Metadiario – 223 – Il lato oscuro (AG 1999-005)
Con l’amico Giovanni Alfieri, sempre disponibile alle fatiche che gli imponevo, andai in “esplorazione” nella Val Grande, il regno della wilderness diventato parco nazionale nel 1992. Colpevolmente non c’ero mai stato e feci un po’ di fatica ad individuare quale potesse essere la meta migliore per una buona documentazione di quella regione così selvaggia, la più vasta d’Italia. Situata nelle Alpi Lepontine Meridionali, tra il Lago Maggiore, l’Òssola, le valli Vigezzo, Cannobine e Intrasca, la Val Grande, con l’attigua Val Pogallo, occupa circa 10.000 ettari. Qui l’abbandono è stato totale, privo di mezze misure, e la natura si è riappropriata del territorio.
Alla fine optai per la salita alla Cima Sasso, una delle vette più facilmente raggiungibili di tutta la Val Grande e del Parco Nazionale. Dirupata e selvaggia da ogni lato, permette una semplice salita dalla cresta sud-est: quest’ascensione permette di guardare, tenendosene a debita distanza, il gigantesco mondo di wilderness che ci contorna da assai vicino, un Parco sempre impervio con la costante minaccia di smarrirsi tra sentieri disegnati sulla carta ma non segnalati, non visibili e difficili, pericolosi. Oppure inesistenti. Un Parco dove la maggior parte delle frazioni è abbandonata, causa lo spopolamento e l’estrema difficoltà di accesso comune a tutti i piccoli centri un tempo abitati tutto l’anno. Cicogna, tra alterne vicende, resiste: ma quando vi si arriva, alla fine di una lunga e tortuosa stradina, sembra di essere ai confini.
Da Cicogna 732 m prendemmo una buona mulattiera lastricata che dalla chiesa si alza subito verso nord-ovest passando tra le case e poi nel bosco di castagni. Dopo molti tornanti, alla fine la vista si apre sul Lago Maggiore: il percorso è lastricato a rizada. Scomparvero le piante ed entrammo nella ripida radura dell’Alpe Prà 1250 m. Qui sorge la Casa dell’Alpino, un rifugio all’ombra di splendidi alberi, poco sotto il quale, in posizione assai panoramica e accanto alle baite sventrate, è un masso «coppellato». Entrammo in un boschetto verso nord-ovest e salimmo ad un piccolo intaglio, oltre il quale si deve traversare per raggiungere in breve una spalla erbosa nei pressi della sottostante Alpe Leciuri 1311 m. Il panorama sulla Val Pogallo e sulle montagne della Val Grande è magnifico. C’è anche un cartello d’orientamento.
Seguimmo per sentierino il boscoso crinale che si dirige a nord-ovest verso il Monte Spigo 1439 m, dove lentamente la vegetazione termina, mentre il crinale continua a balze leggere ed erbose fino alla nuda Colma di Belmello 1589 m. Seguimmo sempre l’unico sentierino che ora sale più decisamente sulla cresta sud-est della Cima Sasso, e non ci facemmo ingannare da una traccia che raggiunge la cresta sud-ovest.
Giungemmo così in vetta alla Cima Sasso 1916 m. Era il tardo pomeriggio dell’8 luglio 1999. Con qualche passaggino su roccia proseguimmo verso la Cima Nord, per avvicinarci ulteriormente al Monte Pedum. Una traccia con qualche sbiadita segnalazione e quasi invisibile perché ricoperta dagli ontani nani scendeva dalla Cima Nord verso la Corona di Ghina per quindi raggiungere la Bocchetta di Campo 1994 m e il suo rifugio omonimo (che sapevamo inagibile): tralasciammo questo lungo e complesso percorso, decisamente riservato ad escursionisti esperti. Ai problemi di orientamento e di reperimento percorso si aggiunge anche la mancanza d’acqua.
9 luglio, l’alba ci coglie sulla vetta della Cima Sasso, proprio di fronte al Monte Pedum 2111 m. Non c’è vento, non ci sono rumori. Dal lago non giunge nulla, dai torrenti neppure. Forse lo scroscio delle acque è smorzato dalla vegetazione rigogliosa di luglio. Il lago riluce, poi l’orizzonte sbianca in leggerissima foschia, con il binocolo si potrebbe vedere il Duomo di Milano, che non dista neppure ottanta km. Questo silenzio irreale è l’elemento più forte del caos che ci attornia. Canaloni, creste, dirupi, lontani ruderi e alpeggi abbandonati, talvolta invisibili tra i rovi e i lamponi, si rincorrono a panorama circolare e in questo silenzio esprimono la grande tristezza di questa wilderness tanto forzosa quanto necessaria e salutare. Non si vede un fil di fumo, non ci sono rintocchi di campana, non ci sono echi: e così lo sguardo impercettibilmente è attratto dalle lontane creste bianche del Monte Rosa e dei Mischabel, più conosciute di queste vicine e tremende immagini verdi in cui il passato sembra aver fatto pesare tutta la sua realtà più tragica.
C’ero già stato con gli sci assieme a Romolo Nottaris, e la ricordavo una bella montagna: il 17 luglio salii da solo alla Punta Cristallina 2911 m dalla diga del Lago Narét 2310 m. Confermo, è una delle più belle montagne del Canton Ticino. Francamente cominciavo a patire un po’ questa necessità di andare in solitudine: d’altra parte se non fossi andato in quel modo, la tabella di marcia avrebbe subito ritardi cospicui: al bel tempo non si comanda.
Seguì una campagna di tre giorni al Ghiacciaio dello Stélvio, dove andai con Cristiana Pedrazzoli e Mario Pinoli, per svolgere le attività previste per Save the Glaciers.
Così racconta Mario Pinoli:
«”Se cogli un fiore, tocchi una stella”, questa frase ecosofica mi viene in mente mentre siamo sulla Cresta del Nagler, all’entrata delle nostre tende a osservare il ghiacciaio dello Stélvio.
Siamo qui per studiare il ghiacciaio per sentirne il respiro, per capire le sue condizioni, per aiutarlo a vivere. Che idea occuparsi della salute di un ghiacciaio, delle condizioni ambientali di un gigante di ghiaccio che sembra dormire quieto tra le cime delle Alpi… Studiando in questi anni le Alpi, l’ultima frontiera di wilderness del nostro Vecchio Continente, ci siamo però resi conto che il degrado e il consumo di queste inestimabili risorse paesaggistiche e ambientali sono ormai, purtroppo, una realtà. Pensare quindi a un’azione di tutela e di conservazione, anche delle zone più remote, apparentemente più inaccessibili, è diventato un imperativo, un’evoluzione culturale del pensiero sociale e ambientale. Toccare un ghiacciaio vuoi dire influire sull’intero sistema idrico del ciclo dell’acqua e in particolare sul suo anello primigenio, sul punto di partenza dell’acqua che scorre a contatto con la terra, laddove essa è più delicata e quindi più preziosa e facilmente alterabile.
Provate a pensare al riscaldamento del clima, a neve e piogge che cadono sempre meno: chi fornirà l’acqua ai torrenti e alle sue trote, ai fiumi e ai loro canali di irrigazione, ai laghi di fondovalle e alle risaie che coprono a specchio la pianura? Il senso di queste attenzioni ambientali è in due lettere e un numero: H2O, acqua, èva, water, eau, wasser, agua, l’essenza del nostro organismo, la materia prima del nostro pianeta.
L’emozione di essere su uno dei più bei ghiacciai delle Alpi, nel Parco nazionale dello Stélvio, in uno dei punti più belli e famosi della catena alpina è sempre grande e tanto più intensa quando si dipana la storia di questo sito. Qui la storia naturale di millenni si intreccia con la storia della guerra dell’uomo e con l’epopea dello sci.
Il ghiacciaio è costituito da tre imponenti lingue: la Vedretta Piatta, la Vedretta dei Vitelli e quella del Madraccio. La massa glaciale che sovrasta e precipita verso il Passo dello Stélvio è quanto rimane di un’imponente calotta glaciale che copriva questa zona delle Alpi. Durante il Quaternario, le grandi glaciazioni si stendevano a coprire gran parte delle Alpi e dalla gigantesca calotta bianca emergevano solo le cime principali, come l’Ortles che domina a est il Passo dello Stélvio. Con la fine del periodo di clima freddo, collocabile a circa 10.000 anni fa, i ghiacciai hanno iniziato a ritirarsi. Incredibile ma vero raggiungevano a quel momento la zona collinare della Brianza, lambendo l’area ora occupata dalla città di Milano. Il drammatico riscaldamento del clima causò poi la progressiva ritirata delle lingue glaciali fino all’attuale, con i ghiacciai che occupano ora solo le parti alte e più remote delle valli alpine.
Negli ultimi secoli i ghiacciai hanno continuato a ritirarsi, mostrando episodiche pulsazioni di avanzamento, legate a fasi di raffreddamento del clima, come nel periodo tra il 1550 e il 1850, denominato Piccola Età Glaciale, nel quale gran parte dei ghiacciai alpini, e anche quello dello Stélvio, hanno mostrato una espansione tangibile. Al termine di questo periodo i ghiacciai hanno mostrato una tendenza al ritiro che, seppure con qualche evento localizzato di ripresa, perdura tutt’oggi. Nella zona che stiamo studiando, si registrò anche un piccolo avanzamento durante gli anni Venti, che non ha però creato condizioni di inversione del fenomeno. Si sono così manifestati fenomeni drammatici per la massa glaciale con la scomparsa di alcuni ghiacciai minori come quello dello Scorluzzo e del Vedrettino. Il ghiacciaio dello Stélvio stesso ha subito fortemente il riscaldamento generalizzato del clima, mostrando un ritiro di varie centinaia di metri che perdura tuttora. Le condizioni sono quindi quelle di un sistema glaciale in delicato equilibrio, con tendenza alla regressione. Alla storia naturale si è poi sovrapposta la storia urnana.
Con la costruzione della Strada Imperiale dello Stélvio, grazie al geniale progetto dell’ingegnere bresciano Carlo Donegani (tra il 1820 e il 1825), la zona del Passo e del ghiacciaio furono facilmente accessibili. Il valico, crocevia militare strategico, divenne poi attrazione turistica per alpinisti, appassionati di montagna o semplici turisti viaggiatori. La possibilità di raggiungere agevolmente la quota di quasi 3000 metri, costituì per gli alpinisti una validissima “porta di entrata” per la penetrazione alpinistico-esplorativa nel massiccio dell’Ortles-Cevedale. Lo stupendo scenario alpino, la presenza via via di attrezzate strutture alberghiere e il sorgere delle prime scuole di sci e dei rifugi, cominciarono ad attrarre un numero sempre maggiore di appassionati. Le prime scuole estive di sci nacquero negli anni Trenta, miscelando salite con le pelli di foca a uscite alpinistiche sulle vette circostanti. Lo sci era al tempo una disciplina d’élite e i raffinati sciatori dell’epoca elessero già a quei tempi lo Stélvio come una palestra per tutte le stagioni, con la neve che si manteneva invernale anche nel periodo estivo.
Durante la Grande Guerra fecero la comparsa gli “Alpini Skiatori” e nei due decenni successivi lo Stélvio diede inizio alla sua vocazione sciistica. Con la nascita del rifugio Livrio nel 1930 sorse la prima scuola estiva di sci, regolata su turni settimanali. Dopo la stasi conseguente al periodo bellico, negli anni ’50 esplose il fenomeno della settimana bianca. Neve assicurata, giornate lunghe e la tintarella di alta quota, ecco gli ingredienti che crearono il mito dello Stélvio, tanto da trasformarlo nella culla dello sci estivo, l’area sciistica estiva più ampia d’Italia e una delle più grandi d’Europa. Grazie all’intuizione e alla volontà di Giuseppe Pirovano detto Piro, valente guida alpina e maestro di sci, e di sua moglie Giuliana Boerchio, nacque la prestigiosa scuola di sci Pirovano, “l’Università dello Sci”. Nei decenni successivi lo sci estivo divenne sempre più popolare, passando da sport di élite a realtà più allargata. Dagli anni ’60 a oggi lo sci allo Stélvio è stato una tappa obbligata per esperti, atleti e principianti, che hanno trovato sul ghiacciaio un terreno ideale per praticare sci a tutti il livelli.
La nostra equipe di studio è al lavoro: Cristiana Pedrazzoli, la glaciologa, compie le sue osservazioni, Alessandro Gogna, alpinista esperto di ghiacciai e fotografo di montagna, cerca le inquadrature migliori per documentare i vari aspetti della la massa glaciale. Sospeso al cospetto del maestoso Ortles, il ghiacciaio dello Stélvio domina le Alpi Centrali. Le sue acque di fusione recapitano la preziosa linfa distillata dai millenni verso il bacino dell’Adda e dell’Adige. Dopo vari giorni trascorsi sul ghiacciaio è stata compilata una scheda ambientale, che contiene l’analisi ambientale iniziale delle varie attività svolte sull’area glacializzata. Nel lavoro di eco-audit fruiamo di un supporto conoscitivo fornito dagli stessi operatori locali, dai gestori degli impianti e degli alberghi, dai tecnici operanti quotidianamente in quota. In effetti, e questa è già un’evidenza significativa, l’atteggiamento degli operatori locali rispetto al progetto Save the Glaciers, è risultato subito essere molto interessante: la Pirovano Stélvio (società del Gruppo Bancario Banca Popolare di Sondrio), l’Associazione degli Albergatori, la società delle funivie Sifas hanno manifestato approvazione e interesse tecnico per l’esecuzione delle indagini, a cui sta partecipando anche una società valtellinese specializzata nel campo ambientale e della sicurezza, la Tecna di Sondrio, che svolge funzioni di coordinamento e che ha messo a disposizione la glaciologa Cristiana Pedrazzoli. Tutto questo interesse è un segno concreto dell’accresciuta sensibilità ambientale che si sta facendo strada finalmente almeno in qualche parte d’Italia. Che sia un indizio di come qualcosa stia cambiando nel nostro paese?
Per capire il Ghiacciaio dello Stélvio “dal suo interno”, fruiamo della collaborazione di Dario Vitalini, responsabile della sicurezza degli impianti e delle piste, un vero esperto del ghiacciaio. Dario ci fornisce preziose indicazioni sulla vita del “suo” ghiacciaio: «Lavoro qui da vent’anni e lo conosco in tutti i suoi aspetti. Il ghiacciaio è come un essere vivente, si muove, si modifica ogni giorno, reagisce alle sollecitazioni esterne». Parlando con Vitalini si capisce come il lavoro di gestione del complesso sistema uomo-ghiacciaio non sia affatto semplice. “Si tratta di operare in modo accurato per garantire sicurezza e sciabilità, cercando di preservare al meglio la risorsa nivale“. Ma cosa succede su un ghiacciaio utilizzato per lo sci? Quali sono le attività e le potenziali interferenze? L’eco-audit allo Stélvio ci fornisce un’idea precisa di cosa avviene per la gestione pratica dell’area. Si possono così suddividere una serie di azioni operative stagionali che comprendono sistemazione degli impianti, manutenzione degli stessi, verifica capillare delle condizioni di sicurezza, avvio e chiusura della rete impiantistica.
Giornalmente si attua poi una gestione minuta ed estensiva del manto nevoso, con riporti di neve, battitura delle piste, segnalazione dell’apertura dei crepacci, operazioni di manutenzione ordinaria o straordinaria delle infrastrutture. Tutte queste attività, sono state esaminate per lo studio Save the Glaciers, verificandone gli aspetti ambientali significativi. In particolare l’eco-audit ha interessato:
– il numero e la posizione degli impianti presenti;
– il numero, le caratteristiche e l’eventuale impatto delle strutture antropiche presenti (hotel, bar, zone di rimessaggio mezzi);
– la zonazione del ghiacciaio in base al tipo di attività svolta per verificare la presenza o meno di attività inquinanti o contaminanti o di zone degradate;
– la verifica della presenza di sistemi e procedure di gestione atte alla gestione ambientale del sito.
La raccolta dei dati e l’esecuzione di una serie di sopralluoghi specifici in varie posizioni del ghiacciaio con dettagliati rilievi delle condizioni locali, integrato dal prelievo di campioni di ghiaccio e dalla analisi chimico-fisica, hanno fornito un primo quadro ambientale della situazione locale.
Il ghiacciaio dello Stélvio è in fase di regressione, con fenomeni di scioglimento e ritiro, in accordo a una tendenza generalizzata che interessa tutti i ghiacciai alpini.
Nell’ambito dell’area studiata, sia all’interno della massa glaciale che ai suoi margini, sono presenti una serie di situazioni di parziale interferenza ambientale che meritano un approfondimento di indagine per la valutazione degli effetti ambientali significativi. L’indagine sinora svolta ha messo in luce chiaramente che nel passato “l’attenzione” ambientale al ghiacciaio era sicuramente minore, e che si sono verificati eventi di degrado connessi direttamente alla gestione e alla manutenzione delle infrastrutture presenti. Per fortuna negli ultimi anni la tendenza si è invertita e sono stati messi in atto una serie di interventi di bonifica e ripristino. In particolare:
– la gestione degli scarichi liquidi delle strutture presenti non è ancora ottimale; nonostante la ben visibile costruzione di costosi impianti per il collettamento dei reflui, ci sono ancora scarichi che vanno a interferire con le zone periferiche della massa glaciale e con le componenti ambientali locali;
– esistono ancora zone da bonificare con la presenza di residui inerti, materiali di risulta e rifiuti di vario tipo, ai margini del ghiacciaio e all’interno di esso per la cattiva abitudine del passato di scaricare nel ghiacciaio al suo intorno questi residui delle attività;
– esistono dei margini di miglioramento nella gestione della neve sulle aree sciistiche che potrebbe essere ottimizzata, riducendo gli sprechi e operando in modo da tutelare al massimo la massa glaciale, non portandola “a giorno” per evitare una fusione precoce e un depauperamento del corpo stesso del ghiacciaio; a questo proposito è allo studio una proposta specifica da parte dei tecnici di Save the Glaciers per una gestione ottimale dell’area;
– esistono dei margini di miglioramento nella gestione e nella manutenzione dei mezzi operativi che lavorano sul ghiacciaio, al fine di evitare fenomeni di inquinamento del manto nevoso e del sottostante strato glaciale.
È inoltre significativo sottolineare che sono in corso contemporaneamente al progetto Save the Glaciers altre attività scientifiche di indagini sulle condizioni del ghiacciaio promosse dal Parco Nazionale dello Stélvio e condotte dal professor Claudio Smiraglia dell’Università di Milano.
I ghiacciai da studiare nell’ambito del progetto triennale Save the Glaciers prevede di eseguire le ricerche e gli studi su tutti i ghiacciai turistici delle Alpi Italiane.
I siti di indagine selezionati sono:
- Ghiacciaio dello Stélvio
- Ghiacciaio di Punta Indren al Monte Rosa
- Ghiacciaio della Val Senales
- Ghiacciaio del Tonale
- Ghiacciaio del Plateau Rosà
- Ghiacciaio della Marmolada.
L’attività dovrà chiudersi con la realizzazione di un sistema di gestione ambientale per ogni ghiacciaio, con l’individuazione e la proposta di criteri di eco-gestione, la definizione di interventi prioritari di salvaguardia, di azioni di pulizia, bonifica e ripristino. A ciò si doveva sommare un’azione di sensibilizzazione e comunicazione del concetto di Top Water Stewardship proposto dalla Unilever, per la tutela della più preziosa risorsa idrica italiana».
Passammo le giornate del 23 e 24 luglio sul Ghiacciaio dello Stélvio a fare rilievi e a prendere una visione generale. La sera ci trasferimmo sulla cresta sud della Nagler Spitze e vi piantammo le nostre tendine. Ricordo che quella notte fu molto divertente: avevamo fatto un buon lavoro ed eravamo così a buon punto da ritenerci ormai soddisfatti. Cena e dopocena nel nostro nido, ridere e scherzare sulla nostra situazione potenzialmente pruriginosa. Non basta bandire il discorso lavoro per potersi divertire, occorre anche saperlo fare, con garbo e buon gusto.
La mattina dopo salimmo alla Nagler Spitze (Punta del Naso) 3272 m ma io volli anche raggiungere poco più a nord la Nagler Spitze (Punta del Chiodo) 3259 m. Poi, nel resto della giornata, concludemmo il nostro compito.
Ci fu poi l’annuale soggiorno in terra svizzera con famiglia, questa volta a Fionnay in Val de Bagnes. Nel meteorologicamente pazzo mese di agosto 1999 per una settimana intera le previsioni del tempo svizzere non furono in grado di dare indicazioni valide sulle brevi schiarite che continuavano a susseguirsi. Esitavo a mettere in atto il mio programma di salire al Combin de Corbassière perché temevo la classica giornata nera. Così in alternativa, da solo o in famiglia, avevo raggiunto la Pierre a Vire (2 agosto), il Lac de Louvy (6 agosto), la Pierre Avoi (7 agosto); la mattina del 7 mi ero anche massacrato le gambe con la mountain bike perché, nel tentativo di raggiungere in minor tempo la Cabane de Chanrion, mi feci prestare dal padrone di casa l’attrezzo che presto si rivelò una vera tortura. Mai avrei pensato che i polpacci e le cosce potessero dolermi così dopo soli pochi chilometri di saliscendi lungo l’eterno Lac de Mauvoisin. Nella fretta di cogliere l’alba dal Col de Tsofeiret 2650 m c. verso il Grand Combin, ai primi tornanti di vera salita al rifugio abbandonai la bici per proseguire con i miei ben più allenati muscoli che normalmente uso camminando.
Finalmente il tempo dava un po’ di speranza, così il pomeriggio del 10 agosto mi avviai da solo dalla Cabane Brunet verso la cabane de Panossière dove alla sera m’incontrai con Bernard Corthay, un amico del solito mio padrone di casa che aveva accettato di accompagnarmi. La mattina dopo il tempo faceva schifo, una nebbia grigia e neanche troppo spessa non faceva neppure sperare in una rapida dissoluzione oppure in una fuoriuscita alle stelle. La marcia sul ghiacciaio fu quindi rapida ma penosa, per via del caldo umido che dopo un po’ si trasformò in nevischio. Un vago chiarore lasciava però sperare in una schiarita, ormai eravamo in ballo e quindi non ci fermammo ad aspettare. Invece di seguire la via normale per la cresta ovest del Combin de Corbassière, salimmo per la più articolata cresta sud, normalmente una bella e facile arrampicata su solida roccia, che però ora era del tutto incrostata di nevischio. Ramponi ai piedi e legati in cordata giungemmo quasi alla vetta. Al di sotto sfuggiva l’esile cresta, nel grigio di un’alba livida e triste. Qualche raffica di vento neanche troppo freddo spazzava ogni tanto il grigiore e la cresta appariva veramente selvaggia.
Decisi che ci saremmo fermati ad aspettare, volevo fare la foto al Grand Combin e al grandioso Glacier du Grand Combin proprio da lì. Mi aspettavo di minuto in minuto di vedere la grande parete glaciale, il famoso e tragico Corridor della via normale a questa grande montagna, ma non succedeva nulla. Bernard a quel punto estrasse a sorpresa una bottiglia di vino bianco del Vallese che stappammo religiosamente e sorseggiammo fino all’ultima goccia, sempre sperando nella ormai remota possibilità di schiarita. Alla fine rinunciammo all’attesa e alla sosta che ci aveva infreddoliti a dispetto dell’alcol bevuto: un po’ debolucci di gambe e rigidi di membra affrontammo gli ultimi metri di cresta e giungemmo in vetta, dove peraltro sostavano già altre comitive giunte per la via normale.
Attendemmo ancora, ormai eravamo gli ultimi rimasti lassù e continuavamo a non vedere nulla. Verso le 10.30 decidemmo di scendere, anche se io ero un po’ timoroso di beccare l’ultima fregatura. Me la sentivo che ci sarebbe stata la schiarita, però pensavo che ormai il sole era troppo alto e che comunque la foto non sarebbe riuscita come volevo. Scendemmo velocemente quindi e, come quasi previsto, non appena giunti sul ghiacciaio, proprio nel cuore di questo stupendo ambiente di crepacci e di seracchi giganteschi, ecco che il cielo diventa azzurro, il sole ci colpisce subito, il panorama si apre su ogni montagna visibile ad eccezione di una sola: il Combin de Corbassière. Se fossimo rimasti sulla cima quel giorno non avremmo visto nulla, perché un’ostinata ed impertinente nuvola rimase per l’intera giornata a circondare proprio quella vetta.
Il sole splendeva radioso, come al solito accecante: qualche sbrendolo di nebbia giocava a drappeggiare qua e là il versante ghiacciato. Ma il sole era sempre visibile. Improvvisamente, mentre scattavo le fotografie, mi accorsi che a parità di tempo l’esposimetro mi segnalava la necessità di una maggiore apertura: prima un diaframma, e non ci volli fare caso, poi due, e lì fui costretto a cercare di capire perché. Al terzo diaframma in più richiesto, esclamai: ma c’è l’eclisse! E del resto il fenomeno era ormai evidente, perché un’ombra innaturale per quell’ora e per un sole così evidente e neppure un po’ velato si stava impadronendo del nostro mondo visibile. Sapevamo dell’eclisse, ma nessuno di noi due aveva pensato che proprio quello era il giorno e proprio quella era l’ora. Durò poco, ma fu emozionante: avevamo l’impressione che, sia pure solo per pochi attimi, il regolare corso delle cose d’alta montagna si fosse alterato. Dopo qualche minuto era come prima, ma io mi sentivo scosso e non era una sensazione spiacevole.
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Alessandro, grazie per avermi fatto scoprire questo gioiello. Complice il tuo articolo sulla rivista del CAI, nell’ estate del 2010 ho trascorso, nell’ unico alberghetto di Fionnay, alcuni giorni baciati da tempo splendido. Il grandioso lato oscuro del Grand Combin…