Gli inizi – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-04)
La preistoria dell’alpinismo e il rapporto cittadino-montanaro
Se ci poniamo il problema della data esatta o per lo meno dell’epoca d’inizio dell’alpinismo, ci troviamo di fronte ad alcuni episodi singolari che in un certo senso hanno anche preceduto l’interesse scientifico ed esplorativo verso le Alpi da parte dei cittadini, sia scienziati e naturalisti, sia turisti inglesi.
In questo senso possono risultare interessanti le salite di Francesco Petrarca al Mont Ventoux (1336) e quella di Bonifacio Rotario d’Asti al Rocciamelone (1358), quest’ultima considerata da molti come data ufficiale d’inizio dell’alpinismo. Tuttavia questi episodi isolati e senza alcun seguito non si possono ancora inserire in un vero e proprio fenomeno alimentato e suggerito da cause storiche ben precise. Si tratta di azioni provocate da interessi particolari per il Petrarca e da motivi religiosi per Rotario d’Asti. E un po’ azzardato però affermare che il Petrarca, pur essendo una personalità lungimirante ed un uomo culturalmente aperto al futuro, fu il padre spirituale dell’alpinismo, come molti invece vorrebbero sostenere. E pur vero che il Rinascimento rappresentò un totale rinnovamento della cultura, una grandiosa apertura del sapere umano, finalmente disinibito e sbloccato dalle remore medioevali. E forse è anche possibile che in un’atmosfera così propizia e favorevole, un uomo come il Petrarca si sia sentito spinto a salire il Mont Ventoux da un impulso di scoperta e di conoscenza. Ma sono solo supposizioni non confermabili e pertanto in senso storico restano come tali.
Qualcosa di molto interessante e curioso successe anche nel 1492 e non fu soltanto la celebre scoperta dell’America di Colombo. In Francia, e più esattamente nel massiccio calcareo del Vercors, oggi vero e proprio paradiso degli arrampicatori, vi è una torre rocciosa di aspetto vertiginoso e tipicamente dolomitico, verticale se non strapiombante su tutti i suoi versanti: il Mont Aiguille. Ancora oggi, quando si osserva la montagna o se ne vede una fotografia, pare incredibile che proprio in quell’anno sia stata scalata da un gruppo di persone dalle attività sociali più disparate, guidate da un certo Antoine de Ville che, per così dire, si assunse la direzione dell’impresa. Sicuramente il povero Antoine de Ville di sua propria volontà mai e poi mai avrebbe pensato o solamente immaginato di scalare quella torre vertiginosa, ma l’ordine di raggiungerne la vetta partì addirittura da Carlo VIII, allora re di Francia (si sa che i monarchi di allora erano un po’ infantili e capricciosi a causa del potere assoluto di cui disponevano e molto probabilmente l’ordine era tale da non essere neppure messo in discussione). Di sicuro si sa che la scalata fu realizzata, ma non con quali mezzi. L’impresa a lungo fu messa in dubbio, fin quando in tempi moderni non si ebbero le prove sicure della sua realizzazione, in quanto in vetta furono trovate le testimonianze dell’impresa avvenuta. Quali artifici tecnici e meccanici furono impiegati, resta comunque un mistero. Certamente corde, scale di legno, arpioni e marchingegni del genere, più che necessari allora, se si pensa che anche oggi la via più facile di salita sulla montagna offre tratti di terzo e quarto grado! Tuttavia, anche se il fatto di per sé fu straordinario; ai fini dell’alpinismo vero e proprio è da considerare come un fatto insolito e senza seguito alcuno.
Per incontrare invece il nascere di un interesse vero e proprio per le Alpi e per la natura alpestre, dobbiamo giungere fino al 1700, secolo in cui la stanca pausa barocca va ormai tramontando sotto l’impulso dato dallo spirito innovatore dell’Illuminismo. Attraverso i nuovi interessi degli scienziati ed i loro studi, nasce un nuovo modo ed una nuova ottica per studiare e vedere la Natura in tutte le sue espressioni. Forte del suo pensiero razionale, logico e matematico, l’uomo di studio dell’epoca si sente in grado di avventurarsi in ogni ramo del sapere, senza stupide paure inconsce e senza inibizioni di sorta. Se si troverà in difficoltà, la Ragione gli sarà accanto, una vera e propria dea che illuminandolo non gli permetterà di insabbiarsi in timori irrazionali. Perché allora temere ancora le Alpi ed il regno dell’alta montagna? Avrebbe ancora senso un timore inconscio per questi luoghi solitari e selvaggi? Perché credere a stupide leggende e a favole popolari prive di alcun fondamento razionale, prive di alcuna verifica nel mondo della realtà? Spiriti, anime dei morti, mostri, gnomi e folletti erano unicamente produzioni fantastiche delle genti di montagna e della loro cultura, riuscite a tramandarsi e a sopravvivere in un ambiente ristretto e privo di contatti culturali illuminanti. La scienza ormai di tutto ciò poteva anche sorridere, l’uomo del diciottesimo secolo poteva anche accingersi alla scoperta e conquista delle Alpi.
Purtroppo, il più delle volte, i valligiani dell’epoca sono stati raffigurati come uomini rozzi ed ignoranti, assai timorosi ed anche un po’ ebeti. Tutta una letteratura dell’epoca, a volte anche in chiara malafede, ha un po’ esagerato le cose, con l’intento di esaltare ancora più le conquiste cittadine del sapere scientifico. Certo, la vita dei valligiani non doveva essere né dolce né facile, ma era un modo di vivere ben adattato all’ambiente naturale alpino particolarmente ostile e severo. Del resto il loro modo di vivere a quel tempo e in quell’ambiente non avrebbe potuto essere diverso. Sappiamo anche che i rapporti tra consanguinei, frequenti nelle piccole comunità alpine, generano fenomeni di cretinismo. Sappiamo anche che la forzata solitudine della vita montanara con facilità porta all’alcolismo e all’abbrutimento dell’individuo. Ma è proprio su questi aspetti marginali che si cercò di costruire invece un’immagine universale.
Si può invece ritenere che i valligiani allora non avessero timore dei monti, semplicemente perché chi vive sempre in un ambiente, anche ostile, come è appunto la montagna, impara ad adattarsi e riesce a normalizzare un mondo dapprima inospitale. Per necessità il montanaro impara a conoscere la neve, a prevedere i cambiamenti del tempo, ad esplorare il cielo per cercarne indizi di bufera imminente, a riconoscere i pendii esposti alle frane e alle valanghe. E poi si sa benissimo che già allora cacciatori di camosci e cercatori di cristalli si erano spinti fino al limite dei ghiacciai e forse anche oltre senza alcun timore. Ma in fin dei conti, cosa poteva trovare un montanaro ancora più in alto? Selvaggina? Cristalli? Tutto ciò poteva benissimo trovarlo più in basso, senza correre rischi così gravi.
Semplicemente, come già si è detto, il montanaro non sentiva alcun stimolo interiore che lo portasse a salire su una vetta, che per lui forse non era altro che un mucchio di sassi. Sarebbe stata un’azione perfettamente inutile, del tutto disinserita da un contesto esistenziale assai duro, dove ogni azione aveva una sua specifica utilità: la vita e la sopravvivenza stessa portavano a vedere la montagna non in senso astratto e simbolico, ma come qualcosa di estremamente reale e concreto, da sfruttare ed utilizzare per il vivere quotidiano.
Se si pensa allo sfruttamento di ogni più piccolo fazzoletto coltivabile, se si osservano le opere di terrazzamento compiute per rendere agibili e coltivabili anche i terreni più ripidi ed impervi, se si studiano le opere di irrigazione e di canalizzazione dell’acqua, la costruzione delle baite e dei villaggi, posti sempre a mezzogiorno ed al riparo da frane e valanghe invernali, se si riesce a cogliere il vero e proprio senso artistico, del tutto innato, con cui i villaggi erano inseriti in perfetta armonia nel contesto del paesaggio ambientale, allora è molto difficile poter credere ad una leggenda, certamente falsa, che raffigura i montanari come esseri rozzi e privi di alcuna sensibilità.
Invece la cultura alpina aveva i suoi grandi valori, un po’ nascosti, più semplici e genuini di quelli cittadini. Il turismo alpino praticato dagli inglesi ed il sorgere dell’alpinismo, iniziarono a corrompere ed intaccare questi autentici valori, distruggendo a poco a poco una forte cultura che in montagna viveva, in armonia con una natura severa, accettandone le regole e le leggi senza il desiderio di mutarne i cicli naturali.
Si afferma di risposta che il turismo inglese e l’alpinismo permisero agli indigeni di realizzare guadagni insperati e di rendere la loro vita un po’ più facile ed agevole. Ma è molto difficile stabilire se ciò fu un bene o un male. Sicuramente si alterò il rapporto uomo-montagna e l’avvento del denaro incrinò un sistema economico chiuso e abbastanza efficiente, seppur miserevole e forse inaccettabile agli occhi dei più agiati cittadini. Lo stesso fenomeno accade oggi in Nepal, dove un popolo ed una notevole cultura come quella sherpa, ormai sono definitivamente alterati e corrotti dal susseguirsi di spedizioni alpinistiche occidentali, le quali con la forza del denaro hanno costretto questi uomini a mutare usi e costumi e ad abbandonare tradizioni millenarie.
In questo senso si può affermare che il valligiano fu quasi costretto ad intraprendere il mestiere di guida, forzato da una serie di avvenimenti superiori alle sue resistenze, capitanati in prima fila dal miraggio del denaro e dalle possibilità di guadagno. Anche se oggi la differenza tra montanaro e cittadino va attenuandosi sempre più per evidenti motivi (facilità di contatti, diffusione della cultura, mescolanza degli usi e delle abitudini), si può ancora osservare in montagna una netta diversità di comportamento tra di loro.
Il cittadino, proprio perché in montagna non vive, è certamente più timoroso e conseguentemente risulta alla fine più aggressivo per naturale difesa. E sempre più teso nevroticamente nell’azione: si rivela capace di gesti molto audaci, ma quasi sempre la sua azione resta del tutto disinserita dal contesto ambientale naturale ed umano che lo circonda.
Il montanaro appare sempre più pacato, più calmo e fatalista in ogni situazione: sembra quasi attendere che una sorta di energia lo conduca verso l’alto. Agisce in serena armonia con l’ambiente naturale, riuscendo ad apparire perfettamente a suo agio con gli elementi classici dell’alta montagna: la neve, la roccia, il ghiaccio ed il vento. Ed è anche capace di gesti audaci, anzi proprio il montanaro in caso di pericolo si rivela ben più pronto ed efficace del cittadino.
Ma ancora, proprio perché vive in montagna, non riesce a far pienamente sua quella mentalità di conquista, quel desiderio di lotta, di confronto e di aggressione, quella sorta di sfida alla natura, che caratterizzano in modo particolare l’alpinismo cittadino.
Probabilmente lo entusiasma di più inseguire per giorni un camoscio di cengia in cengia, raccogliere il genepì e le erbe sui versanti dirupati, spiare i movimenti delle volpi e delle marmotte: è quindi più legato all’ambiente naturale che fa parte della sua vita di tutti i giorni.
Ma le alte vette, le pareti, le cime innevate, sono lì da sempre, come immutabili, per essere guardate dal basso.
L’assurdità del confronto tra imprese alpinistiche compiute in epoche diverse
È difficile oggi voler ricostruire anche solo con l’immaginazione il mondo alpino del Settecento. Si possono immaginare invece le emozioni di coloro che per primi iniziarono ad esplorare la catena alpina, scoprendovi un ambiente straordinario fino ad allora sconosciuto. Forse nelle valli più sperdute delle Alpi, dove ancora non esistono strade, linee elettriche e turismo, è possibile cercar di rivivere qualcosa del genere. O forse compiendo un trekking nelle valli nepalesi è possibile rivivere quel genere di emozioni. Comunque, ad esser sinceri, un certo ambiente di alta e altissima montagna non è affatto mutato, anzi è sempre il medesimo da migliaia di anni. Piuttosto diciamo che i nostri occhi lo vedono e lo vivono in maniera sempre differente a mano a mano che la storia procede.
La storia muta le cose. Le priva a poco a poco dell’ignoto, del fascino dello sconosciuto, toglie il sapore dell’avventura a quelle cose che ormai sono state viste e conosciute. Solo così ci si può spiegare come una vetta inviolata susciti in ogni alpinista un turbine di desideri e di emozioni e come ciascuno cominci a considerare la possibilità di scalarla, vivendone emotivamente la salita prima ancora di realizzarla.
Resta pur sempre quella magnifica parte di ignoto, che a poco a poco svanirà solo durante la salita.
È certo un po’ triste pensare che in seguito la stessa avventura e la stessa via di salita a coloro che la vorranno ripetere apparirà già più addomesticata, più fattibile. In pratica non esisteranno più incognite sulla possibilità di realizzazione, ma unicamente difficoltà da superare. Ormai esiste la sicurezza di salire dove altri sono già saliti: una specie di incantesimo si è rotto, l’ignoto diviene conosciuto e dall’opera d’arte dei primi o del primo salitore rapidamente si passa al lavoro tecnico e atletico di chi segue e ripete.
Anche una parete difficilissima, dopo un po’ di tempo e molte ripetizioni può divenire quasi scontata e banale, anzi il ripeterla più volte può anche risultare noioso. Si vedrà però in seguito come non tutte le pareti si offrano a quest’opera di normalizzazione e come alcuni percorsi «misti» (roccia e ghiaccio) in alta montagna conservino più a lungo il loro primitivo valore. Si vedrà anche come sia stato soprattutto l’avvento dell’arrampicata artificiale, ossia il ricorso su vasta scala ad artifici tecnici come chiodi di vario genere e manovre di corda, a portare ad una vera e propria regressione, creando l’illusione di poter salire ovunque anche per chi non si sente di osare al massimo. Mentre invece l’arrampicata pura e libera, ossia senza alcun ausilio meccanico, è l’unica che veramente può garantire un reale progresso. Comunque su questi concetti fondamentali si ritornerà in seguito, dando ampio spazio al discorso evolutivo prima e dopo la Seconda guerra mondiale.
Per chiarire quanto su esposto, si può citare un aneddoto assai efficace. Un grande alpinista inglese, molto intelligente ed arguto, in occasione di un suo splendido successo sulla catena alpina (prima salita del Grépon, Monte Bianco), sorrise udendo i commenti entusiastici dei suoi contemporanei: il picco da lui scalato era stato detto inaccessibile, la sua impresa veniva definita come la scalata più difficile di tutti i tempi!… Invece Mummery (il grande alpinista inglese) si limitò a commentare che nel giro di non molti anni, la parete da lui superata, sarebbe divenuta una… scalata per signore!
La storia dell’alpinismo è tutto un susseguirsi di «ultimi problemi», di «scalate più difficili delle Alpi», che però nel volgere di pochi anni “vennero poi superate e ridimensionate da altre realizzazioni ancor più difficili.
Il fatto è che troppo spesso l’uomo e l’alpinista non tengono conto della Storia e cercano di fermare nel tempo i loro valori e le loro imprese. In realtà purtroppo esiste il tempo, il peggior «male» dell’uomo, una dimensione travolgente in cui nulla può essere fermato o isolato. Evidentemente i frequenti paragoni che si fanno tra azioni umane compiute in epoche diverse, non hanno alcun senso, risultando assolutamente ridicole. Eppure, soprattutto nello sport, sovente si pongono a paragone i campioni di oggi con quelli di ieri. Ma come si può dire chi fu il più forte tra Fausto Coppi ed Eddy Merckx? È impossibile, in quanto agirono in epoche diverse: solo se fossero stati contemporanei e posti a confronto diretto, si potrebbe esprimere un giudizio. Ciascuno nella propria epoca seppe esprimere il meglio, seppe forse superare un limite che da tutti era ritenuto invalicabile; nello sport, nell’alpinismo come in ogni altra attività umana.
Ogni epoca storica ha un suo limite, ritenuto invalicabile. Ma se questo limite viene poi raggiunto e superato, subito se ne pone un altro più avanzato. Troppo spesso invece il giudizio umano vuole fermare il tempo ed arrestare l’evoluzione stabilendo un limite assoluto. Matematicamente un limite è tale solo quando è irraggiungibile, se venisse raggiunto diverrebbe evidentemente un numero raggiunto e raggiungibile da qualunque entità tenda a raggiungerlo. In seguito l’esame storico ci porterà a vedere come gli alpinisti contemporanei non abbiano compreso a fondo questi concetti, arrestando la loro evoluzione in una «scala» delle difficoltà bloccata e non aperta all’infinito e andando evidentemente contro la stessa Storia (alpinismo antistorico).
Per ora è sufficiente affermare che, seppur la cosa sembri assurda, in senso storico la prima scalata del Monte Bianco realizzata nel tardo Settecento presenta lo stesso valore di difficoltà di una prima ascensione lungo una parete himalayana realizzata ai giorni nostri. Certo, isolando le due imprese dal loro contesto storico e giudicandole in assoluto, la differenza di difficoltà è talmente grande che chiunque la può verificare.
Ma durante tutta la storia umana, l’abbattimento di un limite ha richiesto sempre lo stesso tributo di impegno fisico e psichico. Certo ogni volta si pone un limite più avanzato, evidentemente insuperabile, per ovvii motivi di esaurimento delle sue energie intellettive, da chi ha già superato la frontiera dell’epoca. Comunque chi viene in seguito può sempre usufruire di tutta l’esperienza di chi lo ha preceduto ed accingersi a valicare, forte di questo bagaglio conoscitivo, la nuova frontiera posta nell’epoca in cui vive.
Tirando il ragionamento per i capelli, si può concludere che il giudizio tra imprese compiute in epoche diverse è veramente impossibile, in quanto tutte hanno lo stesso valore. Se invece le si giudica isolandole dal tempo, chiunque può concludere che, seguendo l’evoluzione, un’impresa di oggi è più difficile di una di ieri: correre i 100 metri in 9,9 secondi richiede un impegno superiore al correrli in 10,2…!
Si comprende allora facilmente come sia assurdo il compito dello storico. Egli vive in un’epoca che tecnicamente ed intellettivamente supera tutte quelle precedenti. È un uomo, quindi, sottoposto al tempo e alla storia ed il suo giudizio è condizionato da millenni di cultura che si porta sulle spalle. La sua ottica di giudizio è quella evidentemente del tempo in cui egli vive; sarà perciò portato ad esaltare le imprese e le gesta del suo tempo, per le quali non può avere un equo parametro di giudizio. Parlando delle imprese passate sarà portato o a sminuirle o a ingrandirle per paura di sminuirle, senza dare un’esatta interpretazione.
Le prime ascensioni: creazione o scoperta?
Il problema della difficoltà che l’alpinista incontra durante una salita in montagna, introduce una interessante analisi su questo argomento. Generalmente si attribuisce alla difficoltà un valore tipicamente oggettivo, identificandola in concretezza con le strutture della montagna che possono rendere una salita più o meno impegnativa (ripidezza, esposizione, quantità e qualità degli appigli, ecc.). Si dimentica invece che la più grande difficoltà da vincere è posta in noi stessi e non al di fuori di noi. Le pareti difficili e difficilissime, di quinto e di sesto grado, se vogliamo usare un termine tecnico della scala delle difficoltà adottata dagli alpinisti, esistono da milioni di anni, sono sempre le stesse e non sono affatto mutate durante la storia: da sempre presentano la stessa ripidezza, gli stessi appigli ed i medesimi appoggi. Probabilmente sulle stesse pareti sono già idealmente tracciate «vie» di salita che presentano difficoltà oggi reputate irraggiungibili e quindi definite impossibili, proprio perché oltre la portata dei nostri mezzi fisici e psichici. Ed è proprio per questo che non riusciamo a «vederle». Forse attorno a noi esistono miliardi di esseri viventi, che però ancora non riusciamo a vedere e conoscere, coi quali non esiste comunicazione alcuna, proprio perché la difficoltà umana esistente in noi per raggiungere il loro livello ancora non è stata vinta e superata. I nostri sensi sono ancora troppo rozzi e volgari, debbono affinarsi di più per vedere e capire ciò che noi definiamo come invisibile, inesistente e incomprensibile. Il ragionamento su esposto porta a dire che in Terra non vi è creazione alcuna, ma solo graduale scoperta di ciò che esiste ma che ci è sconosciuto. Dove conduca la scoperta è molto difficile dirlo; forse alla semplicità totale, che potrebbe anche essere indietro e non avanti come si crede. Semplicità totale è perfezione, intesa come fine dei desideri e quindi conoscenza assoluta e forse capacità creativa.
L’alpinista quindi non crea delle vie di salita, ma scopre sulle pareti e sulle creste dei monti dei tracciati già esistenti. Oggi si dice negli ambienti alpinistici che le possibilità di tracciare nuovi itinerari di salita sulla catena alpina sono ormai esaurite. È una sciocchezza. Il vero è che si è toccato il limite di quest’epoca: la paura di cadere per ora non permette di fare uno scatto in avanti, di trovare il modo per poter varcare il limite. Allora si comincerebbe a scoprire infinite possibilità proprio su quelle pareti che ora sono definite come impossibili. Si vedrà, molto più dettagliatamente in seguito, come l’alpinismo moderno si sia come arreso davanti a questo «limite» ed abbia fatto ricorso ai mezzi artificiali, con l’illusione di progredire e di spingersi più avanti. In realtà la regressione è stata più che netta, si è cercato di «assassinare» l’impossibile, ma non di affrontarlo con mezzi leali, «by fair means».
Lo spirito di vincere a tutti i costi l’impazienza, la mancata accettazione della propria debolezza e la brama irragionevole di «salire», hanno portato a questo assurdo. Accettare un limite e prenderne coscienza, vuoi anche dire porsi nella condizione ideale per superarlo.
Un poeta italiano un giorno disse una cosa molto bella e suggestiva: «Il poeta non deve sforzarsi di comporre dei versi e di crearli. La sua ricerca forzata lo porterà ad un risultato artificioso e “costruito”. Egli deve solo scoprire nell’etere i versi che già esistono e catturarli». «Tutte le poesie sono già state scritte», diceva anche il celebre poeta-cantautore Bob Dylan, idolo dei giovani americani del dopoguerra. Tutto è già stato scritto, ogni cosa già esiste, passato e futuro non hanno senso nel percorrere un tracciato circolare già prestabilito, dove probabilmente l’inizio coincide con la fine.
Ma purtroppo sovente è la paura che ci arresta, nell’alpinismo come nella vita: ancora una volta funziona il biblico e famigerato inganno del serpente e, tentati dalla brama di conoscere, si arriva a bruciare le tappe; con il risultato che ci si ritrova fermi su una «cengia» (cornice orizzontale che attraversa una parete per tutta la sua estensione) a girare su se stessi come tanti burattini: la parete, la vera parete da scalare sta sopra. Tutti la vedono, ma è una parete che fa paura, al punto che tutti dicono che è impossibile. Anzi, se qualcuno esprime l’intenzione di tentarne la scalata, per bene che gli possa andare si troverà in manicomio o in galera, quando non inchiodato ad una croce. Oppure contro di lui si accanirà la guerra dei nervi e quella scienza che è la psicologia, arma a doppio taglio scoperta per liberare l’uomo ed usata per renderlo schiavo contento, si divertirà a farne un quadro più che mai negativo.
I primi turisti inglesi visitano le Alpi: i montanari visti con curiosità da zoologo
Al ritorno da questi «viaggi sulle Alpi», una volta giunti alle rispettive patrie, costoro pubblicarono in numerosi scritti gli affascinanti resoconti delle loro avventure, del resto assai interessanti e «nuove», iniziando a creare un discreto interesse per la catena alpina e per la sua esplorazione, un interesse che però non si può ancora chiamare alpinismo. E fu proprio questo interesse, questo modo di avvicinare il mondo delle Alpi e della montagna, escludendovi a priori il fattore umano che è essenziale, a determinare tutto il successivo rapporto uomo-montagna nell’evoluzione dell’alpinismo.
Come già si è detto, lo scienziato, lo studioso della natura, il cercatore di avventure del bel mondo nobile dell’epoca, aveva esclusivo interesse per il fattore ambientale e naturale della montagna. Costui giungeva direttamente al paesaggio alpestre, saltando a pie pari l’aspetto indigeno ed umano. D’altronde bisogna aver ben presente come era nel Settecento la vita di mondo nell’ambito di una certa classe sociale.
Non è difficile, dunque, immaginare questi uomini un po’ effeminati ed incipriati, con tanto di parrucchino profumato, abituati al minuetto o al concertino mozartiano nel salotto privato, dove tra musica e gioco delle carte, al fianco di donne bellissime ed eleganti, si trascorreva il tempo tra pettegolezzi e dialoghi un po’ futili. Era tutta una società assai esteriore, sempre estremamente attenta al comportamento, per altro ispirato dalle regole delle buone maniere.
Ebbene, immaginate un po’ questi uomini a contatto con dei valligiani il più delle volte, per severa necessità di vita, sporchi e puzzolenti, usi a vivere nelle stalle con le bestie, un po’ rozzi nell’aspetto esteriore, limitati anche nel linguaggio a causa dei vari dialetti locali, intimiditi dall’aspetto fiero, elegante ed aristocratico dei nobili d’Oltralpe. Fu proprio a causa di tutto ciò che si venne a creare un certo (e deleterio) gusto del primitivo che ancora oggi purtroppo perdura. La presunzione di questi turisti fu grande, in quanto essi seppero solo storcere il naso e osservarono il fenomeno solo e sempre dall’esterno e con curiosità da zoologo. Si arrestarono all’aspetto superficiale e non seppero con più umiltà mettersi su quel piano, cosa forse non difficile per chi sta (o per chi crede di stare) più in alto. Così essi non riuscirono a varcare la soglia dell’aspetto esteriore e non entrarono in sintonia con là cultura alpina. Conseguentemente non ne scoprirono i veri ed autentici valori, forse tenuti un po’ interni e nascosti da una sorta di paura e pudore che ancora oggi esiste nelle genti di montagna quando vengono a contatto con il mondo cittadino. Ma quando i cittadini per realizzare le loro imprese si videro costretti a ricorrere all’aiuto dei valligiani, ancora non seppero mettersi sul medesimo piano di collaborazione e ricorsero all’umiliante ricatto del denaro, mantenendo sempre quel netto distacco tra chi paga e chi viene pagato, tra chi comanda e chi ubbidisce. Una tipica mentalità colonialista che anche al di là delle Alpi, in Africa ed in Asia, gli inglesi seppero applicare con magistrale efficacia.
In verità non sempre fu così, ma solo in seguito si avranno casi di accordo ottimo e paritario tra cittadini e valligiani, soprattutto quando delle classi sociali meno agiate e meno abbienti giungeranno all’alpinismo.
Ed anche quando la scienza, forte delle sue pretese illuminanti e civilizzatrici, si dirà sazia delle conquiste alpine e della conoscenza delle Alpi, allora inizierà la vera avventura individuale, la grande avventura dove per tutti vi sarà posto. Comunque, per evidenti ragioni storiche e politiche, l’allargamento e la diffusione dell’alpinismo a tutti gli strati sociali, fu molto graduale e solo dopo la Seconda guerra mondiale giungerà praticamente anche alle masse lavoratrici e ai ceti meno abbienti.
Allora quando il cittadino saprà mettersi sullo stesso piano del montanaro o addirittura quando lascerà l’iniziativa alla guida valligiana, la collaborazione sia sul piano umano che alpinistico darà risultati entusiasmanti e magnifici. D’altronde è facile comprendere come per un giovane studente austriaco o tedesco, forse un po’ in «bolletta» e certamente disinserito dal «milieu» aristocratico dell’alta società, per un piccolo commerciante o per un modesto artigiano, fosse certamente più facile entrare in sintonia con la gente di montagna piuttosto che per un nobile, uno scienziato o un uomo del clero.
7
Belli e immancabili nella parete – libreria di ogni appassionato di montagna…chissà che una buona penna un domani possa riprenderene il filo e pubblicare la sua naturale continuazione…
Non avevo ancora letto la storia di GP Motti.
L’inizio è molto interessante
Rileggere questo testo fondamentale di Motti è come respirare una boccata di aria fresca. Spero che il dibattito non venga, per l’ennesima volta, inquinato dalle sterili polemiche Cominetti vs Crovella.
Garobbio- Rusconi, L’Alpinismo.Tascabili Sansoni a £350 . Diviso in due parti :Storia e Nozioni di base.Nel 1974 bastava e avanzava.Lo avro’ perso o qualcuno me lo avra’ sgraffignato?
In effetti è un’ottima idea riproporre questo testo di Motti, testo che i veri appassionati di montagna hanno sicuramente già letto, ma decenni fa, per cui è scivolato indietro nella memoria di ciascuno. Ci sono alcuni concetti interessanti che aprono spazio a relative domande odoerne del lettore.
Per esempio come sarebbe, oggi, il rapporto valligiani-montagne se non fosse mai sopraggiunto il concetto di sport e il relativo sfruttamento turistico dell’ambiente? Impossibile dire, ovviamente, ma serei curioso di saperlo. C’è stato un rimescolamento di carte che certo non ha fatto bene, dobbiamo onestamente riconoscerlo. In alta Val Susa, fra Sansicario e Cesana (10 minuti in auto, oggi) fino alla guerra del ’45 si parlavano due patois già un po’ “diversi”. Figuriamoci l’italiano! Poi tutto è stato rivoluzionato per colpa dei “cittadini”. Una specie di globalizzazione ante litteram.
Altro tema: il concetto del tempo, il grande male dell’uomo. Meglio Coppi o Merkx? Meglio Cassin o Messner? Più impresa salire in vetta al Bianco nel Settecento o fare il 9A oggi? Io mi sono convinto che bisognerebbe creare un algoritmo per estrapolare matematicamente l’aiuto della tecnologia. Così potremmo confrontare imprese di epoche diverse. Da tempo penso questo e, anche se non sono ancora arrivato a creare l’algoritmo, a sensazione penso che la punta massima “umana” dell’alpinismo coincida con il periodo del VI grado. Giacche di panno, scarponacci, corde di canapa, piccozze di legno, ramponi pesantissimi, pane e salame (anziché gel e integratori) nessuna previsione meteo… eppure hanno realizzato imprese al limite massimo umano. Da lì in poi le imprese sono state progressivamente inquinate dalla componente tecnologica. Gia’ dai tempi di Bonatti, per non parlare dei nostri giorni, troppo si deve all’aiuto dell’attrezzatura tecnologicamente evoluta.