Giuseppe Alippi, il Det -1
di Edoardo Falletta e di Redazione Gogna Blog
Giuseppe Alippi è un uomo in bilico. Det, com’è meglio conosciuto in Grigna, vive infatti sul ripido filo di cresta che divide due mondi: quello dell’agricoltura e quello del grande alpinismo. Questi due aspetti, seppur a prima vista possono apparire distanti, nella persona del Det si congiungono trovando sintesi ed equilibrio. Giuseppe Alippi, classe 1934 vive fuori dal tempo comunemente inteso e come ogni uomo appartenente a un mondo lontano, sfugge ai criteri delle logiche razionali. Quando gli domando se oggi, a 81 anni, si sente più alpinista o più agricoltore mi risponde: “Io mi sento più contadino perché sono nato con le mani nella terra e tutto il resto è stato un piacevole diversivo”.
Giuseppe Det Alippi
Dopo un’incidente sugli sci che gli provoca la frattura di una gamba, all’età di 24 anni la prospettiva con la quale il Det guarda le montagne cambia radicalmente. I ripidi pendii coperti di neve si tramutano in erte pareti di roccia. Ai piedi non sono più necessari due veloci legni ma lucidi scarponi di cuoio. Forse è proprio il duro lavoro nei campi che tempra le membra del Det rendendolo adatto a compiere con estrema facilità quei gesti che nell’alpinismo sono consueti. Inoltre, la sua passione per la caccia alle coturnici, che per farsi stanare nei luoghi più aridi della montagna fanno sì che anche il cacciatore debba essere un po’ alpinista, facilita il giovane ad approcciarsi alle grandi scalate.
Trasportato con la leggerezza del polline sulle ali delle api, il Det nel corso della sua vita ha viaggiato in lungo e in largo. Nel 1960 diventa guida alpina e grazie a questo mestiere ha la possibilità di esplorare latitudini lontane che altrimenti gli sarebbero precluse.
In Patagonia, dove il Det lascia un pezzo di cuore, torna per ben 15 volte. Tre delle quali per navigare su un canotto gli imponenti fiumi che riversano le acque schiumose nei mari ai confini del mondo. Ridendo il Det mi confessa che quando una persona fa troppo fatica ad andare in alto sceglie saggiamente di andare in basso. E lui, come scelta orizzontale decide di navigare i grandi fiumi della Patagonia. “Perché le grandi avventure non sono solo quelle alpinistiche, l’importante è avere lo spirito e la voglia di saperle creare”.
Giuseppe Det Alippi
La Patagonia, ha esercitato tutto il suo fascino primordiale agendo come una calamita sul Det. In quella terra selvatica sferzata da venti costanti si è fuori dal mondo e non ci si può permettere il lusso di sbagliare perché anche il più piccolo errore potrebbe essere l’ultimo. In un ambiente così ostile, la parola “avventura” è permeata di tante e profonde connotazioni. L’impresa rischiosa e attraente, piena di fascino per ciò che vi è in essa d’ignoto o d’inaspettato non risiede esclusivamente negli aspetti alpinistici ma al contrario, coinvolge tutte quelle attività che della scalata sono accessorie e ne costituiscono i presupposti. La mancanza di strade o di piste battute e la quasi inesistenza di ponti rendono oltremodo complicato procedere rapidi. “Per salire il Cerro Campana sono andato in Patagonia quattro volte. La prima nel 1992 e sono riuscito ad arrivare sulla vetta nel 2005. Due tentativi sono sfumati senza neanche avere avuto la possibilità di accedere alla parete”.
Anche l’Himalaya gioca un ruolo importante nella vita del Det che nel 1975 è chiamato a prendere parte alla spedizione organizzata dal CAI Centrale che si pone l’ambizioso obiettivo di salire la parete sud del Lhotse. Riccardo Cassin che è a capo della spedizione sceglie la linea nuova per la quale l’uomo non è ancora passato. La spedizione tuttavia fallisce a causa del maltempo. “Di fronte alla natura himalayana, imponente e maestosa, le imprese degli uomini devono essere assecondate da un clima favorevole se non vogliono fallire tragicamente. Quando il meteo è diventato avverso, ci trovavamo a una quota di 7600 metri e dovevamo ancora scalarne 900 per raggiungere la cima, con un lungo tratto orizzontale. Su questi grandi altipiani, le capacità degli uomini arrivano fino ad un certo punto poi sono superflue e se si vuole salvare la vita bisogna essere capaci di rinunciare per avere la possibilità di tornare nuovamente. L’uomo non ha il diritto di uccidersi per il capriccio di conquistare una montagna”.
Reinhold Messner, anch’esso membro della spedizione scrive: “Io il Det l’ho conosciuto sul Lhotse. Era magro, aveva la pelle delle mani rugosa come la corteccia di un larice e camminava agile e veloce come un camoscio”.
(Edoardo Falletta)
Per il Det ci sono due tipi di clienti: con quelli veri si va sulla Segantini, al massimo la traversata dei Magnaghi. Anche Annibale Zucchi ha sempre detto «a portare in giro i clienti ti puoi scordare di arrampicare».
La parete sud della Torre Costanza (Grigna Meridionale)
Det invece si è procurato quattro-cinque clienti ben diversi (nel frattempo continuava a lavorare nel settore dell’acqua frizzante e come agricoltore, rinunciando alla caccia, per questioni di tempo). Uno di questi è l’ingegnere Antonio Guffanti (con cui ha salito una difficilissima via nuova sulla Torre Costanza il 28 giugno 1970 e un’altra al Col Alton, 2882 m (Col Turond), nel gruppo di Sella, dove in cordata era anche Luciano Ploner, 30 giugno 1973); un altro è Carlo Buzzi (Nord Est del Pizzo Badile, Sud della Aiguille Noire de Péuterey, Graffer al Campanile Basso, pilastro dei Francesi al Crozzon di Brenta). Con Buzzi, Det compie anche un magnifico giro per i ghiacciai della Patagonia (e per lui era la prima volta).
Ai primi tempi,quando sale la Nord-est del Pizzo Badile, parte da Ardenno arrivando al rifugio Sciora in piena notte dopo sette ore di marcia forsennata. La domenica prima tra sbrendoli di nebbia l’aveva vista dal Pizzo Cengalo (salito con Casimiro Ferrari per lo Spigolo Vinci). Al rifugio trova Dino Piazza con altri e il giorno dopo sale la parete schiodando da primo ben 57 chiodi.
Racconta Det che da giovane teneva il materiale da montagna ai Resinelli, di nascosto da suo padre: una volta sente Messa, parte per i Resinelli, sale in vetta alla Grignetta con Pino De Col, scendono per il Canalino Federazione, corrono verso la Oppio al Sasso Cavallo: ma, passando sotto il Sasso dei Carbonari, indugiano a raccogliere una settantina di lumache e così arrivano alle 11 all’attacco, senza peraltro trovarlo.
Sulla parete del Forcellino, ben visibile dal lago di Lecco ma quasi irraggiungibile, non c’era alcuna via: mentre sono 400 metri di parete. Det, con Gigi Alippi, vi pone rimedio nel 1960 aprendo un itinerario estremo di grandissima classe, con due bivacchi, in un ambiente che non ha nulla della Grignetta ed è assimilabile alle più selvagge pareti delle Dolomiti Bellunesi, ripetuto ad oggi solo due volte (da Panzeri e Riva prima, poi da Beppe Dallona e C.). Molti anni dopo, il 25 e 26 aprile 1975, Sergio Panzeri e Giancarlo Riva aprono un secondo itinerario sulla stessa parete, autonomo solo in parte (le prime lunghezze sono sicuramente in comune) che talvolta genera confusione. La via Panzeri-Riva viene ripresa più spesso, sì da far cadere ingiustamente nell’oblio la via del Det.
La parete sud-est del Sasso Cavallo (Grigna Settentrionale)
Sul Sasso Cavallo sono ben due gli itinerari estremi che apre. La più soddisfacente è la via dei Corvi (chiamata poi via del Det), tratti in artificiale con uscite in libera davvero impegnativi, dove tanti erano tornati indietro (vedi p. 000), 500 m, VI+ e A3. La via della Luna, è un gradino inferiore anche se c’è un grande traverso (aperta con Benigno Balatti il 6 e 7 febbraio 1982, dopo precedenti tentativi, 480 m, VI+ e A3).
L’8 e 9 agosto 1972 con Angelo Pinciroli, Livio Stuffer e Carlo Troyer apre una via nuova sulla parete sud-sud ovest della Punta Margherita delle Grandes Jorasses, 600 metri, 60 chiodi, VI e A1: vengono criticati perché Stuffer e Ploner hanno usato l’elicottero per arrivare all’attacco.
Dal 3 al 5 agosto 1976, Det sale l’inviolata parete nord-ovest della Sfinge 2802 m, vicino al Pizzo Ligoncio. Suoi compagni sono Luciano Gilardoni, Marino Lafranconi e Riccardo. Snider, si tratta di 350 metri di via autonoma, di estreme difficoltà, sui quali Det usa 90 chiodi, di cui 11 a pressione. La via è dedicata a Pietro Gilardoni (Via del Peder) che aveva tentato in precedenza la via e ne era tornato per non aver voluto usare i chiodi a pressione. Ma a parte questo particolare, la via fu ed è ancor oggi una delle massime realizzazione nel gruppo del Masino.
Nel 1961, mentre Casimiro Ferrari e Mario Conti sono in ospedale per un grave incidente in Grigna, Det Alippi con Pierlorenzo Canéla Acquistapace e Giuseppe Lafranconi porta a termine la prima invernale della via Couzy alla Nord della Cima Ovest di Lavaredo. Quest’impresa è una pietra miliare della storia dell’alpinismo invernale. Compiuta dal 6 all’11 marzo 1961, su quella che allora era considerata la via in artificiale più difficile al mondo.
Riguardo alla via Couzy, qualche retroscena simpatico lo racconta Giuseppe Lafranconi: «La via l’aveva tentata Roberto Sorgato, ma si era ritirato. Beh, saputa la notizia, un venerdì sera, in “cinque e tre otto” ci siamo messi d’accordo. Siam partiti la mattina prestissimo perché non ci vedesse nessuno, visto che avevo detto ai miei che andavo al mare. Loro non approvavano per niente che io andassi in montagna. Eravamo in quattro su due moto, con mio cugino Andrea come uomo per il campo base. Verso Vicenza ci fermiamo a far benzina. Ci raggiunge la polizia: “Siete in contravvenzione, siete passati col rosso”. A casa non dovevano sapere, quindi niente verbale. Abbiamo “patteggiato” dodicimila lire, ma siamo rimasti al verde. Arrivati al rifugio Auronzo alle due di notte, entriamo da una finestra. Alla mattina spieghiamo al custode le nostre intenzioni e partiamo all’attacco. Avevamo uno spago che calavamo a mio cugino. Al secondo bivacco, con lo spago, è arrivata la notizia che la radio aveva dato l’annuncio che eravamo in parete. Mio cugino un po’ lavava piatti, un po’ contrattava le notizie coi giornalisti per assicurarci i soldi per il ritorno. Intanto noi, in parete, nei momenti di sconforto, ci ripetevamo la storia delle dodicimila lire. Quando siamo usciti dall’ultimo tetto, dopo il terzo bivacco, abbiamo buttato di sotto staffe e chiodi e via, il più svelti possibile, comunque al rifugio siamo arrivati la sera col buio. Sotto quel tetto ho fatto un volo bestiale: gli altri erano sopra, è uscito un chiodo e sullo strappo altri cinque o sei. Mi son trovato a penzolare nel vuoto sotto il tetto. Ho gridato: “Tiratemi su che qui non posso far niente”. Tornato a casa ne ho sentite una “fiacca”. Ma ormai era fatta» (A. Benini, Ragni di Lecco, Vivalda Editori, Torino 1996).
La parete del Forcellino (Grigna Meridionale)
Dopo tanti viaggi e spedizioni, oggi Det sentenzia: «La Patagonia ti permette, da vecchio, di godere dell’ambiente. In Himalaya questo non è possibile».
Sul Cerro Piergiorgio, parete nord-ovest, nel 1994 ha totalizzato 28 bivacchi per un dislivello di 350 metri: senza riuscire a completare la parete. È lì che pronunciò la famosa frase «Te se stuferet ben de fa brut», detto al brutto tempo…
Nel 1990-1991 ha salito il Cerro Don Bosco, 900 metri di dislivello, con tratti di ghiaccio a 90°, di fronte al Grand Murallon, con suo cognato Benigno Balatti e Luciano Spadaccini. A due tiri dalla vetta bivaccano nella bufera più scatenata, in cima non vedono nulla, in discesa ha paura di incappare nella crepaccia che aveva osservato dal basso: salvo poi, ancora più in basso, rilassarsi e cadere ben due volte nei crepacci.
Più recentemente, a settant’anni anni, ha condotto tre clienti sul Cerro San Lorenzo: lui era senza imbragatura, per risparmiare sul peso.
Il Det in arrampicata
Antonio Guffanti, classe 1921, il cliente preferito di Det, racconta di aver cominciato ad arrampicare a quarantadue anni sulla via dei Camini alla prima Torre del Sella con Luciano Ploner. Conosce Det a metà degli anni Sessanta. Queste due figure diventeranno per lui importantissime: ricorda che quando li ha fatti conoscere, Det aveva un gran maglione che gli arrivava alle ginocchia e si sono dati subito del tu. Era un rapporto cliente-guida del tutto particolare, con profonda stima reciproca e amicizia. Lui magari gli comprava delle scarpe, e non c’erano tariffe precise. «Vedendo Det arrampicare sul Col Turond, Ploner mi chiese all’orecchio: “ma in Grignetta arrampicano tutti così?”. Det, dal canto suo, era l’unico convinto ad uscire fuori in giornata. Una volta ai primi di giugno eravamo a metà spigolo Vallepiana sul Torrione Clerici. Giungemmo ugualmente in vetta ma poi fu necessario scendere a corda doppia fino ai prati innevati, dove continuammo a ruzzolare e scivolare fino al Sentiero dei Morti. Abbiamo anche fatto una bella prima ripetizione, la via dei Ragni alla Mongolfiera», racconta Guffanti.
Sulla Ruchin al Torrione Fiorelli, parete est-sud-est, Guffanti ricorda di avere visto Det in difficoltà, e parecchio anche. Anche sulla Comici allo Zucco di Campelli con qualche esitazione ha tirato diritto dopo un chiodo di Comici, rotto per il volo con esito mortale di un poveretto qualche tempo prima.
La via sulla Torre Costanza non riescono a farla in giornata. Ploner ne fa la prima ripetizione con Silvio Riz. Il commento di Luciano a Gigi Alippi è: «Mi sembra un po’ matto Det ad aver portato l’Antonio su di lì».
(redazione Gogna Blog)
(continua)
1
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.