Giusto Gervasutti, 75 anni dopo
di Carlo Crovella
Sono ormai trascorsi 75 anni dalla scomparsa di Giusto Gervasutti, deceduto al Mont Blanc du Tacul il 16 settembre 1946.
Il tragico evento colpì profondamente l’intera comunità alpinistica, sia nazionale che internazionale, ma sicuramente esso fu particolarmente avvertito dai torinesi. Già allora a Torino (a torto o a ragione non importa) si tendeva a considerare Giusto come il “nostro Gervasutti”: proprio così scrisse Massimo Mila nel necrologio pubblicato su L’Unità.

Per celebrare degnamente la cifra tonda dell’anniversario, ho pensato di riproporre alcuni risvolti meno noti della vita di Giusto, perché collegati alla comune esistenza e non alle imprese alpinistiche.
Si tratta di alcuni appunti, a dire il vero un po’ eterogenei fra loro, rintracciati nell’archivio di Giusto da Andrea Filippi e da costui pubblicati su Scandere (annuario del CAI Torino) del 1952. Dalla loro pubblicazione sono trascorsi quasi 70 anni: per i lettori di oggi si tratta di documenti praticamente inediti e forniscono qualche dettaglio in più sui pensieri del Fortissimo.
Andrea Filippi, giovane torinese e sucaino della prima ora (alla ripartenza post bellica), fu uno degli ultimi compagni di cordata di Gervasutti. Infatti nell’estate del ’46 salirono insieme la Via Lepiney al Trident du Tacul, aprendo una variante iniziale. Nei ricordi del giovane Andrea, l’episodio si è ammantato di una certa aura mitica. In quell’estate Gervasutti stazionava al rifugio Torino e cercava, di volta in volta, compagni di cordata. I due si erano conosciuti in città, perché Gervasutti partecipava in modo significativo all’attività della rinata SUCAI (dove, tra l’altro, fece confluire la Scuola di alpinismo Boccalatte, diretta da Giusto fin dal 1939).
Tuttavia non pare che i due avessero un esplicito appuntamento al rifugio Torino. Quando Filippi arrivò, Gervasutti lo coinvolse immediatamente nel progetto della Lepiney e tale episodio è rimasto impresso nella mente di Andrea, come se si trattasse di una specie di “chiamata” da parte del Maestro.
L’esperienza folgorò Filippi che, al seguito della scomparsa di Giusto pochi mesi dopo, ne divenne una specie di alfiere terreno. Si deve a Filippi, infatti, un insieme di attività in memoria del Fortissimo (fra cui la realizzazione della prima capanna Gervasutti al Fréboudze) e fra queste rientra anche la costituzione di un interessante archivio (custodito, dopo la scomparsa dello stesso Andrea, dalla sua famiglia) comprendente cimeli, fotografie, appunti e taccuini vari di Gervasutti. Andrea infatti entrò in confidenza con il padre di Giusto e gli fu permesso di accedere liberamente nella studio del Fortissimo.
Sappiamo che la residenza torinese dei Gervasutti si trovava in un alto palazzo situato in corso Bramante, anche se i Gervasutti entravano da un ingresso laterale in via Giotto n. 51. Non si hanno invece informazioni specifiche sull’interno dell’abitazione, ma da alcuni cenni, che emergono qua e là, pare che lo studio di Giusto, dove egli trascorreva il tempo ad analizzare testi ed elaborare progetti sia alpinistici che professionali, godesse di una certa visuale sulle montagne. O, forse, è proprio a me piace immaginare il Fortissimo che ogni tanto alzava lo sguardo dalla scrivania e “respirava” a pieno polmoni, grazie all’ampia veduta verso il profilo dei monti. V’è da dire che, davanti al palazzo, si estende il complesso ospedaliero delle Molinette, molto articolato, ma non certo alto quanto il palazzo stesso: anche da un piano non eccessivamente elevato, la vista spazia senza limiti verso il Monviso e le montagne adiacenti.

La stessa ampiezza di vedute non poteva invece ravvisarsi nel caseggiato dove (nel cortile) aveva sede la tipografia (in ultimo anche casa editrice) di Gervasutti: si trovava in Via dell’Orto Botanico n. 15 (oggi Via Lombroso), più o meno nella stessa zona di Torino (rispetto all’abitazione), ovvero nei pressi del Parco del Valentino.

A proposito dell’incidente fatale, si è molto ragionato sull’apparente banalità della sua dinamica. Gervasutti è precipitato mentre risaliva le corde di una doppia per liberarle in quanto si erano incastrate: chissà quante volte avrà compiuto in vita sua una manovra del genere!
Tre accreditati osservatori (Enrico Camanni – Daniele Ribola – Piero Spirito) hanno pubblicato, tempo fa, il libro La stagione degli eroi (Vivalda Editori, Torino, 1994). I tre autori analizzano in parallelo tre personaggi dell’epopea italiana del VI grado: Gervasutti, Comici e Castiglioni. Non intendo riportare qui le tesi esposte in tale libro (gli interessati possono agevolmente consultarlo: ne vale la pena), tuttavia uno certo fil rouge che lega i nove interventi (3 autori per 3 personaggi) si connette alla relativamente banalità degli incidenti fatali, quasi incomprensibili considerata la caratura degli alpinisti. Oltre a quanto accaduto a Gervasutti, ricordo che Comici non verificò la solidità del cordino dove stava per fare la corda doppia e che Castiglioni scappò dal controllo dei gendarmi svizzeri per tentare, praticamente a piedi nudi e (se non erro) anche senza pantaloni, il rientro in Italia attraverso terreni glaciali di alta montagna: fu colto da una spaventosa tormenta e fu trovato tempo dopo. Questa incomprensibile sbadataggine negli incidenti fatali induce gli autori a ipotizzare una specie di inconscio desiderio suicida presente nei tre alpinisti.
Quando lessi tale libro per la prima volta (circa 25 anni fa), rimasi indispettito dalla tesi avanzata, perché mi pareva un’ombra sulla figura eroica dei tre alpinisti. A distanza di tempo, la cosa mi appare meno stridente e, forse, più fondata: qualcosa che “non torna” c’è davvero nei tre episodi. Diciamo che, più che una nascosta propensione suicida, dal mio piccolo osservatorio io avanzo l’ipotesi che si sia trattato di peccati di tracotanza, quella che già gli antichi greci avevano già ben individuato, chiamandola Ubris: gli eroi sfidano gli dei (o il fato), perché le loro gesta precedenti li inducono a credersi onnipotenti, e gli dei li puniscono proprio per questa imperdonabile alterigia.
Nel caso di Gervasutti, l’esempio mi pare calzante, pur precisando che siamo nel campo delle pure ipotesi personali. Circostanziamo però la parte finale dell’esistenza di Giusto. Nei lunghi anni del conflitto, Gervasutti è inizialmente riuscito ad andare in montagna, realizzando tra l’altro alcune imprese di rilievo come il Pilier del Frêney (estate del ’40) e la Est delle Jorasses (agosto ’42). Ma nell’estate del ’43, tornando dall’Aiguille de Leschaux, cade in un crepaccio e si produce un infortunio ad un ginocchio. Nei suoi appunti si ritrovano solo vaghi (ma, proprio per questo “preoccupati”) accenni a tale infortunio, le cui ripercussioni più critiche potrebbero essere emerse negli anni successivi. Durante il periodo della guerra partigiana, Giusto (vuoi per un motivo, vuoi per un altro) non realizza un’attività alpinistica particolarmente intesa. Per quanto riguarda i mesi successivi alla Liberazione, poi, da alcune corrispondenze emergono vari riferimenti a problemi di salute che lo avrebbero addirittura costretto ad un intervento chirurgico, con relativa convalescenza. E’ possibile che sia la spia di un certo decadimento generale, apertosi con l’infortunio e ampliatosi ad altre problematiche. In ogni caso la convalescenza e la rieducazione sono lunghe e complesse, con un impatto depressivo da non sottovalutare, mentre dall’altra parte l’età avanza inesorabilmente anche per un fisico inossidabile come quello del Fortissimo. In effetti una foto reperita nell’archivio Filippi e risalente al ‘46, mostra un Gervasutti con il viso decisamente stanco e perfino un po’ ingobbito. Insomma non in forma smagliante.

La mia sensazione è che Giusto, reduce da un periodo piuttosto tribolato, volesse recuperare il tempo perduto sia per colpa della guerra che dei suoi problemi personali, rimettendosi a praticare con intensità l’alpinismo, specie di alto livello. L’animus è ritornato quello dei giorni grandi, però il fisico e la concentrazione nervosa non sono più in grado di tener dietro alla sua volontà. In questa dicotomia potrebbe esser maturato il cortocircuito fatale.
Nell’estate del ‘46, come accennato, Giusto si era praticamente stabilito al rifugio Torino e, con diversi compagni scelti di volta in volta, realizzò numerose salite, come preparazione per una “prima” di prestigio, quella del Pilier del Tacul.
Purtroppo però, durante tale ascensione il tempo volse al brutto e costrinse Gervasutti e il compagno Gagliardone alla discesa forzata. Chissà come si svilupparono davvero gli eventi: non potremo mai sapere con esattezza. Questo non offusca minimamente il suo ricordo: per tutti Gervasutti resterà sempre il Fortissimo.

Per stemperare l’atmosfera un po’ cupa in cui ci hanno condotto queste riflessioni, ho aggiunto, in calce a tutto, un redazionale di Monti e Valli (notiziario del CAI Torino) riferito ad un risvolto scherzoso della commemorazione tenutasi a Cervignano del Friuli per i 70 anni dalla scomparsa del grande alpinista (novembre 2016): anche io posso dire di avere una fotografia insieme a… Giusto Gervasutti!
Dal taccuino di Giusto Gervasutti
(pubblicato, a cura di Andrea Filippi, su Scandere 1952, annuario del CAI Torino
Pubblicando scritti autografi inediti di Giusto Gervasutti, da noi con geloso affetto raccolti nel suo studio, vogliamo riconoscere in questi suoi pensieri l’essenza spirituale del grande Maestro.
Sono scarne pagine di soggetto diverso, ma rivive in esse un profondo amore, una severa antica saggezza, il balenio di una volontà mai doma: è in esse lo spirito di chi alla montagna andava anzitutto con il cuore e che da essa era portato in un mondo tanto diverso.

E’ ancora Giusto accanto a noi che, alle luci crepuscolari mentre scruta la sua via dalla finestrella della capanna, chiacchera con la sua buona cara voce di amico e di maestro, e ci dice i suoi pensieri, suoi ricordi, le sue impressioni, i suoi consigli, in attesa di iniziare la scalata più bella sulle sue rocce verso l’oro del suo sole. E come tali, come le ultime sue parole, vorremmo che fossero accolte queste sue note (Andrea Filippi).
L’alpinismo non è come un scienza o una necessità di vita dove è indispensabile apprendere nel minor tempo possibile tutto ciò che fu fatto finora e cercare di utilizzarlo.
Bisogna perciò lasciare al giovane il piacere della scoperta, altrimenti una gran parte del piacere svanisce.
Se si è già tutto imparato, se si è già tutto visto, se si è già tutto provato, che0 cosa resta?
I confini entro cui avevo operato sino allora incominciavano ad essere angusti. Mi occorreva svariare su altri orizzonti.
E così iniziai il secondo periodo, quello della preparazione fisica e spirituale a qualunque grande impresa.
Di questo periodo, che va fino alla fine del 1933, io ricordo bene soprattutto l’atmosfera nella quale vissi le ore che non si dimenticano.
Ma se chiudo gli occhi a rievocare le innumerevoli salite compiute mi sembra di vederle sotto un duplice aspetto: una parte tutte luminose e sono quelle godute in piena letizia sulle creste inondate di sole e sulle pareti di calde rocce oneste; altre invece circondate di fresche tenebre quando le tempeste ci incalzano senza soste o il nostro ardore ci spinge egualmente innanzi, su per i tetri canaloni o sotto le minacce delle valanghe.
I cultori del sesto grado con chiodo ad ogni cinquanta centimetri hanno detto che queste sono imprese da ridere in confronto… ma bisogna aver provato la solitudine immensa…

Due anni dopo quella salita (al Cerro Campione) in una tremenda parete delle Alpi Occidentali, dopo un bivacco estenuante, quando la massa dei ghiacciai sembrava volesse ghermirci per sempre, io chiesi al mio compagno se avesse ancora il mozzicone di candela.
Era, è vero, un atto di rinuncia e di sottomissione spiegabile in un momento come quello, ma era anche una speranza.
Dei segnali potevano essere fatti, degli amici avrebbero potuto salire dalle pareti più facili e calarci una corda. Era l’unica speranza, anche se disperata, ma lì nessuna possibilità di soccorso. Eravamo soli, spaventosamente soli, come in una di quelle inaudite burrasche delle Ande, dove il vento raggiunge velocità fantastiche.
In quegli attimi il tormento del freddo è superato dal tormento prodotto dai pensieri e dai ricordi.

Voi avrete spesso sentito dire che non è la stessa cosa arrampicarsi sulle rocce dei Denti di Cumiana (tradizionale palestra dei torinesi, prossima alla più nota Sbarua, vicino a Pinerolo, NdR) e su quelle delle Aiguilles de Chamonix, che ben diversa è la soddisfazione che l’alpinista prova sulle guglie dolomitiche, da quella che può provare anche sui più difficili passaggi della Val Rosandra.
Se tutte le montagne e tutte le rocce fossero uguali questo non dovrebbe succedere.
Invece ciascuna montagna ha una sua personalità ben definita che suscita in noi emozioni e sensazioni diverse. E sono quelle diverse sensazioni ed emozioni che determinano in noi una particolare preferenza verso l’una piuttosto che verso le altre montagne.
Naturalmente la personalità di una montagna non è definita da una sola caratteristica, e cioè dall’essere la montagna di ghiaccio o di roccia, di granito o di dolomia, ma da un vasto complesso di tutte quelle caratteristiche speciali che determinano nell’alpinista l’intimo piacere di scalare le montagne e che sono la qualità della roccia e la forma della montagna, la pendenza delle sue pareti di ghiaccio e la sua dislocazione, le altre montagne che la circondano e quindi le sue possibilità panoramiche, e tante altre cose che sarebbe troppo difficile elencare.

In nessuna parte del mondo come nel Gruppo del Monte Bianco, si possono incontrare riunite in uno spazio abbastanza limitato una varietà simile di salite.
Dalle grandi pareti di roccia e di ghiaccio agli impervi ed altissimi canaloni, alle immense e complesse creste che costituiscono le più grandiose salite di tutte le Alpi, alle guglie arditissime che non temono confronto, sparse un po’ dappertutto. Tutto vi potete trovare qui riunito.
Però l’alpinista non troppo esperto che vi si avventura per la prima volta, deve tener conto di una cosa molto importante.
Come abbiamo detto che esiste una graduatoria tra i diversi gruppi di montagne, così esiste una graduatoria per le salite di uno stesso gruppo, e questa graduatoria porta a far sì che nel Gruppo del M. Bianco ci si trovi portati a considerare le salite più famose che sono le più facili perché maggiormente frequentate o le più complesse e difficili.
In modo che il principiante si trova di colpo, dopo aver superato le prime, di fronte alle seconde che potrebbero procurargli qualche brutta sorpresa.
Esistono altresì le salite medie, anche se non famose, bisogna soltanto saperle trovare.
Questa ricerca io penso di farla un’altra volta perché il tempo non mi permette di dilungarmi troppo e di farla non solamente per il M. Bianco, ma anche per gli altri Gruppi più importanti.
Le Dolomiti in questo invece sono più fortunate: le salite famose non mancano per nessuna categoria, anzi ce ne sono talmente tante che la difficoltà diventa inversa, cioè diventa di scelta.
Mentre nel gruppo del Bianco spesso la salita è dimostrazione di potenza, nelle Dolomiti invece è sinonimo di gioia.

L’arrampicare su quelle rocce è un esercizio di destrezza e di abilità sempre mutevole e sempre vario ed è questo il motivo principale per cui queste montagne piccole e quasi insignificanti, se viste da lontano, sono riuscite ciononostante a superare in fama tanti altri Gruppi più vistosi e più imponenti. Il principiante avrebbe tutti i vantaggi a fare una campagna nelle Dolomiti.
La maggior scelta delle salite, la maggior progressività nelle difficoltà la possibilità di compiere più salite in un determinato tempo lo porterebbero anche in una sola stagione ad una maturità alpinistica che nelle Alpi Occidentali potrebbe acquisire solamente in due o tre campagne fortunate.
Dopo il Monte Bianco e le Dolomiti. due Gruppi si contendono il terzo posto, ma noi li classifichiamo a pari merito: l’Oberland Bernese ed il Delfinato. Dico noi perché la valutazione è puramente alpinistica.
Difatti sul piano della frequenza internazionale l’Oberland Bernese sembrerebbe nettamente al disopra del Delfinato, ma questa situazione è determinata solamente da particolari contingenze turistiche. Personalmente, io preferirei il Delfinato.
La prima fase preparatoria di una salita è quella del sogno. Localizzato l’oggetto dei propri desideri, si incomincia a immaginare come sarà la conquista.
Poi si parte all’attacco e dopo dura lotta si riesce a vincere.
Ed ho sognato, combattuto e vinto.
Il sogno si è fatto realtà. Ricordo la prima volta che ne sentii parlare… Ci guardiamo in silenzio.
La gioia che vorrebbe erompere dai nostri petti è ancora soggiogata dall’impressione delle ore terribili che abbiamo passato.

Quando noi leggiamo le epopee degli esploratori polari, possiamo ben pensare che piccole cose compiono gli uomini nel clima delle comodità moderne.
L’uomo ha bisogno di riconoscersi, e, per riconoscersi, necessita di un ostacolo da vincere o da abbattere.
L’uomo desidera vivere. Ma per poter vivere deve mettersi contro la morte ed uscirne vincitore. Quando addirittura non senta il desiderio di poter morire.
Avete mai assistito al tramonto in una giornata di vento?
Le montagne lontane sembrano avvicinate dalla limpidità dell’atmosfera. Qualche sottile nube allungata raccoglie ancora la luce del sole già scomparso. Il cielo dall’azzurro più cupo diventa quasi verde, rivela profondità impensate che si riflettono nell’animo.
E l’animo si scuote e l’uomo vorrebbe innalzarsi simile ad un Dio.
Una fiamma sacra si accende nel petto, vorresti compiere cose mai viste, vorresti rubare la luce al divino artefice e misurarti con Lui.
Poi man mano che l’oscurità sale dalle valli a sommergere tutto, la tua eccitazione si placa, una profonda melanconia ti invade e rientri in te stesso. Le tue miserie ti riafferrano, il tuo corpo diventa creta pesante. Una grande pietà per te, per i tuoi simili, per tutto il genere umano che si affanna, combatte; soffre, muore, senza perché.
E vorresti restare lassù contento che i fiorellini di rupe ti circondino a festa in primavera e le tormente ti vengano a salutare nell’inverno.
Una foto con Giusto Gervasutti
Redazionale di Monti e Valli (notiziario del Cai Torino) pubblicato il 25 novembre 2016
Il 5 novembre (2016, NdR), a Cervignano del Friuli , paese natale di Giusto Gervasutti, si è tenuta la commemorativa per la ricorrenza dei 70 anni dalla scomparsa del grande alpinista.

La presenza a Cervignano del torinese Carlo Crovella ha suggellato, nel ricordo di Gervasutti, un “gemellaggio ideale” fra le due realtà cittadine in cui Giusto trascorse la sua esistenza, personale ed alpinistica.
Alla conferenza è seguita una cena conviviale, durante la quale i convenuti hanno potuto approfondire la conoscenza diretta di ben tre cugini Gervasutti presenti all’evento: il loro nonno era fratello di Valentino, padre di Giusto.
Due cugini su tre (Clara e Sergio, fra loro fratelli) da piccoli conobbero di persona il celebre alpinista e lo incontrarono ripetutamente quando egli tornava al paese natale.
Il terzo cugino (cugino anche rispetto ai primi due) porta proprio il nome di Giusto: lo chiamarono così perché fu il primo maschio nato in famiglia dopo la scomparsa dell’alpinista (scomparsa che risale, come è noto, al settembre 1946).
A fine cena si è formata una lunga coda di appassionati, desiderosi di farsi fotografare in compagnia di… Giusto Gervasutti!

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Fotografia Forcella Castello, ottobre 1933. Da sinistra, Toni Ortelli, ecc.
No, non è Ortelli, non so chi sia ma non è Ortelli. Ho lavorato molti anni con Toni Ortelli nel Comitato di Redazione della Rivista Mensile del CAI di cui lui era Presidente e lo conoscevo molto bene.
Ho talvolta pensato che Gervasutti se fosse sopravvisuto sarebbe stato lui l’uomo di punta della spedizione al K2. Questa, che è soltanto una supposizione, si scontra con il dato anagrafico: ho letto che allora un uomo di 43 anni come Hunt era considerato “vecchio” per arrivare in cima all’Everest, però al K2 c’era Gino Soldà di 2 anni più anziano di Gervasutti.
Adesso queste considerazioni su un certo declino fisico di Gervasutti gettano una ulteriore ombra su questa mia ipotesi.
commento 4..un bivacco a volte e’proprio un’oasi nel deserto . Quello rimasto in memoria di un nostro gruppo alla prima effettuazione della ferrata Fiamme Gialle al Marmor val Canali, e’il bivacco Carlo Reali. Quasi al termine del percorso attrezzato, si scatenò un temporale con raffiche di vento, fulmini e grandine( in gergo locale un MARUBIO)..imprecando convinsi gli altri a proseguire piuttosto che ritirarsi lungo la ferrata . A fiuto eravamo alla conclusione seppure avvolti da nuvolebasse e, miracolo, dopo pochi minuti di sferza del marubio apparve la sagoma rossa del bivacco modello Berti che ci accolse. All’interno ci scuotemmo di dosso uno straterello di grandine, ma ne trovammo persino nelle mutande e tra giacca a vento e nuda schiena.Tascorremo la notte sulle cuccettine sotto coperte odorose di lana di pecora umida, tra tuoni, fulmini, sibilo di vento e ticchettio di grandine sulla lamiera. Ad uno di noi che si preoccupava per la mamma in ansia , (1977 il telefonino satelliotare era un’idea fantasiosa)dicemmo semplicemente:” chiudi il becco e finiscila di frignareMEGLIO MAMMA PREOCCUPATA E DOMANI FELICE CHE NOI MORTI IN LUNGA DISCESA SOTTO MALTEMPO PER NON FARLA PREOCCUPARE”Poi tornati nel paese della valle approfondimmo la vicenda di Renato Reali.https://crodagranda.wordpress.com/bivacchi-2/bivacco-reali/
Sara’anche per quella salvifica esperienza che mi piacciono i bivacchi semplice tipologia Berti e non le elucubrazioni di archistar moderne.Come previsto, la mamma proccupata ci preparo’una cena memorabile e invito’pure un gruppo di ragazze figlie di sue amiche..meglio di cosi’.
Con un certo pudore racconto una mia vicenda personale legata forse a questo uomo celebre e celebrato del passato o forse alla mia grande immaginazione .
Premetto che anch io ho apprezzato il bel pezzo storico e umano del Sig. C.Crovella e le belle parole dei diarii.
1971 tardaprimavera ho 8 otto !!!anni e non sapevo cosa fosse il Gervasutti(ma neanche l alta montagna) poi mi spiegarono fosse anche un bivacco da raggiungere ai confini tra Veneto e Friuli (non quello sopra la val Ferret )Con un fratello sciagurato di 14 anni partiamo nel primo pomeriggio lungo la valle d Anfella che sta sopra il nostro paese per poi traversare i Cavalletti e passarvi la notte …Almeno questo erano i piani dei due imbelli del tutto sprovvisti di cose e sapere di montagna.Nel tardo pomeriggio sali’ una nebbia (solita negli Spalti)così fitta che perdemmo quel po’ di sentiero e orientamento che il fratello aveva, caminammo su terreni scoscesi e attaccati su baranci sopra le crode della val S.Maria..rischiamo forse troppo per l inesperienza.
Eravamo stanchi affamati e sfiniti ma sopratutto scoraggiati sapevamo di rischiare la notte fredda all addiaccio e sopratutto le legnate a casa se ci si salvava.
Dopo aver vagato alla c…o tutto il.giorno verso le 9 di sera in lacrime nella nebbia e le prime oscurità ci compare la banderuola rossa triangolare dei segnabivacco mai vista prima di allora.
Siamo salvi, coperte e qualche cosa da mettere sotto i denti..il mio primo confronto con La montagna era appena terminato.
10 anni dopo mi avrebbe ripreso per mano conducendomi in tante belle ascensioni e esperienze umane.
Ho sempre poi pensato a Giusto G.come il nostro salvatore di allora ,che ci guido’come un vero faro verso la salvezza…Forse sarò un po’ pazzo a pensare che da bimbo incontrai il suo spirito e che poi per vent’anni fare il tipografo e rocciatore non è stato un caso…
Un saluto pensando a come cambia il mondo rapidamente e farmi dubitare oggi uomo razonale smartofonato 50 anni dopo di quelle pure senzazioni del bambino di allora …che ringrazia oggi Cervignano del Friuli e il suo bel bivacco.
“…quella che già gli antichi greci avevano già ben individuato, chiamandola Ubris: gli eroi sfidano gli dei (o il fato), perché le loro gesta precedenti li inducono a credersi onnipotenti, e gli dei li puniscono proprio per questa imperdonabile alterigia”..ricorda un atteggiamento attuale di sfidanti( io ci sto attento! O” mai preso un raffreddore !” che poi finiscono in terapia intensiva in eta’ matura(50-60 anni). Quanto all’ultima foto in giacca di misura abbondante , mi ricorda parecchie foto di mio padre e suo fratello(23-28 anni) e loro coetanei nel dopo guerra..46..prima dei primi loro introiti e del piano Marshall.FAME!,pancia piena di minestroni ma scarse proteine e grassi…e erano tra i fortunati, scampati a catture e non reduci da campi di lavoro e prigionia.
Grazie Carlo per aver riportato alla memoria la figura di mio padre che con tanta sincera passione aveva dedicato i suoi anni giovanili al ricordo di Gervasutti. Il nostro fortuito incontro di qualche anno fa mi ha permesso di aprire a te la porta dei ricordi di mio padre e tu hai capito chi era Andrea Filippi, le sue passioni, la sua dedizione a Gervasutti e il suo profondo amore per la montagna. Antonella Filippi
Molto belli e particolari gli appunti di Gervasutti e interessante la sentita introduzione di Crovella.
Un appunto però alla divagazione “psicologica”, non mi pare corretto accomunare l’incidente di Castiglioni agli altri.
Castiglioni infatti sapeva bene cosa andava ad affrontare, ma doveva (o pensava di dover) scappare ai gendarmi svizzeri, temendo di essere riconsegnato alle autorità fasciste: l’hybris non mi pare c’entri!
P.S.: in ogni caso, comunque, personalmente propenderei per la cosiddetta “overconfidence” piuttosto che recondite pulsioni suicide