I miei spazi

I miei spazi
di Maurizio Oviglia
(scritto il 10 luglio 2014 per La Pietra dei Sogni)

Quando in Sardegna si parla di montagna, quasi sempre si intende Supramonte. Così, lontano dalle “mie” Alpi che mi hanno visto nascere come alpinista, è stato naturale per me considerarle come le mie nuove montagne, ovvero quel luogo dove ricercare un’esperienza diversa dall’arrampicata sportiva in falesia. I miei primi contatti con le grandi pareti sarde sono avvenuti nel 1985, in compagnia di Bruno Poddesu. Avevo conosciuto Bruno al CAI e lui mi aveva in breve mostrato tutte le potenzialità della sua terra. Dopo la ripetizione di alcune vie classiche mi ero subito avventurato nell’apertura di nuove linee sulle pareti intorno a Cagliari. In Supramonte, effettuammo la seconda ripetizione e prima in libera della Sinfonia dei Mulini a Vento sull’Aguglia di Goloritzé, poi anche qui ero passato alle aperture. Una nuova via sullo spigolo sud-est del Monte Ginnircu (Murales) e una sul primo Pilastro della Punta Cusidore (Racconti Pastello, con Poddesu, 15 maggio 1985) mi avevano lasciato non troppo soddisfatto. Non ero riuscito a dire molto di più di quanti mi avevano preceduto, pur contando che si trattava dei più forti alpinisti italiani in circolazione. Avevo dalla mia parte tutto l’ardore dei vent’anni, ma mancavo d’esperienza. Le mie vie peccavano in estetica (e talvolta in logica) e avevano dalla loro solo la bellezza della pietra sarda.

Maurizio Oviglia su Ballun Gunfià, 6a+, Massi del Caporal, Trad Climbing, Valle dell’Orco

In ogni caso, nell’aprile 1985, assieme alla fidanzata Cecilia Marchi e a Raimondo Liggi, Oviglia sale la breve ma intensa serie di fessure di American Graffiti sul Casteddu de su Dinai, liberata con Roberto Mochino nel successivo settembre, VIII, per qualche tempo probabilmente la via più difficile della Sardegna (NdA).

Dal 1986 mi appassionai dunque all’arrampicata sportiva, per il semplice fatto che mi sentivo più libero di esprimermi: in Sardegna era ancora infatti tutto da inventare in questo campo! Avere spazi sconfinati dove muovermi mi ha sempre fornito forte motivazione ad agire mentre al contrario, avere a disposizione corridoi di roccia ormai ristretti tra una via e l’altra mi ha sempre lasciato una sorta di insoddisfazione, anche dopo una bella realizzazione. Inutile dire, quindi, che ciò che mi interessava di meno era il creare una brutta copia di quanto avevano fatto altri. In arrampicata sportiva, l’attrezzatore non ha certo la stessa dignità dell’alpinista che apre una via nuova su una grande parete o una montagna. Egli si cala dall’alto e infigge i chiodi, pulisce e prepara, inventa e crea la sua via per gli altri. Non è scontato che sarà lui stesso a salirla e, anzi, spesso il suo operato sarà dimenticato e addirittura omesso dalle pubblicazioni. Tuttavia quella del chiodatore è pur sempre un’attività dai risvolti artistici; se poi, oltre a infiggere chiodi, trova anche nuove pareti o intere aree diviene pur sempre una sorta di esploratore: potremmo quasi definirlo un esploratore di “micro spazi verticali”. Così, gran parte delle mie energie furono in quegli anni dedicate alla preparazione e all’esplorazione di nuove falesie sportive, fatta eccezione per una nuova via sul Primo Pilastro della Punta Cusidore (La forza del Destino, con Simone Carcangiu ed Enzo Lecis, settembre 1988) in cui sperimentai senza splendidi risultati la tecnica di apertura dal basso con gli spit, e un’altra sulla parete nord della stessa montagna (Cuore di pietra, con Eduardo Asturaro e Cecilia Marchi, settembre 1992) in cui optai per una chiodatura mista e lasciai le fessure da proteggere. È indicativo come queste due vie siano da molti considerate tra le meno interessanti e belle della mia carriera!

Maurizio Oviglia, Valle dell’Orco

Ma le prime vere esperienze su vie nuove aperte dal basso utilizzando la tecnica “svizzera” risalgono al 1993, anno in cui affinai il metodo di apertura sulla base di ciò che avevo visto e sentito sulle rocce piemontesi e valdostane. Comprai un trapano di seconda mano da Manlio Motto e cercai di adattare lo stile di apertura alle pareti sarde. Per i miei primi esperimenti scelsi le falesie vicino a casa dell’Iglesiente, non molto alte ma perfette per questo genere di vie. L’ottimo calcare a gocce permetteva di osare con i passaggi obbligatori e fermarsi appesi ai cliff hanger per piazzare gli spit a distanza non ravvicinata. Di quel periodo sono Eppure il vento soffia ancora (prima via sportiva di Masua, con Fabrizio Dessì e Cecilia) e Personal Mountain a Gutturu Pala, che ritengo una delle mie vie più belle aperte in questo stile. Il gioco si spostava sugli obbligatori e il valore di una via si misurava non tanto sul grado massimo, ma su quello che riuscivi a superare tra un punto e l’altro. L’esperienza maturata in arrampicata sportiva mi permetteva di osare sempre di più e l’apice di quegli anni fu il 1998, anno in cui in cordata con il giovanissimo Simone Sarti e con Cecilia, a maggio tracciai Intelligenza Emotiva sulla Punta Giràdili. Il grado dei passaggi obbligatori era lievitato dal 6b dei primi tempi al 7a e le distanze tra i punti erano a volte anche di 10 m: il fattore psicologico ritornava dunque in primo piano, anche se si trattava di vie interamente protette a spit. La via fu poi liberata da Rolando Larcher successivamente (in cordata con me) e gradata 7c+: allora era la via più difficile della Sardegna! Esteticamente parlando, Intelligenza Emotiva fu la prima via a superare direttamente gli strapiombi di Punta Giràdili tanto che con Simone prendemmo in apertura diversi temporali senza mai bagnarci! Avevo “visto” questa linea mentre aprivo l’adiacente Mediterraneo (1996) in cordata con Mario Ogliengo e Patrick Raspo, una via destinata a divenire molto popolare, anche se sicuramente meno ardita e bella di Intelligenza Emotiva: spero che un giorno anche questa sarà apprezzata come lo è la sorella minore! Le vie aperte in questo stile andavano ormai per la maggiore e sono senz’altro da segnalare alcune tra esse che divennero negli anni seguenti dei veri best-seller del genere, come a esempio sul Monte Oddeu Vivere di sogni (con mia moglie Cecilia, Antonello Pala e Mariano Zurru, aprile 1994) e La mia Africa (settembre 1994, con Cecilia e Antonio Marino) o, prima via moderna nella Gola di Gorropu, I sogni di Sara (4 ottobre 1995, con Pala). Invece L’ombra della mia mano (16 e 23 agosto 1996, con Cecilia e Pala) alla Punta Cusidore è forse la prima tra le vie “plaisir” e non a caso è oggi molto ripetuta e apprezzata. Per la prima volta, infatti, aggiungemmo degli spit in discesa al fine di agevolarne e incoraggiarne la ripetizione.

Maurizio Oviglia su Non spezzarmi il cuore, Masua, 5 dicembre 1998

Parallelamente sul medesimo terreno si muovevano due altri apritori. Il sardo Enzo Lecis, personaggio goliardico e assolutamente fuori dagli schemi, era stato il primo ad aprire grandi vie lunghe dall’alto, come a esempio la via Wolfgang Güllich a Punta Giràdili (che molti erroneamente credono aperta da Güllich in persona!). Fu l’autore anche di altre importanti (perché furono le prime!) vie miste (un po’ dall’alto e un po’ dal basso), senza troppa attenzione al lato etico, come a esempio La Sguercia sul Monte Uddè e Fedeli alla Linea sul grande pilastro di Punta Plummare, forse la scogliera più alta d’Europa (quasi 500 metri!). Sua fu anche L’Angelo assassino (inizio 1999, con Simone Sarti), la prima via a spit sulla parete del Donneneittu. Anche in questo caso Enzo iniziò la via dal basso per terminarla poi dall’alto (ottobre 1998). Una pratica che altrove avrebbe scandalizzato l’ambiente degli alpinisti, ma qui in Sardegna non se ne accorse (quasi) nessuno! Con più esperienza si muoveva invece il bolognese Lorenzo Nadali che, dopo alcune vie sull’Aguglia e sul Monte Ginnircu, si innamorò del Monte Oddeu. Nel 1997/1998 aprì quelli che a mio avviso sono i suoi capolavori, Sale Grosso e Margaritas, scalate impegnative (senza essere estreme) e bellissime dal punto di vista della qualità della roccia. Oggi sono dei classici alla portata di quanti scalino sul 7a/7b in falesia. Nel decennio successivo Nadali e il suo gruppo si resero protagonisti di numerose vie nuove, tra cui quelle del Monte Uddè (Lanaitto) sono forse le più belle e rappresentative. Nonostante gradi mai troppo estremi, le loro vie non si possono certo definire plaisir e si rifanno per stile e impegno a un altro grande apritore delle Alpi Occidentali, Manlio Motto.

Maurizio Oviglia sull’Alveare di Cala Gonone, 6 dicembre 1998

Ma il 1998 fu anche l’anno in cui il trentino Rolando Larcher si interessò alla parete nord di Punta Cucuttos, nella Gola di Gorropu. Nel mese di maggio ebbi l’onore di iniziare con lui quella che sarebbe diventata Hotel Supramonte (terminata l’anno successivo con Roberto Vigiani), una delle vie più famose del mondo! Nella filosofia di Rolando il gioco dell’apertura dal basso era spinto all’estremo e non ammetteva compromessi, ovvero passi di artificiale tra una protezione e l’altra. In questa maniera si riusciva a mantenere una considerevole incertezza sulla riuscita della via: il fatto di utilizzare trapano e spit non era di per sé una garanzia di successo… Con Rolando iniziai un’amicizia che avrebbe, negli anni successivi, dato vita a importanti vie non solo in Sardegna, ma su altre pareti del mondo. Va chiarito che il mio contributo all’apertura di Hotel Supramonte fu minimo, limitandosi a mezza lunghezza (anche se quella chiave) aperta da capocordata. Ma l’esperienza fu per me determinante e influenzò il carattere delle mie vie successive, che virarono da una concezione “quasi” plaisir a una decisamente più élitaria, chiaramente ispirata dalle idee di Rolando. Negli anni successivi, pur non avendo il suo livello in arrampicata sportiva (determinante in questo stile di apertura), mi sono sforzato, con il fido Simone Sarti, di emulare il capolavoro di Hotel Supramonte sulle altre pareti. La prima via importante del nuovo secolo fu L’occhio assoluto (17-18 aprile 2000, con Sarti) a Gorropu, a fianco del Pilastro Comino, dove su 450 metri di parete sperimentammo i brividi di una chiodatura assai rarefatta, pur su difficoltà che non superavano il 7a. Poi sul Bruncu Nieddu, con Legittimo Bastardo (luglio 2000, ancora con Sarti) riuscimmo a portare l’obbligatorio sino al 7a+ e le difficoltà massime al 7c, su una linea diritta come con fuso. La via fu poi ripetuta da Manolo, Larcher e Vigiani, che ne confermarono la bellezza e sostenutezza. Ma la mia esperienza più radicale fu senza dubbio l’apertura in solitaria (in auto sicura) della vicina Stella di Sangue (agosto 2000) che mi richiese cinque giorni di fatica, bivacchi alla base della parete, due voli sul gri-gri causati dalla rottura delle cinghie dei cliff-hanger. Aprire in solitaria in questo stile è stata una delle cose più faticose e stressanti che abbia fatto nella mia carriera. Alla fine della salita, in discesa, sono caduto varie volte sul ghiaione sotto il peso dello zaino: mi si piegavano le ginocchia dalla stanchezza!

Maurizio Oviglia in cima a Spirito Selvaggio in Codula di Luna (2003) mentre mostra i due cliff che rendono possibile l’apertura di vie moderne così difficili. Foto: Rolando Larcher.

Gli anni seguenti hanno segnato per me, soprattutto in Sardegna, un ritorno all’etica tradizionale lasciando le aperture difficili con l’uso dello spit alle trasferte con l’amico Rolando. Credo che la mia attività in Sardegna, per quanto riguarda le vie lunghe, si svolga attualmente su tre piani. Da una parte le vie a spit difficili e impegnative cui spesso contrappongo quelle più facili e di sicuro successo popolare. Ma non disdegno affatto le vie tradizionali, aperte il più possibile con i dadi e friend, senza l’utilizzo dei chiodi, e possibilmente in libera a vista. Vorrei cercare di spiegare cosa c’è alla base di questi tre stili diversi – apparentemente opposti – di concepire l’apertura di una via su una grande parete. Vorrei che chi mi legge non tirasse conclusioni affrettate, ma cercasse di comprendere le mie scelte, che sono il frutto di anni di ricerca ed esperienze sul campo. Questi tre stili, a mio avviso, sono i tre modi di muoversi nello spazio bianco verticale, che più mi rappresentano. Qualcuno ha detto di me che sono un “liberista” e che sono fin troppo intransigente sotto questo punto di vista. D’altra parte ognuno è il frutto delle esperienze che ha vissuto e dell’ambiente culturale in cui ha mosso i primi passi in verticale. Le mie radici affondano nella piccola rivoluzione culturale del Nuovo Mattino, ma sono cresciuto, arrampicatoriamente parlando, nei primi anni Ottanta in Val di Susa e in Valle dell’Orco proprio quando stava nascendo la new wave dell’arrampicata libera. Provavamo a liberare ogni via e, il solo non appendersi o tirare quei chiodi, era per noi un successo. Appena siamo stati in grado di tenerci con le nostre mani, come un bambino toglie le rotelle alla bicicletta, abbiamo lasciato a casa le staffe. L’arrampicata artificiale non mi ha mai interessato più di tanto e nemmeno, se devo essere sincero, la piolet traction o il dry-tooling. Ho sempre avuto bisogno di sentire il contatto della roccia sotto le mie dita, di provare l’ebbrezza e l’adrenalina dell’arrampicata libera lontano dalla protezione. Ed ho sempre amato e cercato, in fondo, quel terribile momento in cui, lontano dalla protezione, devi decidere se tornare sui tuoi passi, rinunciando, oppure osare e proseguire verso un punto di non ritorno, ben sapendo che dovrai dare tutto te stesso. Questa forza di carattere è tipica degli alpinisti, più che degli scalatori di ultima generazione. Forse perché gli arrampicatori sportivi, hanno esorcizzato tutto questo arrivando a eliminarlo del tutto e si sono concentrati più sulle doti fisiche rispetto a quelle psicologiche. Il rischio continua, nonostante tutto, a far parte delle mie arrampicate e, anche se decido di usare gli spit, non mi piacciono le vie banali, dove si possa giungere comunque in cima a prescindere dalla propria abilità. Di recente mi sono riavvicinato all’arrampicata tradizionale e in particolare al clean climbing. Mi piace mettere da me le protezioni, mi piace usare solo i friend e qualche volta i nut, ma rispetto a un tempo preferisco lasciare a casa il martello. Qualcuno non riesce a capire come io riesca a conciliare tutto questo con le aperture con spit e trapano e si sentono disorientati. L’arrampicata sportiva fa parte della mia vita quanto l’alpinismo tradizionale, e non trovo nulla di eticamente sbagliato nell’uso dello spit, se con particolari regole che mantengano una certa avventura e incertezza nella riuscita, in terreni e contesti non adatti all’uso delle protezioni mobili. Dopo 30 anni di attività e quasi 2000 nuove vie, credo di essere arrivato a una sintesi, senza dubbio opinabile e personale, di questi tre stili che potrei chiamare, semplificando, plaisir, HLF (Hard, Long & Free) e trad. Come dicevo, negli ultimi dieci anni ho cercato di muovermi su queste tre linee guida, lasciando gli altri apritori, amici e non, alla loro strada. Per fortuna la Sardegna è ancora, per chi ha occhi per vedere, una grande tela bianca dove ci si può esprimere come meglio si ritiene, ognuno secondo la propria ricerca.

Maurizio Oviglia alla Cattedrale, San Vito lo Capo

Lo stile HLF, come lo aveva magistralmente definito l’arrampicatrice Fulvia Mangili, è un’evoluzione dello stile degli apritori svizzeri dei primi anni Ottanta, Martin Scheel, Beat Kammerlander, Michel Piola, Yves Remy. Rolando Larcher ha dettato le regole (a cui tuttavia ben pochi si attengono): niente artificiale tra i punti fissi, se non si riesce a passare in libera, piuttosto si scende. Solo in tal modo si preserva “l’impossibile” e se ne scongiura l’assassinio. Ma anche tra coloro che si attengono a queste regole intransigenti vi sono due diverse correnti di pensiero. Una di derivazione più sportiva, pone l’accento sull’obbligatorio, limitando i rischi in caso di volo ad alcune lunghe cadute. Il fine è un obbligatorio alto, senza rischi di cadute letali o pericolose. L’altra corrente, invece, cerca piuttosto la maggiore distanza tra gli spit possibile, in base alle proprie capacità psicologiche e fisiche. In Sardegna questi diversi approcci hanno portato a belle realizzazioni che a prima vista si rifanno al medesimo stile ma che nella realtà sono piuttosto differenti. Pietro Dal Pra è senz’altro autorevole esponente di questa seconda disciplina. Le sue vie sulle scogliere di Punta Plummare, di Orronnoro e del Monte Uddè sono il massimo dell’élitismo possibile, coniugando un alto impegno psicologico con un elevato livello sportivo richiesto. Se si sbaglia, non sempre si cade con la rete (anzi quasi mai), per cui sono molto pochi quelli che osano avventurarsi sulle sue vie. Emuli di questa concezione sono senz’altro i lombardi Matteo Della Bordella, Domenico Soldarini e Fabio Palma che sono stati attivi nella seconda metà degli anni duemila sulla parete di sinistra del Monte Ginnircu, aprendo tre vie molto impegnative (E non la vogliono capire, Oltreconfine e Genius). Larcher, Vigiani e il sottoscritto, hanno invece cercato negli ultimi anni una magica sintesi tra difficoltà, estetica e impegno, senza creare vie troppo pericolose. Capolavori di questo genere sono senza dubbio Spirito Selvaggio in Codula di Luna (Larcher-Oviglia, 2003), Mezzogiorno di Fuoco a Punta Giràdili (Larcher, Oviglia, Vigiani 2007) e Umbras a Punta Cusidore (Larcher, Oviglia 2009). Anche se, naturalmente, vi sono tutta una serie di vie meno difficili, ugualmente importanti, che non citerò per motivi di spazio.

Maurizio Oviglia in apertura sul quinto tiro di Fatti non foste (Monte Gallo, Parete del Nuovo Mondo), 12 dicembre 2008.

Ma a differenza dei miei illustri colleghi, a eccezione di Roberto Vigiani, non ho mai rinunciato ad aprire vie “facili” che potessero incontrare un grande favore di pubblico. Molti hanno definito queste vie col termine “plaisir”, ma questa concezione dell’apertura è spesso sfociata nella super-chiodatura, generando itinerari con obbligatorio molto basso e impegno psicologico trascurabile. Al contrario, ho sempre cercato di non rendere banali le mie vie, anche se di grado contenuto, mantenendo un obbligatorio appena al di sotto del loro grado massimo. Questo, forse, non ha mai procurato lunghe code sulle mie vie ma senz’altro ha mantenuto la soddisfazione, nei ripetitori, di conquistare una via che è nelle proprie capacità. Non potrei davvero citare tutte le vie che ho aperto e che continuo tutt’oggi ad aprire con questa filosofia e non saprei proprio dire quale possa essere definita la più bella o la più importante. Vorrei solo che tutte, indistintamente, contenessero un po’ delle mie idee, del mio carattere, del mio modo di guardare una parete nel momento in cui “vedi” la tua linea immaginaria. Desidererei davvero che un giorno si potessero distinguere le mie vie da quelle di un altro apritore, come il quadro di un pittore è riconoscibile da quello di un altro.

Maurizio Oviglia sui tiri finali di L’abito non fa il monaco (Pizzo Monaco).

Con le arrampicate tradizionali, infine, posso dire di non avere mai veramente smesso, anche negli anni di maggior fervore per l’arrampicata sportiva. I fantasmi del passato (Punta Jacu Ruju, con Mattia Vacca, 23 marzo 1994), Mani Pulite alla Punta Cusidore (con Fabrizio Dessì, 2 giugno 1993) ne sono testimonianza. Le più importanti realizzazioni in questo stile sono tuttavia, senza ombra di dubbio, la trilogia trad del Cusidore: Mercanti di Chiacchere (700 m, Larcher, Vigiani, Oviglia, 2002), British Way (Larcher e Oviglia, 2008) e Camaleontica (Larcher, Oviglia, Giupponi, 2010), vie aperte in libera e a vista con uso di protezioni mobili. Ma sono ugualmente affezionato a una manciata di vie un po’ più facili aperte con Giorgio Caddeo: Sonetaula sul Bruncu Nieddu (12 marzo 2003), dedicata a un efferato fuorilegge che proprio su queste montagne si era dato alla macchia ma, tradito dall’amore per una ragazza del paese, fu infine ucciso dai Carabinieri; La Bottega di Filosofia a Gorropu (6 aprile 2004) e Pulp Fiction a Masua (2004). Con Ferruccio Svaluto Moreolo, sempre a Bruncu Nieddu, ho salito Cacciatori di fantasia (23 ottobre 1994). Le ultime mie vie fanno parte di una nuova ricerca che porto avanti da qualche anno su pareti e scogliere minori dell’isola. Sono vie di clean climbing comprese tra i due e cinque tiri di medio-alta difficoltà e assimilabili alle vie inglesi, ovvero non in fessura ma su muri compatti con tratti obbligatori. Tra esse sono particolarmente fiero di Hirundo sulla costa est, Musikedda e Top Secret al Garibaldi (aperte con Fabio Erriu), nonché della bella Blu Trad a Capo Pecora che mi ha dato anche lo spunto per realizzare un film con mia figlia, presentato al Festival di Trento.

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I miei spazi ultima modifica: 2023-12-19T05:42:00+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “I miei spazi”

  1. Che dire! Tanto di cappello per l’enorme e variegata attività e per il modo in cui trasmette la sua passione, sempre preciso nel definire ogni singolo e diverso approccio e stile utilizzati in apertura:  non c’è di sicuro spazio per inutili polemiche! 

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