probabilità di attenersi alla modalità di difesa, rispetto a quelli nati negli anni precedenti. Sono costantemente in allerta in previsione di pericoli, invece che in cerca di nuove esperienze. Soffrono di ansia».
Per Haidt ciò che sta accadendo ha a che fare con la rimozione del gioco, esperienza individuale e collettiva, dalla formazione infantile.
«Proprio come il sistema immunitario deve essere esposto ai germi e gli alberi devono essere esposti al vento, i bambini devono essere esposti a ostacoli, insuccessi, shock e inciampi per poter sviluppare forza e autosufficienza. L’iperprotezione interferisce con questo sviluppo e rende più probabile che questi giovani diventino adulti fragili e apprensivi. I bambini cercano il livello di rischio ed emozione per cui sono pronti, in modo da dominare le proprie paure e sviluppare competenze».
Nel libro si denuncia l’iperprotettività dei genitori che, resi ansiosi dalla società della paura, proiettano questi timori sui figli, privandoli della fiducia nel futuro e nel prossimo. «Questo atteggiamento è pericoloso perché rende più difficile per i bambini imparare a badare a se stessi e a gestire rischi, conflitti e frustrazioni». Con il paradosso di bambini sottoposti a un ipercontrollo fisico e poi lasciati completamente liberi di vagare nei boschi della Rete.
La diagnosi di Haidt delle conseguenze della «rovina» di una intera generazione è durissima. Indica quattro fenomeni.
Il primo: la riduzione dei momenti di socializzazione. Le occasioni di incontro tra amici sarebbero, con l’avvento dello smartphone, passate da centoventidue minuti al giorno nel 2012 a sessantasette minuti al giorno nel 2019.
Il secondo: «Appena gli adolescenti sono passati dal telefono modello base allo smartphone, il loro sonno è peggiorato in quantità e qualità in tutto il mondo industrializzato».
Il terzo: la frammentazione dell’attenzione. «Gli smartphone sono kryptonite per l’attenzione. Molti adolescenti ricevono centinaia di notifiche al giorno, vale a dire che raramente hanno cinque o dieci minuti per pensare senza interruzioni».
Quarto, e più pericoloso, è la dipendenza: «Molti adolescenti hanno sviluppato dipendenze comportamentali molto simili a quelle causate dal gioco con le slot-machine, con profonde conseguenze per il loro benessere, lo sviluppo sociale e la famiglia». La dipendenza si manifesta — me lo hanno confermato personalmente degli psicologi infantili italiani — in ansia, irritabilità, insonnia.
Il libro si conclude con una serie di saggi consigli a insegnanti, governi, genitori.
Ma il problema è reale, di fondo e merita una discussione. Non bisogna accettare il catastrofismo dei nemici delle tecnologie, dei luddisti della evoluzione scientifica, ma cercare, secondo me, di distinguere le opportunità della rete dalle distorsioni dei social. Ci deve preoccupare l’affermarsi di una sollecitazione costante al pensiero puramente binario, alla rimozione della complessità e, ancor di più, dell’accoglienza del pensiero e dell’identità altrui.
Il libro di Haidt dovrebbe essere discusso in classe, e letto tra genitori e figli.
Spegnendo i cellulari, senza bisogno di un incendio.
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Lo sbandamento esistenziale delle nuove generazioni, il cui “girarsi nel letto per tutta la notte” è la cartina di tornasole, è un profondo problema socio-cultutale die nostri giorni. Non c’è “dolo” da parte di nessuno, la massimo “colpa” come direbbe un giurista (il che cmq non assolve i responsabili), perché è il frutto di una combinazione negativa di fattori che si sono manifestati in contemporanea e(e spesso interagiscono fra loro. Le sconfinate posibilità che offre la tecnologia dei giorni nostri) sono, paradossalmente, una “gabbia” in cui ci si infila (passando notte e dì con il naso sul display), anziché il prologo di crescita personale che un tempo non c’era. Completano il quadro l’iperattivismo spesso imposto dia genitori ai figli fin da piccoli (scuola, magari selettiva, poi nuoto, inglese, teatro, pianoforte… e così via) e, in parallelo, l’iperptotezione dei genitori verso i figli (fenomeno che arriva a picchiare gli insegnati… quando ai mie tempi se prendevo un’insufficienza la sberla me la ricevevo io…). I giovani sono esposti ad una crescita “fragile” molto di più di noi, intendo di noi boomer, che già eravamo dei fortunati rispetto alle generazioni precedenti, che avevano vissuto la guerra e il tirar la cinghia. Che fare? occorre instillare nei giovai la voglia di vivere, di fare, di realizzarsi. Come? portando ciascuno a individuare uno o più motori di vita (“driver” li chiamano oggi), cioè uno o più interessi che ti facciano alzare la mattina con il piacere della giornata che hai davanti. E che ti sfianchino talmente tanto, durante la giornata, che alla sera crolli addormentato. altri che fisime notturne, persi di fronte alla fragilità della vita. quali possono essere questi “driver”? per la piccolissima esperinza che ho da educatore nell’ambito del volontariato laico, direi qualsiasi interesse di tipo culturale-sportivo-politico. Io noto che noi (noi boomer) durante gli anni Settanta eravamo animati dal dibattito politico (o di qua o di là), e poi parlavamo animatamente di sport, praticato e/o visto, avevamo mille attività che ci riempivano le giornate e quindi la vita. Il segreto, quindi, è tornare a un modello pre-tecnologico. Il che NON significa rifiutare la tecnologia e i suoi apparecchi, ma relegarli al loro giusto valore: quello di strumenti da usare per perseguire i propri interessi e non di “fine” dell’esistenza.