Il filosofo dell’alpinismo (RE 015)
di Pierluigi Boccanfuso
(pubblicato su poetarumsilva.com l’11 aprile 2016 ma ivi non più reperibile)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Gian Piero Motti, il “filosofo dell’alpinismo”. Personalità complessa e affascinante quella di Gian Piero Motti. Com’era stato (molto meno però) Pier Paolo Pasolini con il calcio, è unanimemente riconosciuto come uno dei più raffinati interpreti dell’alpinismo italiano tra gli anni Sessanta e Settanta, essendone anche stato tra i più importanti innovatori. Scrittore prolifico e studioso di sensibilità e acutezze straordinarie. Nato a Torino il 6 agosto 1946 si accostò giovanissimo alla montagna e nel 1972 venne ammesso nelle fila del Club Alpino Accademico Italiano. L’anno seguente entrò a far parte anche del GHM (Groupe de Haute Montagne) francese e, a metà degli anni Settanta, aveva alle spalle una notevole attività alpinistica che andava dalla scalate sul Monte Bianco alle salite di grosso impegno tecnico in Dolomiti. Decise di lasciarci tragicamente nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1983.
Gli amanti del Motti (e dell’alpinismo in genere) non ce ne vogliano ma, dopo questo breve excursus sullo sportivo, dobbiamo occuparci dell’aspetto letterario da cui ereditiamo un’ingente mole di articoli, monografie, introduzioni, traduzioni, opere di grande respiro alle quali Motti lavorò con alacre puntiglio.
Innanzitutto il suo impegno nel movimento di contestazione del ’68 che proprio a Torino ha il suo inizio. Ciò lo porta ben presto a forti dissensi con chi continua a privilegiare un alpinismo di stampo classico, i cui valori e le cui finalità non “possono essere messe in discussione”. Attorno alla sua figura nasce una corrente alpinistica che, agli inizi degli anni Settanta, dà uno scossone al mondo dell’alpinismo torinese e sarà poi definita il “Nuovo Mattino”. Il “movimento” nasce in un clima di rottura: basta con i codici di comportamento, con le gerarchie, con gli steccati che condizionano l’alpinismo; gli esponenti di questa esperienza (Danilo Galante, Roberto Bonelli, Mike Kosterlitz, lo stesso Motti, ecc.) saranno poi definiti il “Mucchio selvaggio” da Andrea Gobetti. Altro momento di svolta e decisivo della sua vita avvenne il 15 giugno 1975 quando ebbe, ricercata, un’esperienza visionaria mentre si trovava nella sua amata Val Grande di Lanzo. “Dopo quel momento – spiega Alessandro Gogna – molti si resero conto che quell’uomo “aveva visto” più degli altri e “sapeva” più degli altri”. Il Motti comprese che l’alpinismo non era soltanto ciò che tutti vedevano, raccontavano o praticavano: scendendo oltre la ruvida superficie si poteva scoprire come fosse un’allegoria del mondo e della vita, una sorta di punto d’osservazione privilegiato dal quale scrutare con attenzione fatti ed accadimenti di ogni genere. Pagine memorabili come gli articoli I Falliti, Zero the Hero, Antiche Sere, Arrampicare a Caprie che, senza mancare di citare mostri sacri come Seneca, Gothama il Budda, Buzzati, Brecht, segnano la sua produzione, in una vera e propria evoluzione e stilistica e di pensiero che qui potremmo provare ad analizzare in breve: I Falliti, primo articolo risalente al 1972, dal contenuto chiaro, esplicito, seppur con abbondante presenza della metafora, si presta ad essere una prova spiccatamente intima, che riproduce in chiave biografica (anche se il messaggio viene esteso a molti dei falliti, suoi colleghi ), e biologica, un po’ il suo tormento e la sua esistenza votata all’alpinismo, sicuramente tormentata. Dall’ammissione costernata del doversi dimenticare “triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di vero e che con l’alpinismo non hanno nulla da spartire” a quella di totale fallimento e condanna: “E allora ti dici finito, ti senti esaurito, svuotato: hai chiuso. Ma cosa hai chiuso? Ma non ti accorgi, non ti rendi conto che ti sei creato l’infedeltà con le tue stesse mani, che hai tradito la tua essenza, che presuntuosamente ti sei isolato inseguendo fantasie morbose e cercando sensazioni sempre più esasperate? Hai sempre condannato chi si droga e non ti rendi conto che anche tu sei un drogato, perché la roccia è la tua droga“.
A questa esasperazione segue la frustrazione di ciò che è dovuto diventare per la montagna, il ricordo lieto di quando la montagna gli piaceva, in un gioco di alternanza di tempi verbali, in una sospensione continua tra passato e futuro, delusione/disillusione vs precognizione amara mentre il presente, abbondantemente usato dal nostro, dà uno stacco freddo, sicuramente aggressivo. Porta il lettore sull’orlo di quel che racconta senza concedergli la giusta e clemente distanza da ciò che si narra. Sembra quasi accorgersene e, a tratti, recupera quell’indulgenza che il passato offre se non fosse per il fatto che ci ricasca, volontariamente, come in un dannato vizio. L’evoluzione nei suoi articoli prosegue soprattutto nello stile che in Zero the Hero, pubblicato nel 1980 (il titolo si riferisce ad un personaggio immaginario che esce niente meno che dalla fantasia di Daevid Allen, un freak australiano leader dei Gong, gruppo progressive-rock), si fa più ermetico, oscuro, allegorico seppur coadiuvato da una formidabile lucidità analitica. Di sicuro il più controverso e misterioso scritto di Motti, furono molti coloro che non capirono il senso di quella pagina bianca e delle carte del “matto” e dell’ “appeso” dei tarocchi inseriti nel testo. Trattasi, per capirci, del lancio di una provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare ogni cosa, ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità. Su questo pezzo, egli sembra esattamente sul crinale fra le speranze e le aspettative del primo periodo e la disillusione finale: l’ultimo grido, a metà fra una preghiera e un ammonimento disperato. Una sorta di estremo appello caduto nel vuoto. In seguito ad Antiche Sere che, come spiega sempre Gogna sono forse la contemplazione dell’irraggiungibile e, aggiunge Wu Ming 1 parlando di Point Lenana, la necessità di mantenere un legame spirituale con la tradizione alpinistica, con il senso di avventura (una rilettura della concezione di alpinismo proposto nel Nuovo Mattino, largamente fraintesa e contrapposta tout court all’alpinismo tradizionale), ecco Arrampicare a Caprie, l’ultimo lavoro edito nel 1983. Denso di riferimenti psicoanalitici, non è altro che l’amara constatazione della fine del Nuovo Mattino, il crollo di un’illusione che diventa metafora della vita: il free climbing inteso non tanto nel senso di “arrampicata libera” ma in quello più ambizioso e filosofico di “libero arrampicare”, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione. Ahimè… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri.
L’ideale di vita di Gian Piero Motti, ridotto ai minimi termini, era la ricerca della propria strada, della propria via: un cammino personale che, una volta individuato, si dischiude man mano che lo si percorre. Era l’esaltazione della vita in parete, di un ritrovato rapporto tra l’uomo e la natura con il gesto che, compiuto sulle rocce del fondovalle piuttosto che sulle ciclopiche muraglie alpine, non perdeva comunque alcun significato: potrebbe sembrare paradossale ma, a livello di vissuto interiore, per Motti esisteva perfetta coincidenza tra il trovarsi sulla Nord-ovest della Civetta o su una solare placca granitica a pochi metri da terra. Scendere per poi risalire, lasciare il mondo di cristallo dell’alta quota per tornarvi con uno sguardo nuovo: ecco l’essenza del grande ritorno (alla montagna) che ricorda quello di Ulisse a Itaca.
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Grazie a Ugo per aver riportato il segno della memoria su binari più attendibili! Ad ulteriore sostegno di quanto dal lui scritto, posso riferire di una netta risposta, ricevuta da Giancarlo Grassi durante un viaggio di ritorno dal vallone di Sea, su una domanda che gli feci in merito al mucchio selvaggio: “Non è mai esistito, è un’invenzione letteraria di Gobetti”
Fa piacere anche a me, per conoscere i fatti e gli uomini di altre generazioni. Davvero.
mi fa molto piacere che Ugo Manera con la sua memoria storica partecipi a questo blog. Con suoi precisi interventi riporta alla luce fatti così come sono stati, evitando che si possa cadere in tante sciocchezze. Magari attribuendo a quel periodo, e a Motti cose che non ha mai fatto, detto e manco pensato.
Alcune precisazioni: innanzitutto Gian Piero non c’entra niente con il 68 studentesco, Abbandonò l’università proprio perché non sopportava il casino che si era venuto a creare nelle università per causa delle contestazioni studentesche. Così come non ha nulla da spartire con gli atteggiamenti trasgressivi (o apparentemente trasgressivi) del “mucchio selvaggio” di Gobetti. Il nostro Nuovo Mattino era un’altra cosa e su questo sono state dette e scritte un mucchio di sciocchezze. Eravamo amici ed abbiamo condiviso varie cose con i ragazzi del cosi detto mucchio selvaggio, ma con Gian Piero spesso abbiamo scherzato ed ironizzato su alcuni loro atteggiamenti.
Gian Piero aveva un grande rispetto per i protagonisti dell’alpinismo classico ed, anche se non ne condivideva in toto la loro filosofia alpinistica, ha sempre avuto per loro un grande apprezzamento, in particolare per Walter Bonatti, sebbene la nostra visione dell’alpinismo avesse poco da spartire con quella del grande Walter. Siamo stati ospiti, insieme a Bonatti, di Donvito in un clima di reciproco rispetto ed apprezzamento, ma di tutto si è parlato tranne che interpretazione filosofica dell’alpinismo.
Grazie Paolo! Preziosa testimonianza! In effetti immaginavo una forte distanza, anche se mi piacerebbe sapere di più. Chissà se con il tempo Walter avrebbe detto di più o cose diverse. Chissà. E mi piacerebbe anche conoscere meglio il pensiero di Motti su Bonatti. Rimasi impressionato da un suo articolo dedicato al ghiacciaio del Freney dove, con grande lucidità e rispetto, metteva in guardia da superficiali considerazioni sul tragedia del 61, descrivendo carattere e preparazione dei protagonisti. Mi emozionò moltissimo.
Gallese, una volta glielo chiesi, ero giovane e leggevo molti libri di alpinisti, Walter, ormai solo viaggiatore nel mondo, stava scalando in Cornagera con un amico.
Mi disse che erano “mondi” diversi e molto distanti, il suo “era” quello molto legato alle realizzazioni in montagna, alla scoperta di se stesso e della natura insieme a pochi amici andando sulle grandi pareti, mentre quello di Motti era basato sui suoi pensieri e sullo scrivere belle cose.
Ero giovane e vederlo fortissimo con scarponacci e staffe antiche mi aveva impressionato.
Attendendo le risposte alla domanda di Paolo (io non so darla: a memoria non ricordo di dichiarazioni – scritte o verbali – di Bonatti circa Motti e/o il Nuovo Mattino, ma potrebbero anche esistere), aggiungo invece un’altra domanda: cosa dirette uno come Motti del modo attuale di frequentare la montagna?
Accetterebbe o addirittura approverebbe l’odierna montagna di massa, consumistica e superficiale?
Mah…
Una domanda diretta ad Alessandro Gogna, o chi conobbe questi uomini. Walter Bonatti lesse e disse mai qualcosa su Gian Piero Motti?
Ho sempre considerato i due uomini una sorta di mia bilancia personale (benché confessi di essermi più plasmato sul pensiero e l’agire di Bonatti, immergendomi nel pensiero di Motti nei momenti contemplativi sul senso del mio andare in montagna rispetto al mio rapportarsi agli altri).
Chiedo con ingenuità, perché proprio non lo so.