I 90 anni del primo sesto grado italiano

Oliviero Olivo, una vita speciale
di Marcello Mason (apparso sul semestrale Le Alpi Venete, primavera-estate 2015, per gentile concessione)

E’ ancora buio fitto, allorché l’uomo abbandona tutto solo le ultime abitazioni di Venas di Cadore che nelle tenebre appaiono cupi fantasmi. Si è lasciato alle spalle i fienili di Duoise e la Vizza di Romano per portarsi sotto i Cadini dell’Antelao, avvolto da un’oscurità che gli sarà unica compagna per buona parte del cammino, avanti che albeggi. Sono le due e trenta del 9 settembre 1923: orario antelucano inevitabile, visto che la sua avventura sull’Antelao non sarà di breve durata. In assoluto non si tratterà di una via nuova, dato che seguirà un itinerario aperto dai fratelli cadorini Umberto e Luisa Fanton, che nel 1912 avevano individuato la possibilità di scavalcare man mano le cime satelliti, sino a raggiungere la vetta vera e propria del re del Cadore. Se ne discosterà tuttavia attaccando Cima Fanton dalla sella a ovest della Rocca, anziché dalla spalla del Col dell’Erba, seguendo poi la cresta nord-est ed apportando importanti varianti lungo il percorso.

Oliviero Olivo
90AnniSestoItaliano-Olivo oliviero

Ci si trova in ogni caso di fronte a un alpinista dalle energie non comuni, se si pensa che solo due giorni prima aveva compiuto l’impegnativa ascensione di tutte le torri del Castello di Vedorcia (Spalti di Toro). Ma chi è esattamente la persona che si sta addentrando in questo ambiente di rara solennità e mistero, capace di incutere timore alla luce del giorno, figurarsi di notte? In realtà egli non è nativo di queste parti, bensì di quella Trieste che lo ha visto venire al mondo il 24 maggio 1896, pur essendo di origini cadorine, dato che papà Bernardo (detto Antonio) è di Suppiane, piccola frazione di Venas, mentre mamma Maria Kuk è di Gorizia.

Pur così giovane, ha già alle spalle avvenimenti singolarmente avventurosi: basti pensare che non ancora ventenne, il 6 giugno 1915, si era arruolato volontario alpino, non tardando a distinguersi nelle vicende che tragicamente segnarono quella guerra che avrebbe infiammato ed insanguinato le stesse Dolomiti. Nel settembre 1917 gli capita pure di esser fatto prigioniero, ma non appena può evade dal campo ungherese di Nagymegyer: catturato, è di nuovo imprigionato in un campo di punizione nella fortezza di Komárom. In quegli anni egli dimostra capacità non comuni, tanto da ottenere vari riconoscimenti, tra i quali la croce al merito, la medaglia dei volontari di guerra e quella d’argento al valor militare. In seguito, iscrittosi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo torinese, consegue la laurea con lode, discutendo una tesi di anatomia umana.

La tessera del CAI di Oliviero Olivo (Archivio famiglia Olivo)
La tessera del CAI di Oliviero Olivo (archivio famiglia Olivo)

È questo l’uomo che verso le dieci di quella lontana mattina del 1923 giunge a quota 2890 m, dove si sovrasta direttamente il ghiacciaio superiore dell’Antelao. Di lì egli prosegue lungo vari passaggi su roccia, uno dei quali sorpassato a cavalcioni per cresta sottile, indi per ghiaie e nuovamente a fil di cresta, sino alla Cima Fanton, toccata verso mezzogiorno. In seguito, con un lungo e paziente lavoro di piccozza, discende seguendo un ripido lastrone che lo conduce alla Forcella Inferiore, dove ignora il camino citato dai Fanton nella loro relazione, preferendogli un traverso la cui roccia non tarda purtroppo a rivelarsi pessima e priva di appigli sicuri. Incontra poi uno spigolo lungo e vertiginoso che lo porterà sulla Punta Chiggiato, dove trova, conservato in un barattolo, il biglietto con i nomi di Luisa e Umberto, datato 24 settembre 1912. Vi appone a sua volta la firma, limitandosi a indicare la seconda salita, la società di appartenenza (Sezione CAI di Trieste) nonché l’averla percorsa da solo. L’ulteriore Punta Menini verrà calcata poco più di un’ora dopo, evitando una cresta che diviene poi verticale, seguendo invece una cengia che porta ad un ripido canalone. Una successiva discesa per cengia e cresta gli consente di evitare lo strapiombo dal quale si erano dovuti calare i predecessori, quindi ancora cenge e cornici, per poi giungere alla Forcella Menini. Di lì, superati due camini, eccolo in vetta all’Antelao.

Direttissima dell’Antelao, via Olivo. Foto: Francesco Cappellari
Direttissima dell’Antelao, via Olivo (foto Francesco Cappellari)

 

La salita è risultata talmente entusiasmante da indurlo, appena quattro giorni dopo, a ripeterla in compagnia di Paolo (un altro dei fratelli Fanton) e di Dino Chiggiato, questa volta però in senso inverso.

Quegli anni Venti, che vedono Olivo frequentare le Dolomiti in un’inesausta curiosità esplorativa, costituiscono anche importante momento della sua carriera professionale, avendo modo di coadiuvare Giuseppe Levi nelle esercitazioni di Anatomia microscopica e istologica. Successivamente (nel biennio 1926-1927) sarà professore incaricato di Biologia generale per gli studenti di Medicina e Chirurgia, Veterinaria e Scienze Naturali. Nonostante la riservatezza che accompagna ogni ascensione, il suo talento alpinistico gode ampia considerazione nell’ambiente. Lo stimano, ad esempio, i fratelli Fanton, dandogliene prova nei giorni in cui ospitano nel loro Hotel Marmarole (anni 1922 e 1924) Re Alberto I del Belgio, visto che il giovane dottore verrà invitato a partecipare ad alcune scalate in compagnia del sovrano.

L’anno 1925 vedrà la realizzazione di un progetto che da qualche tempo lo appassionava: l’apertura in solitaria di una nuova via sull’Antelao, che fosse nel contempo la più diretta possibile.

Partito alle ore 4 del 19 agosto dal sottostante rifugio San Marco, lo si vede scavalcare la Forcella Piccola, per poi incamminarsi in direzione del Ghiacciaio Inferiore. Viene successivamente a trovarsi ai piedi di quella imponente cresta che scende direttamente dalla vetta fino alla lingua di neve basale, là dove prende avvio la salita che egli ha già chiaramente in mente, e sulla cui sommità arriverà verso mezzogiorno. Lungo il percorso ha incontrato un’ampia varietà di passaggi su roccia dalla mutevole compattezza, nonché quel lungo nevaio sul quale ha dovuto lavorare faticosamente con piccozza e ramponi. Ma alla fine ne è venuto a capo, realizzando quella che verrà da tale momento ricordata come la direttissima del versante settentrionale del monte. Appena dieci giorni più tardi, il 29 di quell’agosto, in compagnia di Paolo Fanton (sicuramente il più originale e imprevedibile dei fratelli) si reca nel regno delle Marmarole, terreno d’azione prediletto da questa famiglia le cui imprese alpinistiche in zona non si contano. Un ambiente noto anche ad Olivo, che già l’1 settembre 1924 aveva aperto in solitaria una nuova via lungo lo spigolo sud-est della Cresta degli Invalidi. Vale la pena, al riguardo, ricordare brevemente che il battesimo di questo paretone a forma di trapezio che fa da spalla alla Croda Bianca fu legato a un incidente occorso un mese prima alla cordata composta da Ernesto Bertagnin, Fabio Schwarz e Giorgio Bozza, lì cimentatisi. Nel corso del superamento di un camino strapiombante Bertagnin, a soli cinque metri dalla vetta, era volato, con conseguenti serie ferite, accusate in minor misura pure dallo Schwarz, che rimase ad assistere il capocordata, mentre Bozza scendeva a corde doppie a chiedere aiuto alle guide di Cortina. Tutto si concluderà per il meglio: per parte sua, lo Schwarz lascerà sotto l’ometto di vetta il proprio biglietto da visita con la nota: “Cresta degli Invalidi, lungo lo spigolo sud-est”. Giusto un mese dopo questa ascensione, Olivo individuò sulla Cresta degli Invalidi una nuova via lungo un evidente spigolo, così logica da non potervisi sottrarre. Senza esitazioni seguì con successo quell’itinerario sino alla vetta, così poi definendolo: “Salita piuttosto faticosa e abbastanza difficile, ma molto interessante e divertente. Il tempo per il percorso dello spigolo è di ore 3 e 50 minuti, per 500 metri di dislivello“. La scalata fu valutata dallo stesso di quarto e quinto grado, tuttavia dodici anni più tardi, il 2 luglio 1936, i successivi aspiranti ripetitori, Italo Da Col e Arduino Fiori (così com’era accaduto a un’altra cordata) si arresero di fronte a simili inattese difficoltà. E certo non si trattava di gente da poco, visto che di lì a qualche anno il primo, assieme a Roger Petrucci Smith, avrebbe aperto un’ardita direttissima, questa volta sulla parete sud dell’Antelao, con difficoltà di quinto e sesto grado. Il medesimo non nascose alla fine la sua perplessità, e lasciò un appunto sul libro del rifugio Chiggiato: “Non siamo riusciti a capire come Olivo, da solo, abbia potuto superare il camino viscido, strapiombante, stretto che non ci si può muovere“. Parole che avevano provocato la pronta reazione di Oliviero, al punto che in occasione delle consuete vacanze estive in Cadore, il 10 agosto di quello stesso anno, egli si offrì di accompagnare gli increduli. Purtroppo, giunti alla seconda forcella, il maltempo li obbligò a ritirarsi. Ma fu solo questione di giorni: il 25 dello stesso mese, con il Da Col ed il torinese Guido Bonnet, superando ogni difficoltà, sbucarono sulla cima della Cresta degli Invalidi.

Lettera di Alberto del Belgio al professor Oliviero Olivo (1924)
Lettera di Alberto del Belgio al professor Oliviero Olivo (1924)

Il 24 luglio 1949 ne fanno ulteriore ripetizione addirittura tre cordate contemporaneamente: fra i componenti vi è il veneziano Vittorio Penzo, Accademico del CAI di indiscussa bravura ed esperienza per il quale i sesti gradi erano pane quotidiano, che così annoterà: “Questa salita è stata erroneamente classificata di IV grado, mentre questo vale per i primi 200 metri, poi l’ascensione si fa più impegnativa e faticosa, con passaggi di V ed anche due di VI grado“. Più tardi le guide alpine, nonché componenti del prestigioso Gruppo Ragni di Pieve di Cadore, Ferruccio Svaluto Moreolo e Mauro Valmassoi, ripercorreranno la via Olivo. A comando alternato essi realizzano da par loro, sul finire del dicembre 1987, quella che verrà ricordata come la prima assoluta invernale. La presenza di passaggi del più alto livello troverà piena conferma, in particolare verrà segnalata una fessura difficile da proteggere, larga non abbastanza da potervisi infilare dentro: un tratto di “sesto” sostenuto, lungo una ventina di metri.

La conclusione evidente è che Olivo non seppe valutare esattamente tali difficoltà (la sua non fu certo una colpa) dato che la scala Welzenbach avrebbe visto la luce solo due anni dopo tale salita: di lì le problematiche per quanto attiene la corretta attribuzione.

Si apprende in tal modo che ancor prima di Emil Solleder e Gustav Lettenbauer, storicamente ritenuti i pionieri del sesto grado grazie alla loro salita della parete nord-ovest della Civetta (1925), Olivo, tale livello di difficoltà lo avrebbe già raggiunto e per di più in arrampicata solitaria. Naturalmente i tratti di “sesto” presenti sulla via Olivo risultano di sviluppo inferiore rispetto a quella dei monacensi, così come un raffronto non può prescindere tra l’altro dalla severità dell’ambiente, dalla frequente presenza di rocce bagnate e vetrate, nonché dalla caduta di pietre, che caratterizzano la muraglia della Civetta. A tale riguardo è altresì opportuno ricordare quanto a suo tempo rilevato dalla forte cordata composta dagli Accademici Alessandro Masucci e Giuliano De Marchi, e cioè che dal punto di vista non solo tecnico, ma anche cognitivo nonché ambientale, il primato del sesto grado spetta in realtà alla cordata dei bavaresi Oswald Gabriel Haupt e Karl Lömpel sulla Piccola Civetta, autori nel 1910 di una direttissima dalle sorprendenti difficoltà (toccate poi con mano dagli stessi Masucci e De Marchi) del tutto paragonabili alla più celebre vicina via Lettenbauer-Solleder. Realizzando quindi, con un anticipo di ben quindici anni, il primo sesto grado dell’arco alpino. Allo stesso modo è spontaneo sottolineare come l’accelerazione storica apportata da Olivo sia costituita dal fatto che sullo spigolo della Cresta degli Invalidi egli era solo. In definitiva, ecco sorgere l’inevitabile interrogativo: è possibile affermare che la primogenitura del sesto grado italiano sia attribuibile a quest’ultimo? Alla luce di tali evidenze ciò è più che lecito. Ma tornando a quel 29 agosto 1925, a incuriosire Olivo e Fanton, è il Pupo, piccola caratteristica torre che biparte la Forcella San Pietro e che per la sua curiosa conformazione può effettivamente ricordare un infante. La loro via si svolgerà lungo l’esposta parete sud, scarsa di appigli, quantunque buoni, e presenterà difficoltà di quarto grado, richiedendo complessivamente tre ore alla cordata.

La Cresta degli Invalidi (Marmarole) con la via Olivo sullo spigolo sud-est (foto E. Zorzi)
La Cresta degli Invalidi (Marmarole) con la via Olivo sullo spigolo sud-est (foto E. Zorzi)

Nel frattempo l’attività professionale di Olivo assume toni sempre più prestigiosi, portandolo negli Stati Uniti in veste di collaboratore del premio Nobel Alexis Carrel, nonché di assistente del Rockefeller Institute for medical research di New York: sono gli anni 1928-1929. Nel 1932 diviene professore ordinario alla cattedra di Istologia ed Embriologia generale presso l’Università di Bologna e sette anni dopo passa alla cattedra di Anatomia e alla direzione dell’Istituto anatomico che terrà fino al 1961. Appena può, eccolo nuovamente in terra cadorina. Il 20 agosto 1943, assieme al compagno Walter Maestri, giunge a quel rifugio Galassi dal quale si può osservare ammirati una larga e alta bastionata frastagliata, incisa da grandi camini: è la parete sud dello Scottèr, ai cui attacchi si perviene alla fine di coni ghiaiosi. Tutto crolla intorno e in quella via nuova tutto dipende dal non trovarsi sbarrato il passo da difficoltà insormontabili. Ma la fortuna li accompagna e il loro istinto li guida bene in quel labirinto di sfasciumi. Frattanto grande serenità gli era derivata dalla sua bella famiglia: l’amata moglie Eletta Porta, sposata nel 1931, darà alla luce Franco, e in seguito Paola e Chiara. Sarà proprio il primogenito ad innamorarsi a sua volta della montagna e a cominciare a fare compagnia al papà, già in giovanissima età. Come in quell’estate del 1955 che li vede recarsi al rifugio Antelao, con l’intenzione di cimentarsi in una via inedita lungo il versante nord-est di Cima Fanton. Nel descrivere quell’esperienza e i suoi protagonisti, soccorre oggi la testimonianza di Ivano Cadorin, alpinista classico ed esplorativo, all’epoca diciottenne, che nel pomeriggio del 4 agosto li incontrò al rifugio Antelao. Un momento che così egli rievoca: “Ho ben vivo il ricordo della narrazione del giovane Franco che al rientro dal tentativo raccontò con enfasi la violenza del temporale e dei sassi che cadevano. Suo papà seguiva bonariamente il racconto, ogni tanto accennando un sorriso, confermando che si sarebbero trattenuti in rifugio nell’attesa di una schiarita che permettesse di riprendere la salita“. Ciò avverrà il giorno 6: i due riguadagnano rapidamente quota, portandosi in tarda mattinata all’altezza dell’anticima, dove si incontreranno con Ivano, salito per suo conto lungo la via comune, che ricorda: “Al mio richiamo risposero chiaramente le voci dei due alpinisti. Un quarto d’ora più tardi eravamo riuniti sull’anticima. Lì, su quel terrazzone sospeso a tremila metri, Oliviero Olivo mi porse la corda: fui legato in mezzo, e in quella posizione raggiunsi il vertice di Cima Fanton. Stentavo a crederci: un vero alpinista, un Accademico, mi stava di fronte e mi aveva porto la corda. Non potei inoltre fare a meno di notare come i ventenni “tirassero il fiato” ben più del sessantenne“. A meravigliare poi Ivano non fu solo l’incredibile vitalità del non più giovane alpinista, ma pure la disponibilità, quando il professore accettò la proposta di scendere per la via comune. Per non dire dello stupore di fronte alla sicurezza con la quale egli previde il rapido cambiamento del tempo, semplicemente osservando il frenetico procedere di una famiglia di formichine lungo il sentiero. Erano infatti da poco al riparo del rifugio, quando un violento temporale si scatenò. L’indomani la Cima Fanton si presentava del tutto imbiancata.

Oliviero Olivo in vetta al Campanile di Val Montanaia. Foto: Ivano Cadorin
Oliviero Olivo in vetta al Campanile di Val Montanaia. Foto: Ivano Cadorin

La carriera alpinistica del giovane Franco, all’epoca assistente universitario, si arresterà purtroppo nel 1963 a causa di una disgrazia occorsagli mentre saliva sulla Torre Grande d’Averau lungo l’aerea via Miriam, provocata dall’improvviso cedimento di un appiglio con conseguente fatale volo. Al quale, impietriti, avevano assistito dal basso gli amici e la giovane moglie, sposata un anno e mezzo prima.

Il Pupo: via Olivo-Fanton, 1925 (da Antonio Berti, Le Dolomiti Orientali, vol. 1)
Il Pupo: via Olivo-Fanton, 1925 (da Antonio Berti, Le Dolomiti Orientali, vol. 1)

Lo strazio di quella morte segnò Olivo oltre l’immaginabile, eppure trovò in se stesso le energie per proseguire nei tanti impegni, anche civili e sociali, che avrebbero accompagnato la sua esistenza sino alla conclusione, per quasi altri vent’anni. Numerosissimi erano stati i premi e i riconoscimenti assegnatigli, tra i quali quello nazionale generale dell’Accademia dei Lincei, quello dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna e l’Archiginnasio d’oro, conferitogli dalla città nel 1976, attestazione della sua infaticabile (proprio come era stata la sua esperienza alpinistica) attività di ricercatore e docente, mai separata dall’impegno civile.

Un altro doloroso lutto aveva nel frattempo segnato Olivo: nel maggio del 1971 si era spenta la sposa Eletta, che pure aveva condiviso la passione per l’alpinismo. Ma il suo rapporto con i monti, si era in tal modo davvero concluso? Realmente l’anziano alpinista non era più tornato nelle Dolomiti, a visitare le amate Marmarole e l’Antelao che erano state teatro delle sue più belle avventure? Al riguardo esiste la sorprendente testimonianza di un socio del CAI di Mestre, all’epoca volontario al rifugio Galassi, che ebbe modo di incontrare Oliviero Olivo mentre questi scendeva dall’Antelao. Egli aveva appreso, in tal modo, che il professore era tornato un’ultima volta, a distanza di quasi cinquant’anni, ad arrampicarsi lungo la sua direttissima sullo sperone settentrionale, sino alla vetta. In assoluta solitudine, come in quel lontano giorno d’agosto del 1925. Il cerchio si era definitivamente chiuso: ancora un decennio, poi una malattia rapida e senza speranza. Così, l’11 novembre 1981, la vita abbandonava Oliviero Olivo, luminare della Medicina, uomo di non comune sensibilità e cultura, che si congedava per sempre dai tanti angoli del mondo nei quali aveva lasciato traccia. Soprattutto da quelle Dolomiti che avevano continuato a vivere in lui, anche quando ne era lontano. Appare opportuno a questo punto introdurre alcuni ricordi fortunosamente raccolti, quelli rievocati dalle figlie Paola e Chiara, che tuttora continuano a frequentare con figli e nipoti la casetta paterna, situata a poca distanza da quella che fu un tempo la stazione della ferrovia di Valle di Cadore. Per ragioni anagrafiche esse non assistettero alle imprese del genitore, né questi, successivamente, considerata la riservatezza che lo contraddistingueva, ritenne di farne oggetto di racconto, se non in modo assai vago. Tanto da suscitare oggi in loro un certo stupore, quando se ne ricorda quel valore dal papà tanto minimizzato. Chiara, la secondogenita, sottolinea in particolare il modo poetico in cui papà aveva consentito loro di avvicinarsi alla montagna: “Lui ci precedeva veloce, per cui io e mio fratello Franco trovavamo inspiegabilmente lungo la strada delle caramelle, talora per terra, altre volte appese ai rami degli alberi, per cui era tutto un correre e un farci camminare, assieme alla mamma, convinti che ciò fosse una magia. Ci ritenevamo bambini fortunati al punto di poter frequentare boschi incantati sui cui rami crescevano dolciumi. È stata una cosa realmente magica, alla quale credevamo ciecamente, così come si credeva a Babbo Natale. Papà poi aveva dei principi sui quali non transigeva e che aveva cercato di trasmettere a noi, stimolandoci a impegnarci e ad affrontare bene e responsabilmente la vita: erano queste, per lui, le cose davvero fondamentali. Quanto alle sue imprese alpinistiche, la loro importanza l’abbiamo scoperta molto più tardi, tanto lui le ridimensionava, benché verosimilmente richiedessero fatiche improbe, specie negli anni in cui scarseggiavano i mezzi di trasporto, tanto che per raggiungere il Cadore gli capitava di dover partire da Bologna in bicicletta. Perciò di esse onestamente ben poco conosciamo: non ha lasciato alcun diario al riguardo, tutto quello che abbiamo trovato sono stati unicamente la sua vecchia tessera del CAI, alcune fotografie, la lettera di elogio inviatagli da Re Alberto I del Belgio e pochi foglietti sui quali aveva annotato le relazioni delle ascensioni“.

Franco Olivo e Ivano Cadorin sulla Cima Fanton. Archivio Ivano Cadorin
Franco Olivo e Ivano Cadorin sulla Cima Fanton. Archivio Ivano Cadorin.

L’incontro con Paola e Chiara, in quella stanza nella quale ti immagini di veder comparire da un momento all’altro la figura ormai familiare del papà, così come avveniva in passato, contribuisce a delinearne con maggior chiarezza carattere, sensibilità ed umanità. Quei valori, insomma, capaci di impreziosirne la personalità. La conversazione ha via via il grande merito di dar vita ad altri aspetti dell’esistenza di quest’uomo, ricordandone i momenti della quotidianità e quelli che scandirono, a volte drammaticamente, i suoi giorni. Come nella rievocazione della già citata evasione da Nagymegyer, apprendendo così che “il piano di fuga era stato suo e da solo s’era scavato tutto il tunnel che lo separava dall’esterno. Alla fine, superato l’ultimo diaframma, si era ritrovato, profondamente commosso, al cospetto del cielo. Realizzando quanto più suggestivo esso fosse, rispetto a quello che gli appariva all’interno del campo, che pure era lo stesso, evidentemente, ma con in più il fascino della riacquistata libertà“. Torna poi alla luce la vicenda del Forame (propaggine del gruppo del Cristallo che scende su Cimabanche, NdR) nel corso della quale egli si era comportato in modo eroico. “In quei giorni della Prima Guerra Mondiale accadde che egli fosse di guardia assieme ad un compagno; improvvisamente furono colpiti dal nemico: l’altro mortalmente, lui a una spalla. Benché sofferente egli resistette stoicamente in quella posizione finché non arrivò il cambio. Ebbe per questo la medaglia d’argento. Nemmeno di ciò si fece mai vanto, minimizzando il tutto e rilevando che se si fosse mosso certamente l’avrebbero ucciso, così tanto valeva resistere in quella posizione, sperando, filosoficamente, per il meglio. Ciò che in assoluto gli premeva era che non si desse troppa importanza all’avvenimento, sembrandogli esso del tutto naturale“. Poi il ricordo torna inevitabilmente a Franco e alla tragica scalata sulla Torre Grande: “La sera in cui nostro fratello morì, vedemmo papà piangerlo e torturarsi nel rimorso di averlo introdotto all’alpinismo. Tentammo perciò di trovare parole di conforto e di fargli comprendere che non vi poteva essere da parte sua colpa alcuna, trattandosi di una passione nata spontaneamente, della quale nessuno mai avrebbe potuto ritenersi responsabile. Tanto più che ormai Franco, da anni, si muoveva autonomamente, seguendo scelte sue personali, in montagna“.

Oliviero Olivo con il figlio Franco e Lino Cornaviera sulla Torre dei Sabbioni, agosto 1943 (Archivio famiglia Cornaviera)
Oliviero Olivo con il figlio Franco e Lino Cornaviera sulla Torre dei Sabbioni, agosto 1943 (Archivio famiglia Cornaviera)

“Per quanto riguarda papà, volevamo anche sottolineare quanto lui amasse la musica, avendo studiato per diversi anni pianoforte, e così la fotografia, grazie alle diverse macchine che possedeva, curando personalmente, in camera oscura, sviluppo e stampa delle belle immagini da lui scattate. Fu un tumore al pancreas a provocarne la morte quell’11 novembre 1981. La sua vitalità era stata fino ad allora incredibile, tanto da suscitargli meraviglia, mista a rammarico, il non riuscire più a salire a due a due i gradini della scala dell’Istituto con l’agilità di un tempo. Poco prima, presago della fine, si sedette sul letto e con grande serenità e dignità disse: “Me ne sto andando… vi chiedo una lacrima, e un sorriso“.

Fu la sua un’esistenza vissuta in un rigoroso riserbo, sotto ogni profilo. Se si esclude la serata del 12 agosto 2011, organizzata dal Comune di Valle e coordinata dal giornalista Bepi Casagrande – nel corso della quale fu tra l’altro sottolineata l’affermazione di Olivo nell’orbita del sesto grado, e che vide la partecipazione delle figlie stesse, delle Guide alpine del Cadore, del Gruppo rocciatori Ragni di Pieve – mai era accaduto prima che altri avessero ricordato i trascorsi di questo straordinario alpinista. Alla fine, dell’uomo illustre, dell’infaticabile frequentatore delle Dolomiti cadorine, a distanza di tanti anni dalla scomparsa, cosa rimane oggi? Indubbiamente il ricordo del docente e ricercatore i cui intenti erano caparbiamente tesi al bene dell’umanità. E quindi di un’intera vita dedicata all’attività accademica e scientifica, accompagnata dal coerente impegno politico. Altre realtà grandi e piccole possono rammentarne la figura a quanti di lui generalmente poco o nulla sanno, come il bel Parco Olivo, che la città felsinea già da tempo gli ha dedicato. O la strada in sua memoria, lungo il percorso della dismessa ferrovia, nel tratto che si trova nei pressi di Valle di Cadore, a poca distanza dalla sua abitazione montana, sovente da lui frequentata. Ma volendo avvicinarsi maggiormente al suo spirito e provare emozioni a lui più intimamente legate, ossia quelle connesse alla sua attività alpinistica, bisognerà portarsi a un’altra quota, in vista delle Marmarole o in zona Antelao. Magari ai 3163 m di Punta Chiggiato, lì dove quell’umile barattolo arrugginito conserva ancora il foglietto del 1923 sul quale la firma di Olivo sembra scritta da poco. Davvero modesta cosa, si dirà, ma è quanto basta a ricordare il passaggio di un uomo speciale soffermatosi un giorno su quella cima che accarezzava il cielo, abbandonatosi a qualche breve pensiero, prima di riprendere il cammino. Lasciando lì, in tal modo, un po’ di se stesso.

Il piccolo involucro è talvolta sfiorato dalle folgori, lo scuotono i venti, lo celano alla vista spessi strati di neve, poi puntualmente, con il disgelo, riappare la bella stagione e con essa i meriggi estivi che tornano a riscaldarlo. Qualcuno dei rari passanti magari solleverà incuriosito la piccola custodia di metallo, estraendone un foglietto capace di rievocare chi aveva fatto suoi quegli alti ideali, figli di un’epoca ormai lontana. Pochi tratti di penna seguono nome e data, a testimonianza di uno spirito libero, incantatosi sin da ragazzo alla vista dei monti paterni. Un’esperienza, la sua, che avrebbe dato origine a una simbiosi tanto profonda da accompagnarlo costantemente per il resto dei suoi giorni.

Forse è proprio lì, su quella cima satellite dell’Antelao, che Oliviero Olivo riposa. O, chissà, continua in qualche modo a vivere.

Il biglietto in vetta alla Cima Chiggiato (Antelao), con le firme dei primi salitori Luisa e Umberto Fanton, seguite da quella di Oliviero Olivo. Foto: P. De Nardo.
Il ritratto è un ricordo di Olivo in vetta al Campanile di Val Montanaia.
Il biglietto in vetta alla Cima Chiggiato (Antelao), con le firme dei primi salitori Luisa e Umberto Fanton, seguite da quella di Oliviero Olivo. Foto: P. De Nardo. Il ritratto è un ricordo di Olivo in vetta al Campanile di Val Montanaia.

Approfondimenti
– Maestri, Walter: Dove la neve cade d’està, Cappelli, Bologna, 1952.
– Berti, Antonio: Dolomiti Orientali, vol. 1, CAI-TCI, Milano, 1971.
– Masucci, Alessandro: 1910: Sesto grado?, in RM CAI, n. 2 Marzo-Aprile 1988.
– Pomarici, Ugo: La Cresta degli Invalidi, in Le Alpi Venete n. 1/2001.
– De Nardo, Pietro – Paladin, Gabriele – Zanet, Flavio: Traversata di vette sull’Antelao, in Le Alpi Venete n. 1/2002.
– Cadorin, Ivano: Dieci giorni, un’estate, in 46° Parallelo. Testimonianze di montagna e di alpinismo, n. 11/2003.
– Scandellari, Armando: Alpinismo: 250 anni di storia e di cronache, 1° vol., CAI, Milano, 2009.

Cresta degli Invalidi 2783 m, spigolo sud-est
(Oliviero Olivo, solo, 1 settembre 1924) Relazione di Ferruccio Svaluto Moreolo
Dislivello: 700 m
Difficoltà: IV, V, VI+, roccia buona
Avvicinamento: dal rif. Chiggiato seguire le indicazioni per il Vallon del Froppa-Forcella Marmarole, poi entrati nel vallone portarsi nel punto più basso dello spigolo della Cresta degli Invalidi.
Salita:
1) attacco qualche metro a sin. del punto più basso dello spigolo (ometto) in prossimità di un camino; salire per 55 m poi verso ds. per cengia 5 m fino alla sosta (1 ch, IV);
2) diritti per camino (60 m, sosta su clessidra, IV+);
3) dalla sosta si sale obliquamente leggermente verso ds. fino ad arrivare in prossimità dello spigolo (55 m, IV con un pass. di V-, sosta su ottima clessidra);
4) seguire il camino per qualche metro, poi su placca appoggiata fino a una piccola cresta con sfasciumi (50 m, III+, sosta su 2 chiodi);
5) spostarsi per circa 10 m fino sotto a un camino-fessura (I, 1 ch.);
6) percorrere il camino fino alla sosta su buona clessidra (55 m, V e IV);
7) salire diretti dalla sosta per 20 m fino a 1 ch. Poi continuare per camino fino a una nicchia (55 m, V e IV, sosta su 2 ch.);
8) dalla nicchia partire verso sin. montando sulla cima della lama staccata (1 ch.); poi con delicato passaggio (VI+) salire sulla placca (1 ch. non buono seguito da 1 ch. con cordone). Da qui continuare per camino fino alla sosta (40 m, VI+, V+, 3 ch. di sosta);
9) traversare verso ds., poi diritti per 20 m, poi di nuovo verso sin. a imboccare un altro camino (sosta a fine camino, attenzione agli attriti; 60 m, III, IV+, sosta su spuntoni);
10) attraversare verso ds. fino ad arrivare a un canale detritico (60-70 m, II, cordone di sosta);
11) seguire l’evidente camino fino alla sosta (40 m, VI, sosta su ch. e clessidra. È consigliabile tenersi i friend più grandi per la parte centrale del tiro);
12) salire ancora per camino fino all’uscita su rocce facili (40 m, V+, III, sosta spostata leggermente a sin. su 3 ch.);
13) dalla sosta salire per facili rampe fino a raggiungere il camino terminale (40 m, II, III, sosta su 1 ch.);
14) imboccare il camino e salirlo fino alla sosta (40 m, IV+, V, sosta su 2 ch.);
15) uscire dal camino con passo di V, poi per canale fino in vetta (40 m, V, II-III).

Discesa: dalla cima dirigersi a sin. verso Forcella Marmarole. Da qui in 30’ nuovamente all’attacco.

Al Professore Emerito Oliviero Olivo viene assegnato l’Archiginnasio d’oro
(1976)
Al Professore Emerito Oliviero Olivo viene assegnato l'Archiginnasio d'oro (1976)

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I 90 anni del primo sesto grado italiano ultima modifica: 2015-12-21T05:06:32+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “I 90 anni del primo sesto grado italiano”

  1. Bellissimo lavoro Marcello!
    La mia ignoranza su Olivo era davvero grande ,ora non piu’.

    Toccante  leggere a fine articolo la relazione di Uccio che proprio questa primavera ci ha lasciato…

  2. Grazie per queste preziose informazioni sulla figura di Oliviero Mario Olivo, cugino primo di mio padre Giuseppe (Bepi) Olivo.

    Mio padre mi parlava sempre del cugino, ma i ricordi affondano nelle memorie della mia infanzia.

    Grazie di cuore. Roberto Olivo Torino

     

  3. L’attuale storiografia ufficiale sul primo sesto grado italiano:
    26-27 agosto 1929 Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan – Parete nord ovest della Sorella di mezzo – Sorapiss
    6-7 settembre 1929 Luigi Micheluzzi, Ronberto Perathoner, Demetrio Christomannos – Pilastro sud della Marmolada
    Queste la date storiche delle due salite che si contendono il primato.
    Non ci sarebbe nulla da eccepire per quanto riguarda i nomi dei primi sestogradisti italiani se non fosse che “magicamente” negli anni le date della prima alla sud della Marmolada non fossero retro-slittate di un mese e quindi ci sia chi contesta il primato… Misteri del campanilismo più sfegatato?
    Oltre a queste due un’altra salita contese a suo tempo il titolo, grazie probabilmente alla scarsa conoscenza storica degli autori della guida alpinistica del Civetta, Del Bianco e Angelini, i quali descrissero come primo sesto italiano la salita allo spigolo sud-ovest della Busazza di Renzo Videsott, Leo Rittler, Domenico Rudatis la quale però, oltre a venire successivamente “declassata” a V°+ fu scalata l’anno dopo cioè nel 1930(!).

  4. 14 e 14 settembre del 1921, F.JIori, A. Andreoletti e S. Zanutti salgono lungo la nord dell’Agner lungo un tracciato con difficoltà massime di V-5° Quinto grado (l’ho scirtto in tre nmodi diversi affinché non vi siano errori di comprensione…
    Che cosa c’entra il 5° con il 6°?
    Olivo aprì un itinerario che dopo moltissimi anni venne classificato più difficile di ciò che fu all’epoca della prima ascensione e da gente che sa come si scala non da neofiti…
    La Jori è rimasta con la valutazione originale ed è stata salita decine di volte (diverse le salite in solitaria) esssendo una classica.
    Probabilmente alcuni capitoli della storia dell’alpinismo (la quale, che si voglia o no, è relatva alle Dolomiti) andrebbero rivisti e riscritti e questo vale non solo per Olivo ma anche per diversi altri che rivisti molti anni dopo hanno riservato sorprese non da poco… mi viene da pensare alla Cozzolino-Corsi alla Sud della Punta Chiggiato in Antelao della quale l’unica ripetizione nota, se non erro ad opera di Alberto Campanile si sussurra di gradi che all’epoca erano giudicati pressoché* impossibili…

  5. Certamente bravo, ma come sesto grado su una grande parete la Jori all’Agner non ha anticipato tutti?

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