Il capriccio reale
Volevo scalare questa montagna “inaccessibile” dalla via de Ville, oggi assicurata con funi di metallo e chiodi, per capire cosa ha spinto la gente del Rinascimento a fare un’impresa così (Reinhold Messner).
Chi da Grenoble sale a Monestier, già poco dopo questo villaggio ma soprattutto a Clelles-les-Eaux, è sorpreso da un repentino cambio di paesaggio, improvvisamente dominato dalla presenza di un imponente torrione verticale. Anche chi guida un’automobile non può fare a meno di osservare quel gigantesco molare che s’innalza con orgoglio al di sopra della vegetazione.
il Mont Aiguille
“È una delle vie più terribili e raccapriccianti sulla quale io o gli altri membri del gruppo siamo mai andati. Abbiamo arrampicato su scale per 1500 metri, poi continuato per altri 1500 metri. Ma la vetta è il posto più bello che si possa immaginare. Per darti un’immagine vivida della montagna, ti devo dire che la zona della cima misura circa 500 metri di lunghezza ed un tiro di freccia di larghezza. È una splendida zona da pascolo. Abbiamo incontrato un branco di camosci che starà qui in eterno. Tra loro c’erano dei piccoli di una figliata del giorno stesso: ne abbiamo ucciso uno, ma per sbaglio. Non ne avremmo mai toccato uno senza sapere le intenzioni del Re.
Scrivo questo il 28 giugno sull’Aiguille. Sono su da tre giorni con più di 10 persone ed un portatore reale per la scala. Non scenderò finché non riceverò notizie da voi: spero che possiate mandare delle persone a confermare la nostra presenza sulla vetta. Ho battezzato la montagna nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo e l’ho chiamata Saint Charlemagne, in onore del Re. Ho anche organizzato una Messa per celebrare le tre croci erette ai lati della zona della vetta”.
Queste parole sono state scritte da un capo mercenario, il lorenese Antoine de Ville, dopo aver raggiunto l’altopiano della vetta del Mont Aiguille, per ordine di Carlo VIII, re di Francia. Questa cima, alta 2087 metri, le cui pareti si alzano verticali su ogni lato, era considerata come una delle sette meraviglie del Delfinato e la sua vetta era ritenuta invincibile. Adesso un gruppo di uomini, tra cui il ciambellano reale Julien de Beaupré e due preti, ne avevano distrutto il mito dell’invincibilità e con un messaggero avevano mandato notizie del successo al Parlamento, a Grenoble.
Era il 1492, l’anno in cui Cristoforo Colombo scoprì l’America. L’inizio del Rinascimento sembrò segnare quindi l’inizio della storia dell’alpinismo.
La vista del Mont Aiguille da est è impressionante. Non esisteva nessun motivo di ordine pratico per voler scalare quel picco inaccessibile. Il passaggio a destra ed a sinistra della montagna non presentava alcun problema, quindi perché Carlo VIII, che stava venendo in Italia, ordinò ai suoi uomini di tentare questo singolare edificio roccioso? Che genere di capriccio reale era quello? Curiosità? Fosse stata curiosità, perché non andare di persona? Perché mandare un uomo che gli obbediva? Voglia di conquista? Forse. In Occidente, all’inizio del Rinascimento l’idea di conquista si stava diffondendo senza alcun freno. L’uomo voleva dominare la terra una volta per tutte: gli europei consideravano la conquista della terra come una missione religiosa, una sorta d’altra Guerra Santa.
Il rapporto di de Ville non lascia trasparire le tracce della stessa gioia di Francesco Petrarca in cima al Mont Ventoux, pervaso di un’ispirata sensazione del compiuto; anche le visioni di un futuro altro mondo che potrebbero essere state di Leonardo da Vinci durante una sua ipotetica ascensione non erano familiari al risolutore de Ville. Egli era un conquistatore, un distruttore di tabù, un eroe vittorioso sul drago. Anche se fu il caso ad assegnare ad Antoine de Ville il ruolo di “primo alpinista”, egli lo mantenne fino in fondo. Come un ragazzo prodigio. Nonostante lo sforzo fisico, le difficoltà della scalata (a quel tempo estreme) ed i problemi all’interno del gruppo, egli superò tutti gli ostacoli e raggiunse l’obiettivo.
Ma se le motivazioni del capriccio reale rimangono oscure, su Antoine de Ville tutto è più chiaro. Egli semplicemente obbedì, fece il suo dovere per compiacere il suo sovrano. Non fu l’ardore della scoperta a spingerlo e neppure lo interessava l’esplorazione della montagna, o l’apertura di un accesso ad essa. Soltanto la conquista era l’obiettivo. Nient’altro. L’ascensione, come un’impresa santa, era la battaglia.
I tempi dell’alpinismo erano distanti almeno trecento anni, perché la conquista dell’inutile non era ancora concepibile. Qualche pastore, approfittando delle attrezzature infisse dagli uomini di de Ville, negli anni che seguirono visitarono ancora la larga vetta del Mont Aiguille. Poi, pian piano, non vi fu più nessuno. Fino a che, un certo Jean Liotard, detto Barroux, scalò di nuovo la vetta nel 1834 alla ricerca dei suoi agnelli dispersi.
Il Mont Aiguille
Anche se oggi la via del primo scalatore è attrezzata ed in alcuni punti molto addomesticata, è ancora difficile. A sinistra del profondo canalone mi arrampicai su rocce ripide prima di andare in diagonale verso destra. Dopo un certo numero di risalti verticali ed altre due traversate, certe volte esposte, raggiunsi i piedi di un alto camino, liscio ed in certi punti a strapiombo. Il mio rispetto per i primi arrampicatori crebbe quando mi chiesi come diavolo avessero mai potuto fissare la scala…
“Il cielo sul Mont Aiguille, nuvola su nuvola, sfiorava la terra. Tutto sembrava sospeso e rimaneva solo una sottile striscia tra le nuvole e le colline intatte della regione montuosa circostante. L’atmosfera era simile a quella che precede un cambiamento del tempo. Paesi silenziosi qua e là. Un paesaggio infinito. Il turismo di massa non ha invaso questa zona.
Antoine de Ville deve essersi sentito sublime… Essere primo lassù, elevato sopra la terra. Nel suo racconto l’uomo è sublime, non la natura. Quei primi scalatori si saranno sentiti come degli eroi, avendo assoggettato una delle parti del mondo più inaccessibili alla volontà umana, come comandato dalla Bibbia (Reinhold Messner)”.
Ci sono delle vette che più di tante altre hanno il potere di estraniare dalla realtà sottostante. Non sono mai salito sulla punta di questo storico e meraviglioso torrione, ma credo che arrivarvi in cima sia proprio una perdita di contatto. Forse per il panorama che sfugge uguale da ogni versante, forse perché la vetta è piatta e ricrea in piccolo un mondo a parte: la ragione sa che intorno c’è il vuoto, ma le radure sommitali sono così protettive che il cielo sembra appartenere ad un altro mondo oppure sembra che le nuvole galleggino assieme a noi, sdraiati su quest’immensa zattera che sa d’immenso e di mille profumi di brughiera.
2
Un articolo molto interessante.
Ognuno di questi articoli aggiunr particolari alla mia conoscenza hobbystica della stotia dell’alpinismo.