Il lato oscuro

Metadiario – 223 – Il lato oscuro (AG 1999-005)

Con l’amico Giovanni Alfieri, sempre disponibile alle fatiche che gli imponevo, andai in “esplorazione” nella Val Grande, il regno della wilderness diventato parco nazionale nel 1992. Colpevolmente non c’ero mai stato e feci un po’ di fatica ad individuare quale potesse essere la meta migliore per una buona documentazione di quella regione così selvaggia, la più vasta d’Italia. Situata nelle Alpi Lepontine Meridionali, tra il Lago Maggiore, l’Òssola, le valli Vigezzo, Cannobine e Intrasca, la Val Grande, con l’attigua Val Pogallo, occupa circa 10.000 ettari.  Qui l’abbandono è stato totale, privo di mezze misure, e la natura si è riappropriata del territorio.

Dal crinale di Cima Sasso verso il Lago Maggiore

Alla fine optai per la salita alla Cima Sasso, una delle vette più facilmente raggiungibili di tutta la Val Grande e del Parco Nazionale. Dirupata e selvaggia da ogni lato, permette una semplice salita dalla cresta sud-est: quest’ascensione permette di guardare, tenendosene a debita distanza, il gigantesco mondo di wilderness che ci contorna da assai vicino, un Parco sempre impervio con la costante minaccia di smarrirsi tra sentieri disegnati sulla carta ma non segnalati, non visibili e difficili, pericolosi. Oppure inesistenti. Un Parco dove la maggior parte delle frazioni è abbandonata, causa lo spopolamento e l’estrema difficoltà di accesso comune a tutti i piccoli centri un tempo abitati tutto l’anno. Cicogna, tra alterne vicende, resiste: ma quando vi si arriva, alla fine di una lunga e tortuosa stradina, sembra di essere ai confini.

Da Cicogna 732 m prendemmo una buona mulattiera lastricata che dalla chiesa si alza subito verso nord-ovest passando tra le case e poi nel bosco di castagni. Dopo molti tornanti, alla fine la vista si apre sul Lago Maggiore: il percorso è lastricato a rizada. Scomparvero le piante ed entrammo nella ripida radura dell’Alpe Prà 1250 m. Qui sorge la Casa dell’Alpino, un rifugio all’ombra di splendidi alberi, poco sotto il quale, in posizione assai panoramica e accanto alle baite sventrate, è un masso «coppellato». Entrammo in un boschetto verso nord-ovest e salimmo ad un piccolo intaglio, oltre il quale si deve traversare per raggiungere in breve una spalla erbosa nei pressi della sottostante Alpe Leciuri 1311 m. Il panorama sulla Val Pogallo e sulle montagne della Val Grande è magnifico. C’è anche un cartello d’orientamento.

Dalla spalla erbosa nei pressi dell’Alpe Leciuri, panorama sulla testata della Val Pogallo. L’immagine non riesce a esprimere l’ambiente complesso e selvaggio di questa regione: a volte l’apparenza inganna.

Seguimmo per sentierino il boscoso crinale che si dirige a nord-ovest verso il Monte Spigo 1439 m, dove lentamente la vegetazione termina, mentre il crinale continua a balze leggere ed erbose fino alla nuda Colma di Belmello 1589 m. Seguimmo sempre l’unico sentierino che ora sale più decisamente sulla cresta sud-est della Cima Sasso, e non ci facemmo ingannare da una traccia che raggiunge la cresta sud-ovest.

Giungemmo così in vetta alla Cima Sasso 1916 m. Era il tardo pomeriggio dell’8 luglio 1999. Con qualche passaggino su roccia proseguimmo verso la Cima Nord, per avvicinarci ulteriormente al Monte Pedum. Una traccia con qualche sbiadita segnalazione e quasi invisibile perché ricoperta dagli ontani nani scendeva dalla Cima Nord verso la Corona di Ghina per quindi raggiungere la Bocchetta di Campo 1994 m e il suo rifugio omonimo (che sapevamo inagibile): tralasciammo questo lungo e complesso percorso, decisamente riservato ad escursionisti esperti. Ai problemi di orientamento e di reperimento percorso si aggiunge anche la mancanza d’acqua.

Dalla Cima Sasso Nord sul Monte Pedum e Cima Laurasca

9 luglio, l’alba ci coglie sulla vetta della Cima Sasso, proprio di fronte al Monte Pedum 2111 m. Non c’è vento, non ci sono rumori. Dal lago non giunge nulla, dai torrenti neppure. Forse lo scroscio delle acque è smorzato dalla vegetazione rigogliosa di luglio. Il lago riluce, poi l’orizzonte sbianca in leggerissima foschia, con il binocolo si potrebbe vedere il Duomo di Milano, che non dista neppure ottanta km. Questo silenzio irreale è l’elemento più forte del caos che ci attornia. Canaloni, creste, dirupi, lontani ruderi e alpeggi abbandonati, talvolta invisibili tra i rovi e i lamponi, si rincorrono a panorama circolare e in questo silenzio esprimono la grande tristezza di questa wilderness tanto forzosa quanto necessaria e salutare. Non si vede un fil di fumo, non ci sono rintocchi di campana, non ci sono echi: e così lo sguardo impercettibilmente è attratto dalle lontane creste bianche del Monte Rosa e dei Mischabel, più conosciute di queste vicine e tremende immagini verdi in cui il passato sembra aver fatto pesare tutta la sua realtà più tragica.

Alba dalla vetta della Punta della Cristallina sul Basòdino e sul ghiacciaio omonimo, nettamente rialzati sulla lunga cresta divisoria tra Val Bavona e la non visibile Val Formazza. A destra del masso sommitale, all’orizzonte, svetta il magnifico Finsteraarhorn.

C’ero già stato con gli sci assieme a Romolo Nottaris, e la ricordavo una bella montagna: il 17 luglio salii da solo alla Punta Cristallina 2911 m dalla diga del Lago Narét 2310 m. Confermo, è una delle più belle montagne del Canton Ticino. Francamente cominciavo a patire un po’ questa necessità di andare in solitudine: d’altra parte se non fossi andato in quel modo, la tabella di marcia avrebbe subito ritardi cospicui: al bel tempo non si comanda.

Seguì una campagna di tre giorni al Ghiacciaio dello Stélvio, dove andai con Cristiana Pedrazzoli e Mario Pinoli, per svolgere le attività previste per Save the Glaciers.

Laghetto semighiacciato in alta Val Péccia, dalla vetta della Punta Cristallina.
Dalla sponda settentrionale del Lago di Narét, veduta (da sinistra) su Poncione dei Laghetti (in secondo piano), Punta del Lago Scuro, Cavallo del Toro (in secondo piano), Punta Cristallina, Punta del Narét e Passo del Narét.
Dal campo sulla Nagler Spitze verso Monte Cristallo e Vedretta dei Vitelli
Rilievi dalla Nagler Spize (Ghiacciaio dello Stélvio): Cristiana Pedrazzoli e Mario Pinoli.
Cristiana Pedrazzoli, assicurata da Mario Pinoli, si cala per effettuare i prelievi dai diversi strati di ghiaccio del Ghiacciaio del Cristallo.
  • Ghiacciaio dello Stélvio
  • Ghiacciaio di Punta Indren al Monte Rosa
  • Ghiacciaio della Val Senales
  • Ghiacciaio del Tonale
  • Ghiacciaio del Plateau Rosà
  • Ghiacciaio della Marmolada.
Cristiana Pedrazzoli e Mario Pinoli: bivacco sulla Nagler Spitze

Passammo le giornate del 23 e 24 luglio sul Ghiacciaio dello Stélvio a fare rilievi e a prendere una visione generale. La sera ci trasferimmo sulla cresta sud della Nagler Spitze e vi piantammo le nostre tendine. Ricordo che quella notte fu molto divertente: avevamo fatto un buon lavoro ed eravamo così a buon punto da ritenerci ormai soddisfatti. Cena e dopocena nel nostro nido, ridere e scherzare sulla nostra situazione potenzialmente pruriginosa. Non basta bandire il discorso lavoro per potersi divertire, occorre anche saperlo fare, con garbo e buon gusto.

La mattina dopo salimmo alla Nagler Spitze (Punta del Naso) 3272 m ma io volli anche raggiungere poco più a nord la Nagler Spitze (Punta del Chiodo) 3259 m. Poi, nel resto della giornata, concludemmo il nostro compito.

Cabane de Chanrion e Combin de la Tsessette
Nei pressi del fiorito alpeggio di Les Rosses, balcone sul lungo bacino artificiale del Lac de Mauvoisin. Dall’altro lato (orientale) spicca (da sinistra) la rocciosa mole di La Pleureur che, assieme all’orizzontale La Luette, limita a nord lo straripante Glacier du Giétro, contenuto a sud dall’immenso Mont Rouge du Giétro.
Bibi, Elena e Petra in discesa dalla Pierre a Vire. Sotto è il Lac de Mauvoisin.

Ci fu poi l’annuale soggiorno in terra svizzera con famiglia, questa volta a Fionnay in Val de Bagnes. Nel meteorologicamente pazzo mese di agosto 1999 per una settimana intera le previsioni del tempo svizzere non furono in grado di dare indicazioni valide sulle brevi schiarite che continuavano a susseguirsi. Esitavo a mettere in atto il mio programma di salire al Combin de Corbassière perché temevo la classica giornata nera. Così in alternativa, da solo o in famiglia, avevo raggiunto la Pierre a Vire (2 agosto), il Lac de Louvy (6 agosto), la Pierre Avoi (7 agosto); la mattina del 7 mi ero anche massacrato le gambe con la mountain bike perché, nel tentativo di raggiungere in minor tempo la Cabane de Chanrion, mi feci prestare dal padrone di casa l’attrezzo che presto si rivelò una vera tortura. Mai avrei pensato che i polpacci e le cosce potessero dolermi così dopo soli pochi chilometri di saliscendi lungo l’eterno Lac de Mauvoisin. Nella fretta di cogliere l’alba dal Col de Tsofeiret 2650 m c. verso il Grand Combin, ai primi tornanti di vera salita al rifugio abbandonai la bici per proseguire con i miei ben più allenati muscoli che normalmente uso camminando.

Panorama con il Lac de Tsofeiret sul versante orientale del Grand Combin. A sinistra, il Col de Tsofeiret nasconde il bacino ghiacciato del Glacier du Mont Durand, mentre sono ben visibili l’aguzza Tour de Boussine e la vetta del Combin de la Tsessette e la più tozza mole del Tournelon Blanc.
Les Planards (Val de Bagnes): Elena è sorvegliata da Bibi.
Bibi sale sulla Pierre Avoi

Finalmente il tempo dava un po’ di speranza, così il pomeriggio del 10 agosto mi avviai da solo dalla Cabane Brunet verso la cabane de Panossière dove alla sera m’incontrai con Bernard Corthay, un amico del solito mio padrone di casa che aveva accettato di accompagnarmi. La mattina dopo il tempo faceva schifo, una nebbia grigia e neanche troppo spessa non faceva neppure sperare in una rapida dissoluzione oppure in una fuoriuscita alle stelle. La marcia sul ghiacciaio fu quindi rapida ma penosa, per via del caldo umido che dopo un po’ si trasformò in nevischio. Un vago chiarore lasciava però sperare in una schiarita, ormai eravamo in ballo e quindi non ci fermammo ad aspettare. Invece di seguire la via normale per la cresta ovest del Combin de Corbassière, salimmo per la più articolata cresta sud, normalmente una bella e facile arrampicata su solida roccia, che però ora era del tutto incrostata di nevischio. Ramponi ai piedi e legati in cordata giungemmo quasi alla vetta. Al di sotto sfuggiva l’esile cresta, nel grigio di un’alba livida e triste. Qualche raffica di vento neanche troppo freddo spazzava ogni tanto il grigiore e la cresta appariva veramente selvaggia.

Il Grand Combin dalla Val de Bagnes (telefoto).
Alba sul Grand Combin (telefoto). A destra, Combin de Corbassière e Petit Combin.

Decisi che ci saremmo fermati ad aspettare, volevo fare la foto al Grand Combin e al grandioso Glacier du Grand Combin proprio da lì. Mi aspettavo di minuto in minuto di vedere la grande parete glaciale, il famoso e tragico Corridor della via normale a questa grande montagna, ma non succedeva nulla. Bernard a quel punto estrasse a sorpresa una bottiglia di vino bianco del Vallese che stappammo religiosamente e sorseggiammo fino all’ultima goccia, sempre sperando nella ormai remota possibilità di schiarita. Alla fine rinunciammo all’attesa e alla sosta che ci aveva infreddoliti a dispetto dell’alcol bevuto: un po’ debolucci di gambe e rigidi di membra affrontammo gli ultimi metri di cresta e giungemmo in vetta, dove peraltro sostavano già altre comitive giunte per la via normale.

La cabane de Panossière
Traversata sul Glacier de Corbassière, con lo sfondo di Tournelon Blanc a sinistra, Grand Combin al centro e Combin de Corbassière a destra.

Attendemmo ancora, ormai eravamo gli ultimi rimasti lassù e continuavamo a non vedere nulla. Verso le 10.30 decidemmo di scendere, anche se io ero un po’ timoroso di beccare l’ultima fregatura. Me la sentivo che ci sarebbe stata la schiarita, però pensavo che ormai il sole era troppo alto e che comunque la foto non sarebbe riuscita come volevo. Scendemmo velocemente quindi e, come quasi previsto, non appena giunti sul ghiacciaio, proprio nel cuore di questo stupendo ambiente di crepacci e di seracchi giganteschi, ecco che il cielo diventa azzurro, il sole ci colpisce subito, il panorama si apre su ogni montagna visibile ad eccezione di una sola: il Combin de Corbassière. Se fossimo rimasti sulla cima quel giorno non avremmo visto nulla, perché un’ostinata ed impertinente nuvola rimase per l’intera giornata a circondare proprio quella vetta.

Eclisse di sole dell’11 agosto 1999 dal Glacier de Courbassière: sta tornando la luce.

Il sole splendeva radioso, come al solito accecante: qualche sbrendolo di nebbia giocava a drappeggiare qua e là il versante ghiacciato. Ma il sole era sempre visibile. Improvvisamente, mentre scattavo le fotografie, mi accorsi che a parità di tempo l’esposimetro mi segnalava la necessità di una maggiore apertura: prima un diaframma, e non ci volli fare caso, poi due, e lì fui costretto a cercare di capire perché. Al terzo diaframma in più richiesto, esclamai: ma c’è l’eclisse! E del resto il fenomeno era ormai evidente, perché un’ombra innaturale per quell’ora e per un sole così evidente e neppure un po’ velato si stava impadronendo del nostro mondo visibile. Sapevamo dell’eclisse, ma nessuno di noi due aveva pensato che proprio quello era il giorno e proprio quella era l’ora. Durò poco, ma fu emozionante: avevamo l’impressione che, sia pure solo per pochi attimi, il regolare corso delle cose d’alta montagna si fosse alterato. Dopo qualche minuto era come prima, ma io mi sentivo scosso e non era una sensazione spiacevole.

0
Il lato oscuro ultima modifica: 2014-11-03T07:30:37+01:00 da GognaBlog

1 commento su “Il lato oscuro”

  1. Alessandro, grazie per avermi fatto scoprire questo gioiello. Complice il tuo articolo sulla rivista del CAI, nell’ estate del 2010 ho trascorso, nell’ unico alberghetto di Fionnay, alcuni giorni baciati da tempo splendido. Il grandioso lato oscuro del Grand Combin…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.