Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspers – parte 2

Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspersparte 2
di Petra Gogna
Tesi di Laurea Triennale di Petra Gogna, Matricola n. 796170, con Relatore Patrizia Pozzi, Anno Accademico 2013-2014 dell’Università degli Studi di Milano, Corso di Laurea in Filosofia.

Indice
1. Capitolo 1. Il Libro di Giobbe
2.     Capitolo 2. Kant e il male radicale
3.     Capitolo 3. La Trascendenza: Jaspers legge Kant
4.     Conclusione
5.     Bibliografia

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Giobbe, che conosce e ama Dio e la sua legge più degli amici, sa che Dio gli sta facendo effettivamente ingiustizia e alle parole degli amici che deducono la sua colpevolezza dal fatto che Dio lo sta punendo (“Giobbe è colpito da Dio, quindi è ingiusto”) oppone: “Dio mi colpisce, ma io sono giusto, quindi mi fa ingiustizia”. Parlando così, bisogna evidenziarlo, Giobbe non bestemmia Dio, anzi coglie in maniera quasi profetica la verità che il lettore conosce sin dal prologo: Dio ha permesso a Satana di provare Giobbe, benché lui fosse giusto. Giobbe, essendo e sapendo di essere un uomo giusto, tiene fede alla giustizia indipendentemente dalla benedizione o maledizione di Dio e nella suo lamento non chiede di sapere il perché delle sue sofferenze ma lo supplica di non dimenticarsi della sua parola di giustizia, in quanto crede fermamente nella sua legge.

In un climax ascendente in cui addebita a Dio tutte le sue sventure e disgrazie, al vv. 23 Giobbe attira l’attenzione degli amici sulle parole che ora pronuncerà: esse dovrebbero essere scritte sulla roccia, tanto è il valore che vi attribuisce.

(19, 23-27)
“Magari venissero scritte dunque le mie parole, magari fossero incise in un libro, con uno stilo di ferro e piombo fossero scolpite in un eterno sulla roccia! Ma io lo so: il mio vendicatore è vivo, e ultimo si alzerà sulla terra! E dietro la mia pelle disfaranno ciò, e dalla mia carne contemplerò Eloah: io me lo potrò contemplare, i miei occhi lo vedranno, non un altro! I miei reni si struggono nel mio seno!”

Il messaggio che ci trasmette è un messaggio di speranza, di fiducia: il vv 25 è forse il più famoso di tutta l’opera perché inneggia alla speranza, che è figlia della fede, nasce spontaneamente da una fede autentica; Giobbe attende e implora una risposta di Dio, poiché si fida ciecamente di lui, non smette mai di aver fede in Dio, non rinuncia neanche per un secondo all’idea d’incontrarsi con Dio e all’idea che la giustizia divina esista, nonostante tutto il mondo gli sia crollato addosso e non avendo quindi motivo alcuno per credere nella salvezza.

Immanuel Kant (1724-1804)

Il termine “vendicatore” è espresso in ebreo con “goel”, ed è un termine tecnico del diritto israelita che può essere reso anche con “riscattatore”. Il goel era una persona, spesso un parente, che aveva alcuni diritti particolari e precisi doveri: era il “vendicatore del sangue” che doveva far vendetta del parente ucciso in caso di omicidio (Dt 19, 6. 12; 2 Sa 14, 11) ; era colui che doveva riscattare i beni familiari perduti in casi particolari (Lv 25, 25; Rut 4, 4-6) ; era il redentore degli schiavi ebrei (Lv 25, 48). Il grande goel d’Israele era però Jahve, il quale come padre del popolo israelitico in virtù del patto d’alleanza, doveva vendicare il suo popolo dagli oppressori e ricondurlo in patria dall’esilio (Is 43, 14; 44, 6. 24) [1].

Giobbe è certo della sua liberazione, è certo di un avvenire migliore, è certo che vedrà Dio come amico; Sono gli amici, piuttosto, che devono temere: essi hanno peccato d’ingiustizia, di ira e di sdegno ingiustificati: “Temete la spada per voi stessi, perché l’ira è un delitto degno di spada, e così saprete che c’è un giudizio!” (19, 29)

Vediamo come egli abbandona l’atteggiamento di lamento e di protesta e si apre verso la speranza d’incontrare Dio. Questo incontro con Dio è ormai per lui l’unico desiderio, è crollata ogni pretesa di capire il perché delle sue sventure ed è rimasto solo il grido del fedele che chiede l’abbraccio di Dio e quindi l’unione con lui.

I cc. 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27 sono sempre all’insegna della disputa tra Giobbe e i tre amici, attraverso dialoghi carichi di domande esistenziali sulla provvidenza divina e il suo rapporto con l’umanità e il male, sul destino dei malvagi e sul male “radicale” che agli occhi di Giobbe pervade l’esistenza umana, non permettendo all’uomo di scrutare il disegno divino ma anzi incatenandolo alla sua misera e breve esistenza (cc 21 e 24).

Gli amici tentano di persuadere Giobbe che la virtù giova l’uomo e non certo Dio, che Dio umilia e purifica e che una sincera conversione gli ridarà la pace: “Riconciliati dunque con lui età in pace: ne avrai un buon guadagno; accetta la legge dalla sua bocca, e poni le sue parole nel tuo cuore. Se ritornerai a Shaddai sarai prospero” (Elifaz 22, 1-30).

Nella sua ultima risposta Giobbe continua a ribadire che le parole degli amici sono parole al vento, prive di un oggetto e che il suo cuore non lo rimprovera di nulla, la sorte riservata ai malvagi non spetta a lui ma ai suoi oppositori:

(27, 5-7)
5 Lungi da me che io mai vi dia ragione; fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità. 6 Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni. 7 Sia trattato come reo il mio nemico e il mio avversario come un ingiusto.

Il vv. 6 è molto importante perché mostra come per Giobbe la fedeltà alla sua integrità, alla legge e soprattutto alla verità, siano la cosa più importante, riconosce che hanno valore in sé e che solo la morta potrà interporsi tra lui e questi principi.

Al cc. 28 i dialoghi sono finiti. In questo capitolo troviamo un inno all’ingegno umano e alla sapienza divina che stempera il clima di pessimismo che avvolge gli intesi dialoghi precedenti. L’inno vuole sottolineare la grandezza e i limiti della ricerca umana, incapace di intendere e spiegare fino in fondo alcune situazioni “limite” della vita umana né la stessa esistenza dell’uomo: L’unico che conosce questi misteri è Dio. “Dunque dov’è il luogo dell’intelligenza, la sapienza da donde viene?” (28, 20). L’uomo sa trovare l’argento, l’oro, il ferro, sa scavare la terra e perforare le rocce, scoprire pietre preziose (28, 1-11) ma non riesce a scoprire la sapienza. Essa è inaccessibile a tutti i viventi: Dio solo la conosce e con essa ha organizzato l’universo (28, 21-27).

In questo inno vengono presentate due tipi di sapienza: una divina, inaccessibile all’uomo e prerogativa divina, e una pratica, adatta all’uomo, che consiste nell’arte che insegna all’uomo a ben comportarsi nell’attività familiare, sociale e religiosa e nella quale rientra quindi il culto di Dio e la fuga dal male.

Il cc. 29 si presenta come un lungo monologo di Giobbe, un soliloquio in cui il protagonista medita sulla felicità dei tempi passati, su tutte le opere virtuose e misericordiose che ha compiuto nel passato per le quali meritava un gran premio, non l’angoscia senza tregua del presente. “Non ho pianto forse per chi ha giorni difficili? Non si è rattristata la mia anima per il misero? Per questo ho sperato il bene, ma è venuto il male; Ho aspettato la luce, ma è venuta l’oscurità!” (30, 25-27).

Al cc. 32 compare un nuovo personaggio, i cui discorsi (cc. 32-37) s’innestano tra il soliloquio di Giobbe e l’intervento divino: costui è Elihu. Egli irrompe sulla scena con una sicurezza quasi impertinente, affermando di essere pieno di cose da dire e rimproverando ai tre amici di non essere stati abbastanza pugnaci. Nel cc. 33, 3 annuncia che “le sue asserzioni sono rette dal cuore” e che “la scienza delle sue labbra parlerà schietto” ma i suoi discorsi risulteranno comunque ridondanti e prolissi. La maggior parte degli studiosi ritiene questi discorsi un’aggiunta posteriore di un altro autore, oppure (ad es. il Gordis) un’aggiunta senile dello stesso autore. Luigi Moraldi suggerisce invece la possibilità che con questi capitoli l’autore abbia voluto offrire una sintesi di tutto ciò che può offrire la tradizionale e ristretta interpretazione del dolore umano[2]. Elihu riporta il succo dei discorsi di Giobbe e li confuta man mano: Giobbe si ritiene giusto, pensa che Dio l’abbia percosso senza motivo e che lo controlli in ogni sua mossa; Elihu, in risposta, afferma che l’inclinazione al peccato insita nella natura umana fa di Giobbe un reo di peccati personali, e, per il fatto che ha manifestato disprezzo verso Dio, lo assimila ai più grandi peccatori (34, 7-8), confuta la possibilità tanto acclamata da Giobbe che Dio debba rispondere a tutte le sue domande e riprende l’ammonimento dei tre amici che indicava il dolore fisico come il castigo e la correzione di Dio. In seguito riprende il discorso sulla retribuzione e sostiene che per nessun motivo Dio sovverte l’ordine di giustizia, egli retribuisce secondo il merito, perché la terra è sua e se ne prende cura, semplicemente la virtù non è premiata in questa vita:

(34, 9-12)
9 Poiché egli ha detto: «Non giova all’uomo essere in buona grazia con Dio». 10 Perciò ascoltatemi, uomini di senno: lungi da Dio l’iniquità e dall’Onnipotente l’ingiustizia! 11 Poiché egli ripaga l’uomo secondo il suo operato e fa trovare ad ognuno secondo la sua condotta. 12 In verità, Dio non agisce da ingiusto e l’Onnipotente non sovverte il diritto!

Proseguendo afferma con tono solenne che Dio castiga i malvagi, i ricchi e i potenti che fanno soffrire la povera gente (replicando così alla parole di Giobbe che precedentemente, nel cc. 24, sosteneva che i malvagi regnano ovunque indisturbati e che non solo Dio non li punisce ma permette anche che opprimano i deboli):

(34, 20-30)
20 In un istante muoiono e nel cuore della notte sono colpiti i potenti e periscono; e senza sforzo rimuove i tiranni, 21 poiché egli tiene gli occhi sulla condotta dell’uomo e vede tutti i suoi passi. 22 Non vi è tenebra, non densa oscurità, dove possano nascondersi i malfattori. 23 Poiché non si pone all’uomo un termine per comparire davanti a Dio in giudizio: 24 egli fiacca i potenti, senza fare inchieste, e colloca altri al loro posto. 25 Poiché conosce le loro opere, li travolge nella notte e sono schiacciati; 26 come malvagi li percuote, li colpisce alla vista di tutti; 27 perché si sono allontanati da lui e di tutte le sue vie non si sono curati, 28 sì da far giungere fino a lui il grido dell’oppresso e fargli udire il lamento dei poveri. 29 Se egli tace, chi lo può condannare? Se vela la faccia, chi lo può vedere? Ma sulle nazioni e sugli individui egli veglia, 30 perché non regni un uomo perverso, perché il popolo non abbia inciampi.

Sul finire del suo discorso, Elihu chiama Giobbe alla contemplazione delle meraviglie della natura e della grandezza di Dio, che non è toccata dai propositi degli uomini, anticipando il discorso di Jahve sulla creazione e la sua maestosità. Termina esaltando la rettitudine, la misericordia e la trascendenza di Dio:

(37, 23, 24)
23 L’Onnipotente noi non lo possiamo raggiungere, sublime in potenza e rettitudine e grande per giustizia: egli non ha da rispondere. 24 Perciò gli uomini lo temono: a lui la venerazione di tutti i saggi di mente.

Arriviamo ora ai discorsi di Dio che si dividono in due parti: cc. 38-39 e cc. 40-41. Da un vortice tempestoso, caratteristico di altre teofanie (Sal 18, 8-16; 50, 3), Jahve risponde a Giobbe, con uno tra i poemi più belli sulla creazione, scandendo ogni descrizione con tante domande retoriche rivolte a lui

(38, 1-3)
1 Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: 2 Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? 3 Cingiti i fianchi come un prode, io t’interrogherò e tu mi istruirai.

Dio chiede ironicamente a Giobbe dove fosse, mentre lui, unico architetto, dava vita e forma al cosmo: chi ha posto le fondamenta della terra? chi ha arrestato il mare primordiale, lo ha fasciato come un bambino e ha spezzato l’orgoglio dei suoi flutti? chi ha fatto sorgere l’aurora e scacciato le tenebre primordiali? (38, 4-18)

Jahve ripercorre le meraviglie della creazione, raccontando di come il cosmo si organizza alla sua parola, passa in rassegna i fenomeni naturali come la luce, il buio, la neve e la grandine, poi le costellazioni, sempre chiedendo in modo sarcastico a Giobbe se può anche lui “allentare le funi di Orione?” oppure se è lui a “far uscire l’orsa con i suoi figli?” o se può lui “alzare la sua voce fino alle nubi per farsi ricopre da un’alluvione?”. Infatti è Dio, non Giobbe, che chiede alle nubi che facciano piovere, è Dio che “ha posto nell’Ibis la sapienza”. Jahve prosegue descrivendo gli animali più belli, selvaggi e indomabili come gli stambecchi della roccia, il bufalo, lo struzzo, il cavallo, lo sparviero e continua a domandare a Giobbe: “sai tu quando figliano le stambecchi della roccia, assisti tu il parto delle cerve?” e ancora “potrai legare il bufalo col tuo capestro? “cioè potrai tu addomesticare il bufalo, animale particolarmente selvaggio? Certamente no, perché non è possibile addomesticarlo; e anche in ciò, in questa impossibilità, vi è il segno della potenza di Dio, che coordina con la sua parola i grandi fenomeni naturali e che ha creato questi animali.

Questa rassegna delle bellezze della natura, non è sicuramente la risposta logica e razionale che Giobbe si aspettava dal suo Signore, ma è una risposta che vuole insegnargli il ribaltamento di prospettiva, spostare cioè la sua attenzione dalla sua condizione ad un visione d’insieme, omnicomprensiva di tutte quelle cose e quegli oggetti che abitano il Presente, una visione di portata cosmica: Giobbe credeva di poter giudicare l’operato di Dio, mentre invece non riesce a capire nemmeno tanti fenomeni che ha di fronte tutti i giorni.

Giobbe non comprenderà mai, ma potrà sempre e solo intuire, la sapienza che Dio ha adoperato nel regolare il cosmo secondo armonia, dopo aver vinto il caos, e che questa “sapienza” è la giustizia cosmica: questa è stata impressa da Dio nel cosmo, è l’ordine e la misura che egli impone alle cose e dal momento che l’uomo è iscritto dentro l’ordine della natura e il suo punto di vista sarà sempre relativo alla sua condizione e mai assoluto, questa sapienza e soprattutto la sua logica rimangono imperscrutabili per l’uomo. Jahve dipinge l’immagine di un cosmo pieno di senso e questo senso è la sua sapienza, che fissa ordine e giustizia in ogni cosa.

All’inzio del suo secondo discorso Jahve rimprovera Giobbe:

(40, 6-9)
6 Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine e disse: 7 Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai. 8 Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione? 9 Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?

Alonso Schökel[3] e Paul Ricoeur[4], si sono soffermati su questi ultimi capitoli del Libro ed entrambi danno un’interpretazione della risposta divina: Alonso ammette che Dio possa dare l’impressione di voler solamente schiacciare Giobbe sotto il peso della sua onnipotenza, quando descrive la sua potenza attraverso il racconto della creazione, ma ritiene che questa interpretazione sia superficiale e che a suo avviso Dio voglia solo rendere Giobbe cosciente della sua ignoranza e della sua impotenza, “non per schiacciarlo e lasciarlo sdegnosamente senza risposta, ma per collocarlo al suo posto esatto, con la prospettiva corretta per confrontarsi con Dio”[5].

Sempre sul tema dell’onnipotenza e della saggezza divina espressa in questi capitoli finali, P. Ricoeur scrive: “la sofferenza non è spiegata da Dio né eticamente né altrimenti: ma la contemplazione del tutto abbozza un movimento che deve essere completato con labbandono di una pretesa; col sacrificio dellesigenza che era allorigine della recriminazione, cioè la pretesa di formare solo per sé un isolotto di senso delluniverso, un impero in un impero”[6].

La risposta di Dio traspone il problema della giustizia divina staccandola dalla sua applicazione prettamente “umana”, che inevitabilmente ha prodotto, attraverso l’applicazione morale del principio di giustizia, definizioni di ciò che è bene e ciò che è male, giusto o sbagliato, che rimangono quindi relativi alla sfera umana, inserendola nella prospettiva totalizzante del progetto divino, di cui l’uomo è solo una piccola parte e in cui bene e male assumono un senso molto distante dal nostro, così distante che risulta praticamente incomprensibile. Prima di chiamare Dio ingiusto, si contemplino le bellezze della natura e la perfezione dell’universo, perché anche e soprattutto in queste Dio ha impiegato la sua giustizia e la sua sapienza per creare equilibrio. Questa giustizia cosmica è relativa a Dio e alla sua saggezza, non all’uomo, poiché egli che ha inscritto nel suo cuore i principi della giustizia divina, ma il suo punto di vista sarà sempre relativo, parziale, soggettivo.

Davanti a questa possente rivelazione di Dio, a Giobbe non resta altro da fare che riconoscere la sua onnipotenza:

(42, 1-6)
1 Allora Giobbe rispose al Signore e disse: 2 Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. 3 Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. 4 «Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu istruiscimi». 5 Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. 6 Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.

Egli ora “vede” Dio, nel senso che sente la sua presenza, sente la potenza divina dentro di lui e allo stesso tempo vede la trascendenza del suo essere e del suo disegno.

Nel riconoscere l’onnipotente e il suo disegno, Giobbe “spiega” la sua sofferenza: intuisce che Dio può compiere azioni che appaiono incomprensibili e che anche nel suo caso sventurato Dio ha agito, sì, in modo incomprensibile, ma secondo la sua ragione che all’uomo sfugge.

Non basta conoscere Dio razionalmente o secondo quello che dice la dottrina tradizionale perché questo modo è limitato, incompleto. Ora che ha intuito la grandezza imperscrutabile di Dio, Giobbe si pente di aver parlato con imprudenza in merito a questioni molto più grandi di lui e l’onnipotente lo ripristina nella prosperità di un tempo:

(40, 7-17)
7 Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. 8 Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». 9 Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe. 10 Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. 11 Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d’oro. 12 Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13 Ebbe anche sette figli e tre figlie. 14 A una mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio. 15 In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli. 16 Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. 17 Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.

È da sottolineare il fatto che Giobbe non si pente per i peccati che non ha commesso (come gli consigliavano di fare gli amici) ma si pente per non esser stato abbastanza paziente e fiducioso, o come direbbe P. Ricoeur, per non “essere riuscito a credere in Dio per nulla[7].

È quindi dopo aver compreso il divario incolmabile che sussiste tra l’umano lamento e il divino progetto, tra la ristretta saggezza umana e l’onnipotenza di quella divina, alla quale egli si inchina una volta per tutte con fede incondizionata, che “Giobbe può amare Dio per nulla, di contro alla scommessa di Satana nel prologo del racconto in cui la discussione è inserita”[8]. Pentendosi e affidandosi completamente a Dio, Giobbe esce completamente dal ciclo della retribuzione, di cui il suo lamento era ancora prigioniero, e capisce che “l’accusa contro Dio è frutto dell’impazienza della speranza”[9].

Amare Dio per nulla, vuol dire riconoscere la sua santità e la sua bontà a priori, al di là delle “prove” che possiamo trovare nell’esperienza, al di là dei premi che egli ci invia e quindi anche al di là delle sofferenze.

 Giobbe è davvero l’esempio del fedele che “ama Dio per nulla”, perché nonostante la sua immensa sofferenza rimane fedele a Dio e alla sua giustizia, e questo perché la sua fede in Dio si fonda su quel senso di giustizia che sente dentro di lui, su quella legge morale e sul suo carattere imperativo, che non gli permettono, neanche per un secondo, di dubitare della giustizia del Signore.

A questo proposito, Immanuel Kant, nei suoi scritti di filosofia della religione, si riferisce proprio al Libro di Giobbe, come esempio di “teodicea autentica” e cioè di come si possa “sostenere la causa di Dio” e dimostrare la sua suprema saggezza non a partire da ciò che si ricava dall’esperienza di questo mondo, come pretendono gli amici con le loro teorie retributive, ma mediante la sola fede nella giustizia divina e quindi attraverso il rifiuto a priori delle accuse che la nostra ragione -prendendo per legge assoluta ciò che è legge solo per gli uomini- rivolge a Dio, rifiuto dettato da un’autentica fede nella legge morale dentro ognuno di noi, quello stesso rifiuto che dall’inizio alla fine rimarrà imperativo per Giobbe (il quale, infatti, non perderà mai la speranza nell’arrivo e nella giustizia del suo Signore).

Passiamo dunque al secondo capitolo per trattare più da vicino le considerazioni del filosofo dell’Aufklärung in merito al Libro, da cui egli prende le mosse per formulare e promuovere diverse teorie in materia di filosofia della religione.

Capitolo 2. Kant e il male radicale
Con il termine “teodicea” s’intende quel ramo della teologia che tratta la dottrina della giustizia di Dio, con lo scopo di offrire una «giustificazione di Dio» rispetto al problema della sussistenza del male nel mondo e del libero arbitrio umano. In questo ambito molti studiosi, da Sant’Agostino a Bayle, fino ad arrivare a Leibniz e Kant, si sono espressi con interpretazioni diverse in merito alla difesa di Dio, offrendo ogni volta una chiave di lettura particolare rispetto al problema e mostrando come questo tema sia un terreno molto fecondo per la trattazione filosofica perché si rivela essere un importante crocevia tra teologia, filosofia, etica e storia.

Vogliamo qui prendere in considerazione la trattazione kantiana sul problema di teodicea, che nel 18° sec, dopo la pubblicazione di Leibniz dell’opera Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal nel 1710, fu un argomento che riscosse molto interesse e sul quale appunto anche il filosofo illuminista sentì il bisogno di confrontarsi, giungendo così a proporre la sua visione di come dev’essere impostato il problema della giustizia di Dio e proponendo come esempio della sua teodicea “autentica” proprio il paradigma di Giobbe.

Lo scritto in discussione è un saggio intitolato Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791) in cui Kant dimostra il fallimento dei tentativi di ogni teodicea di accordare la presenza del male nel mondo con la bontà e la giustizia divina, affermando che il fatto che non si possa dimostrare questo accordo non significa che abbiano ragione quelli che sostengono che tra questi due termini ci sia un contrasto insanabile, ma semplicemente che bisogna fare a questo proposito una considerazione di principio, che è anche la sua tesi di fondo: cioè che la nostra ragione è assolutamente incapace d’intendere il rapporto fra il mondo come ci è dato nell’esperienza e la sapienza suprema che lo regge.

Proprio partendo dal tema della saggezza divina, nella prima nota del saggio, Kant sottolinea una distinzione da tener presente: vi è una “saggezza artistica” del Creatore, un’arte divina che si manifesta nel governo di questo mondo, alla quale possiamo avvicinarci nell’esperienza e di cui possiamo ammetterne razionalmente la realtà obbiettiva, con la fisico-teologia attraverso la considerazione teleologica della natura; vi è poi una “saggezza morale” del Creatore, che riguarda la sua volontà, alla quale però non si può “concludere dalla prima, poiché le leggi della natura e le leggi morali implicano principi del tutto diversi e la prova di quest’ultima dev’essere condotta del tutto a priori e non può essere fondata sull’esperienza di ciò che accade nel mondo”[10]. Proseguendo, dirà che se il concetto di Dio per essere valido per la religione, dev’essere un concetto di Dio come Essere morale, e se questo concetto non possiamo fondarlo sull’esperienza, “è sufficientemente chiaro che la prova di un tale Essere morale non può essere che la prova morale”[11].

Cerchiamo ora di spiegare meglio: con “prova morale a priori” Kant intende che la teodicea non può essere risolta sul piano teoretico-dottrinale con argomentazioni serrate e rigorose, quasi “scientifiche” sulla natura e sull’esperienza che di questa abbiamo, ma deve essere invece risolta “a priori” attraverso l’uso della ragione, nel suo senso pratico.

Prima di spiegare cosa sia esattamente la prova morale della teodicea autentica, ne La religione entro i limiti della ragione Kant propone una genealogia della religione, dimostrando come religione e morale siano connesse: egli prende l’avvio proprio dall’affermazione che la morale di per sé non ha bisogno di appoggiarsi sulla religione, poiché è fondata sull’idea di uomo come “essere libero” che “mediante la ragione” avverte il dovere di sottoporsi a leggi incondizionate, e perciò “non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempirlo”.

La ragione umana, nel suo uso pratico, è in grado di determinare la volontà incondizionatamente, cioè in modo indifferente alle circostanze esteriori, indipendentemente dalla sensibilità: questo è il senso della “legge morale dentro di me”, di quel “tu devi” che richiama il singolo all’incondizionatezza, frutto dell’esigenza della ragione umana di vivere l’essere e l’agire come legati ad un fine, ad un universale, e che recita infatti così: “Agisci in modo che la massima della tua azione possa essere elevata a norma di una legge universale”. È la ragione dunque a dare la forma della legge, del dovere, alla massima, e questa deve avere necessariamente il connotato dell’incondizionatezza perché rappresenta l’alternativa pratica all’altra disposizione presente nella ragione umana, che segue gli impulsi sensibili e che è quindi inevitabilmente condizionata.

Di queste due disposizioni della ragion pratica parleremo tra poco, per ora dobbiamo sottolineare che Kant ritiene che l’autodeterminarsi in base al dovere che compie la ragione abbia come conseguenza necessaria la posizione di un fine, e che quindi la morale nel suo attuarsi comporti l’idea di un sommo bene nel mondo, la cui possibilità esige un essere morale supremo e onnipotente; questa idea, precisa il filosofo, è un’estensione del concetto di bene che la nostra ragione compie per via del suo “modus operandi” cioè a causa della sua “tendenza naturale” a leggere gli eventi secondo lo schema di causa-effetto e quindi a compiere il cammino che da un fenomeno contingente porta ad un altro fenomeno che ne è la causa proseguendo fino a trovare un causa in sé necessaria e incondizionata.

È questo il presupposto su cui si fonda la concezione kantiana della profonda correlazione tra morale e religione, infatti per Kant la religione ha un statuto essenzialmente pratico, anzi costituisce il rafforzamento pratico della morale: egli è convinto che sia insito nell’uomo “il bisogno naturale di concepire, per la nostra condotta, un fine ultimo che possa essere giustificato dalla ragione; bisogno che sarebbe, senza di ciò, – senza l’idea di sommo bene – un ostacolo per la risoluzione morale”[12]. Sulla base di ciò Kant afferma che “la morale conduce inevitabilmente alla religione”[13], concependo l’idea di un legislatore morale onnipotente, quell’ente che contiene originariamente in sé la ragione sufficiente per ogni effetto possibile [14]”.

Seppur riconosca che questa tendenza a ricercare un fine ultimo sia inevitabile e, anzi, propedeutica all’adempimento del dovere morale in quanto necessità logica della nostra ragione, è proprio questa tendenza della ragione a creare idee trascendenti che non hanno nessuno statuto teoretico né pratico, in quanto accessorie, che dobbiamo tener presente ed eventualmente indagare quando ci addentriamo nell’ambito di teodicea.

Il concetto di Dio come suprema realtà, concetto che non comporta secondo Kant il postulato della sua esistenza ma solo della sua possibile esistenza in nessun modo dimostrabile, corrisponde in ultima analisi ad un bisogno del soggetto razionale che scaturisce dal suo agire conforme alla legge morale e dunque la fede in Dio e soprattutto in un Dio moralmente saggio non si può fondare sull’esperienza, ma si deve fondare sulla nostra stessa moralità, in quanto è proprio quest’ultima che “crea il concetto di sommo bene nel mondo e dunque di un Dio moralmente buono e onnipotente”: solo riflettendo sulla legge che è in noi, si può attuare una vera propria teodicea “autentica”, opposta a quella “dottrinale”e “a posteriori” che “cerca di enucleare per via di argomentazione quella divina volontà a partire dalle espressioni di cui essa si è servita”[15].

Per Kant è proprio questo tipo di “teodicea autentica” in cui la fede nasce ai limiti della ragione (pratica) e quindi dai e sui limiti morali dell’uomo, quello che il Libro di Giobbe vuole significare, cioè una giustificazione della saggezza di Dio che ha fondamenti solo pratici, forniti dalla testimonianza della coscienza dei limiti morali e non solo dell’uomo.

Kant sottolinea come caratteristica essenziale di Giobbe il fatto che egli è in pace con sé medesimo e in buona coscienza dall’inizio alla fine del dramma ed è questa sincerità di cuore che trionferà sui giudizi menzogneri degli amici. Quest’ultimi impersonificano l’ipocrisia di ogni teodicea dottrinale che si propone di interpretare la volontà di Dio per via deduttiva sulla base di ciò che l’esperienza presenta, e non per via interiore affidandosi alla propria ragione e a ciò che la coscienza suggerisce, e lo si vede bene da come giudicano che egli in “qualche cosa dev’essere pur colpevole”, poiché non sanno trovare nulla che possa effettivamente essere addossato come colpa allo sventurato; questo voler a tutti costi sostenere la causa divina e il continuo simulare una convinzione che non hanno sinceramente solo per compiacere Dio, rende chiaro che ed essi sta più a cuore l’ottenere il favore divino che la verità e la giustizia in sé.

La loro cieca adulazione del Signore, che rivela il fatto che essi oltre a dire menzogne al povero amico sofferente, in primis le dicono a loro stessi – e su questo aspetto ritorneremo più avanti, perché Kant indicherà questa doppiezza d’animo, tendenza comune a tutti gli uomini, come il male morale dell’umanità -, urta con l’assoluta franchezza e sincerità di Giobbe, alle quali per nessun motivo egli vuole venir meno: rinunciarvi sarebbe tradire quella legge che sola gli parla di un Dio saggio, precludendosi così l’unica ragione per credere in Lui.

Questa è la teodicea autentica di Giobbe, che si piega di fronte ai disegni misteriosi di Dio mantenendo intatta la sua fiducia in esso in nome di quell’esigenza morale che a nessun costo vuole tradire[16] ed è con questo atteggiamento che“egli mostrava di non fondare la sua moralità sulla fede ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede, per quanto debole possa essere, è di una specie più pura e autentica d’ogni altra, tale cioè da fondare una religione che non consiste nella ricerca di favori, ma nella buona condotta”[17].

È infatti la buona condotta di Giobbe, sempre fedele alla legge che gli parla da dentro, ad essere premiata da Dio alla fine del libro, mentre gli amici e le loro parole ingiuste e impietose saranno condannate.

Kant rileva in Giobbe l’esempio di quella morale autonoma e formale, già postulata nella Critica della ragion pratica, come “morale non-retributiva”, per cui l’azione giusta vale per sé stessa ed è indipendente da ricompense o castighi: egli infatti scegliendo di non tradire la sua coscienza e di rimanere fedele alla legge morale dentro di lui, compie l’azione giusta per la doverosità che le è intrinseca e rende emblematico quell’ideale kantiano di “religione razionale morale”, appunto una religione considerata dentro l’orizzonte della coscienza, una religione fondata sulla ragione, che si basa su una fede “razionale”.

La religione razionale morale, che è l’unica vera religione per Kant, nasce dall’autodeterminazione libera in base al dovere morale e dall’“estensione” che la nostra ragione opera nel porre come fine di questa autodeterminazione un fine ultimo e ideale, che in linea teorica ha una validità universale nei confronti di tutte le possibili configurazioni storiche della religione e che nello specifico caso di quella giudaico-cristiana si configura come “Dio”.

Ritornando a Giobbe: cos’é che rende il suo comportamento un esempio esemplificativo della “morale autentica kantiana”? La sua intenzione.

Giobbe sa di voler parlare con Dio non per irriverenza o tracotanza ma solo perché tiene più di ogni altra cosa alla sincerità e alla giustizia, e perché la sua unica intenzione è quella di dimostrare questa sincerità di cuore al suo Signore; egli non si cura delle conseguenze ma fa riferimento solo a quell’imperativo categorico che dentro di lui gli impone di non cedere e di continuare a sperare nell’arrivo e nell’abbraccio di Dio.

Riprendendo le parole di P. Ricoeur “amare Dio per nulla”, kantianamente significa “seguire la legge morale come unico movente nel proprio agire”; questo è proprio quello che fa Giobbe compiendo l’azione morale disinteressata e autonoma, dunque il Libro secondo Kant mostra come proprio la sincerità e la buona intenzione vengono premiate da Dio, infatti conclude il saggio dicendo che “la sincerità di cuore e non l’eccellenza del conoscere, l’onestà di confessare i propri dubbi apertamente e la ripugnanza a fingere ipocritamente convinzioni non sentite e soprattutto di fronte a Dio, con il quale è folle voler giocare d’astuzia, queste sono le qualità che nel giudizio divino hanno deciso la superiorità dell’onesto, nella persona di Giobbe, nei confronti dell’ipocrisia religiosa”[18].

Nella nota conclusiva del saggio, Kant anticipa l’argomento del male “radicale” insito nell’uomo, che sarà il tema principale dei primi due capitoli dell’opera (di poco successiva al saggio) intitolata La religione entro i limiti della semplice ragione.

Questa tematica è fortemente presente nel Libro di Giobbe, sia perché, trattando questo della giustizia divina, l’accostamento al male e al peccato dell’uomo, era necessario, sia perché il dolore di Giobbe s’inserisce nell’orizzonte del male e della sofferenza di cui l’umanità intera risulta impregnata, e quindi molto spesso il discorso, pur partendo dalla situazione personale di Giobbe, sfocia in considerazioni sul male “radicale” della natura umana e sulla naturale tendenza all’errore insita nella nostra indole.

Tornando alla nota conclusiva del saggio, il filosofo parte da quella sincerità che nelle pagine precedenti aveva stabilito essere, in materia di fede, l’elemento fondamentale e imprescindibile per una teodicea autentica, per quanto riguarda l’ammissione dell’impotenza della nostra ragione davanti alla saggezza divina e l’onesta di non falsare i propri pensieri nell’enunciarli, e senza tanti giri di parole Kant evidenzia come questa sincerità richiesta dalla morale sia in contrasto con la tendenza alla falsità e alla doppiezza che individua come “il vizio capitale della natura umana”[19].

Non si può garantire sempre che ciò si afferma sia vero, infatti ci si può sbagliare, e ne conseguirà che l’affermazione in questione risulterà falsa perché non corrispondente all’oggetto a cui si riferisce, ma si può (e per Kant si deve) garantire sempre che quello che si dice sia vero almeno per la propria coscienza, e nel caso in cui questo non avvenga, succede che si mente perché si dice qualcosa di diverso da ciò di cui siamo convinti.

Kant è chiaro: “Posso certo sbagliarmi nel giudizio, in cui credo di avere ragione (…) ma sulla coscienza se io di fatto credo di aver ragione non posso assolutamente sbagliare, perché questo giudizio o piuttosto questa proposizione, dice semplicemente che io così giudico l’oggetto” [20].

Per Kant colui che di fronte a sé stesso, e quindi di fronte a Dio, dice di credere una cosa senza preoccuparsi di guardare dentro di sé per assicurarsi di essere veramente consapevole di questa convinzione, “non solo proferisce la menzogna più insensata nei confronti di Colui che sa legger nei nostri cuori, ma anche la menzogna più empia, perché essa attenta al fondamento di ogni proposito virtuoso, la sincerità.”

Questo è proprio il caso degli amici di Giobbe i quali non difendono la rettitudine di Giobbe, che sanno essere innocente, non danno ascolto alla propria coscienza e si preoccupano solamente di compiacere Dio, poiché gli stava più a cuore il favore divino della verità, e simulano così una convinzione (quella della colpevolezza di Giobbe) che in realtà non avevano e mostrando di essere completamente in malafede, mentendo in primis a sé stessi.

Emerge dunque come fondamentale nel saggio la coppia di contrari “sincerità/menzogna”, poiché è proprio la menzogna per Kant quell’“l’impurità che giace nel più profondo segreto del cuore umano”[21], è il mentire interiormente alla propria coscienza quella “spiacevole tendenza ad una sottile falsità”, cioè il male radicato nella natura umana.

È fondamentale sottolineare che per Kant questo male radicale nella natura umana è morale, poiché ha a che fare con la coscienza e con la libertà di scegliere le nostre azioni, quindi nasce e si sviluppa unicamente nella sfera pratica, ed è proprio per questo che è detto “morale”: per Kant è fondamentale spostare il problema del male dal piano metafisico, sul quale inevitabilmente era accostato al concetto di Dio, al piano umano della sfera pratica e quindi della scelta e dell’azione libera dell’uomo, sottolineando così la sua specificità di male “voluto” o “compiuto”, opposto alla passività del male “ricevuto” e “sofferto” tipica della concezione che fa del male un’entità o un principio metafisico; in questo Kant è molto vicino alla posizione di Sant’Agostino il quale altrettanto svincola Dio dalla problematica del male, negando l’esistenza del male “sostanziale”, affermando che il male può essere solo morale e quindi legato alla sfera del libero arbitrio: “Donde viene che noi facciamo il male?”.

Come nota P. Ricoeur, “come Agostino e forse come il pensiero mitico, Kant ha visto il fondo demoniaco della libertà umana”[22]; se però da una parte in Agostino il male è legato ad un “nihil privativum” cioè un “niente di genere” di cui la caduta è completamente responsabile e che quindi è legato al concetto di peccato originale, dall’altra in Kant la problematica del male radicale rompe con quella del peccato originale: infatti il principio del male non è assolutamente un’origine, nel senso temporale del termine ma è solamente la massima suprema che serve da fondamento soggettivo ultimo a tutte le massime malvagie della nostra volontà, una regola diversa da quella morale che l’individuo liberamente sceglie di adottare come massima delle sue azioni.

La problematica del male radicale è trattata da Kant nel libro La religione entro i limiti della semplice ragione in cui, nei primi due capitoli, egli spiega che il principio del male non è da ricercare al di fuori dell’uomo poiché questo si trova al suo interno: quest’affermazione trova la sua spiegazione nella visione antropologica di Kant che è legata alla convinzione che nella natura umana ci sia la compresenza del principio del bene e del principio del male e che qualifica l’esistenza umana come terreno di lotta tra i due principi, tanto nella coscienza di ogni uomo quanto nella storia dell’umanità intera.

La convinzione kantiana della compresenza di entrambi i principi fa sì che questi siano mescolati nella costituzione umana e da questa mescolanza Kant lascia intravedere un dualismo ontologico di fondo che fa della natura umana né tutta buona né tutta cattiva, poiché, come egli afferma, sul piano trascendentale la disposizione al bene e la tendenza al male si contrappongono in modo assoluto ma sul piano fenomenico, storico-empirico, vige – come tra l’altro ha osservato Troeltsch – una “contiguità conflittuale di bene e male[23]”.

Vediamo meglio cosa intenda Kant per questi due principi: per principio buono egli intende la predisposizione (Anlage) al bene costitutiva della buona volontà, predisposta all’obbedienza di quell’unico movente valido in sé stesso che è la legge morale, per principio cattivo, invece, intende la tendenza o propensione (Hang) di tutto il genere umano al male, che per lui è morale e che quindi risulta nell’interporre tra la coscienza e l’arbitrio altri moventi diversi dalla legge morale in sé, cioè la deviazione delle massime dalla legge morale.

Usando il termine “tendenza” Kant vuole sottolineare come quella del male sia all’inizio solo una possibilità innata, a priori, quindi “in potenza”, e non potrebbe essere altrimenti perché essa si fonda sulle leggi della libertà e rappresenta la condizione formale di ogni atto illegale, precedente ad ogni fatto; solo quando l’uomo alimenta questa tendenza (Hang) attraverso una libera decisione, essa si trasforma in una vera e propria opposizione alla legge morale e rivela il suo carattere “attivo”, diventando una vera e propria inclinazione o vizio: la tendenza è universale, l’inclinazione e il vizio sono contingenti, sono “fatti” conoscibili empiricamente e imputabili “ad personam”, quindi il male morale è attuabile e possibile solo con la determinazione del libero arbitrio e consiste nella deviazione arbitraria delle massime dalla legge morale.

L’universalità di questa tendenza è intimamente legata alla natura umana: per “natura dell’uomo” il filosofo intende la libertà, o meglio il fondamento soggettivo dell’uso della libertà, quindi la natura dell’uomo è di essere dotato di libero arbitrio; ma questa libertà è giocoforza in relazione alla legge morale, poiché è precisamente libertà di conformarsi o meno alla legge morale, in quanto la stessa accettazione della legge è un atto libero.

Il male radicale è la tendenza, insita nella radice stessa di essere uomo, cioè nella libertà, ad essere un atto che produce un agire difforme dalla legge morale, cioè a subordinare quest’ultima ad altri moventi della volontà; quindi, ricapitolando, se non ci fosse libertà nell’uomo, non ci potrebbe neanche essere la libertà di scegliere il male. Proprio perché l’uomo è libero di scegliere può scegliere il male.

La libertà assume per Kant una posizione cruciale, non solo in merito alla questione del male, ma in generale rispetto all’etica: la libertà è la condizione della legge morale, è ratio essendi della legge morale e la legge morale è la ratio conoscendi della libertà: solo se decidiamo (liberamente) di seguire la legge morale, che è già data in noi, allora capiamo di essere liberi di farlo, poiché potremmo anche non farlo. Chi deve fare una cosa, deve “poterla fare”: “devi, dunque puoi; puoi perché devi”. Il “darsi” un dovere implica la “libertà”, quindi secondo questo ragionamento, la condizione perché sia possibile un imperativo categorico è che la volontà sia libera.

Per “altri moventi della volontà” Kant intende tutte le inclinazioni sensibili che si presentano quotidianamente all’uomo come alternativa rispetto al dovere morale, in merito alla spiegazione di queste egli suddivide le disposizioni della personalità umana in due tipi di disposizioni principali: l’inclinazione all’amore di sé, un’eco roussoniano, che è un principio soggettivo caratterizzato dalla disposizione all’animalità, che in quanto tale dipende soprattutto dalla nostra sensibilità, comprendendo la maggior parte dei nostri istinti vitali ed inclinazioni sensibili come la conservazione personale, l’istinto sessuale, l’istinto sociale, l’istinto al confronto con gli altri, e che quindi è un’inclinazione dominata dalla necessità e moralmente indifferente.

Su questo amor di sé possono innestarsi vizi d’ogni genere: l’intemperanza, la lussuria, la gelosia, la rivalità, l’ingratitudine etc. in generale quelli che Kant chiama “i vizi della cultura” poiché non derivano propriamente dalla natura, ma è per il timore che qualcuno acquisti su di noi una superiorità da noi odiata che si manifestano come nostre inclinazioni.

La seconda inclinazione dell’uomo è quella che Kant chiama “disposizione alla personalità”, che è la disposizione morale dell’uomo grazie alla quale egli fa uso della ragione e riflette, ed è grazie a questa che egli si può distanziare dall’immediata vita naturale animale, caratteristica dell’inclinazione all’amore di sé, prende congedo dallo stato di natura dove la morale è assente e acquista la libertà, il poter scegliere e quindi la responsabilità delle proprie azioni.

La disposizione morale si configura quindi come la capacità di sentire per la legge morale un rispetto che sia movente dell’arbitrio, sufficiente per se stesso, ed è la disposizione grazie alla quale l’uomo può scegliere di non seguire le inclinazioni sensibili e di scegliere liberamente di seguire il comando morale. Questa capacità di provare rispetto incondizionato per la legge morale è il sentimento morale.

Entrambe queste disposizioni sono originarie e, perché pertinenti alla possibilità della natura umana, sono disposizioni al bene; ora, dicevamo prima, il male morale viene ad identificarsi come l’allontanamento dalla legge morale come unico movente per quanto riguarda le nostre scelte e si può dire che quindi l’uomo cattivo, per Kant, è l’uomo che è consapevole della legge morale ed ha tuttavia adottato per massima quella di allontanarsi da questa legge.

Kant fa una chiarificazione importante: l’uomo non trasgredisce la legge morale per spirito di rivolta, come per un semplice rifiuto di obbedienza, in quanto questa legge s’impone irresistibilmente alla sua coscienza in virtù di quella “disposizione alla personalità” sopracitata, cioè la disposizione morale che egli ha; se nessun altro movente lo spingesse in senso contrario, l’uomo assumerebbe unicamente la legge nella sua massima suprema come principio sufficiente di determinazione dell’arbitrio, e per questo egli sarebbe moralmente buono. Egli però, in virtù dell’altra “disposizione all’amor di sé”, ugualmente naturale ed innocente, dipende anche dai moventi della sensibilità e li accoglie anch’essi nella sua massima: se l’uomo li accogliesse nella sua massima come sufficienti per sé soli alla determinazione dell’arbitrio, cioè senza minimamente curarsi della legge morale sarebbe moralmente cattivo. Ma siccome egli per natura accetta nella sua massima entrambi questi moventi, la differenza fra un uomo buono e uno cattivo sta nel modo di subordinazione di questi moventi, cioè come dice Kant: “basta vedere quale dei due moventi egli faccia condizione dell’altro”[24]. Infatti legge morale e amor di sé sono due moventi che non possono sussistere coordinati l’uno con l’altro e necessitano per forza di un rapporto di subordinazione, quindi l’amor di sé adottato come principio di tutte le massime è precisamente la fonte di ogni male e l’uomo cattivo è colui che prende il movente dell’amor di sé e le sue inclinazioni a soddisfazione della legge morale; l’uomo buono invece pone la legge morale come condizione suprema della soddisfazione delle inclinazioni sensibili e l’accetta come unico movente nella massima generale dell’arbitrio. Kant è chiaro: “Se vi è nella natura umana una tendenza a quest’inversione, vi è allora nell’uomo una tendenza naturale al male, e questa stessa tendenza è moralmente cattiva, perché bisogna che sia cercata in un libero arbitrio ed è quindi suscettibile d’imputazione”[25].

È evidente come per Kant il problema del male proviene dalla libertà, la stessa libertà che permette di scegliere la legge morale come movente, e quindi di fare il bene: il male proviene dallo stesso principio da cui si effonde anche il bene.

Per Kant se ci chiediamo cosa spinge l’uomo a scegliere una massima anziché un’altra, non possiamo fare ricorso a cause oggettive, naturali o esterne perché negheremmo la libertà che è intrinseca alla nostra natura: per questo il bene e il male sono innati nell’uomo, poiché egli porta in sé un principio primo, la libertà, in virtù del quale adotta massime buone o cattive.

Per la filosofia stoica il male è da individuarsi in un principio cattivo esterno all’uomo, che è descritto come l’insieme delle inclinazioni naturali e indisciplinate che impediscono l’adeguamento della condotta dell’uomo alla razionalità, quindi secondo loro solo raggiungendo il dominio sulle passioni si poteva sperare nel bene. Per Kant invece il principio cattivo non è qualcosa che ho davanti a me e che posso ignorare, ma è “invisibile”, nascosto dietro alla ragione, quindi ben più pericoloso: il nemico non sono le inclinazioni sensibili ma è il non voler resistervi, è bensì una decisone, seppur oscura, della volontà, è un atto del libero arbitrio di negligenza nei confronti della legge morale.

La ragion d’essere di questo male radicale è però “inscrutabile” (unerforschbar) infatti Kant scrive a riguardo: “L’origine razionale di questa discordanza del nostro arbitrio relativamente alla maniera in cui esso pone al sommo, nelle sue massime, i moventi subordinati: l’origine razionale cioè di questa tendenza al male resta impenetrabile per noi, perché bisogna che essa stessa ci venga imputata, e, di conseguenza, quel fondamento primo di tutte le massime richiederebbe a sua volta l’adozione di una massima cattiva. Il male ha potuto derivare solo da un male morale (non da semplici limitazioni della nostra natura) e tuttavia la disposizione originaria dell’uomo (che nessun altro al di fuori di lui ha potuto corrompere, se questa corruzione deve essergli imputata) è una disposizione al bene; qui non v’è dunque alcun fondamento, per noi comprensibile, da cui per la prima volta, il male morale possa essere venuto in noi”[26].

L’azione cattiva è sempre un’azione libera, e bisogna che sia ritenuta come un uso originario dell’arbitrio di ogni uomo, in quanto egli può rifiutarsi di compierla in qualunque circostanza e condizione si trovi, poiché “per nessuna causa al mondo egli può cessare di essere un soggetto che agisce liberamente”.

Kant afferma però che questa tendenza al male può essere vinta, anzi “deve poter essere vinta, perché opera nell’uomo in quanto essere che agisce liberamente”.

Nel tentare di dare una risposta su come sia possibile per l’umanità prepararsi alla redenzione e restaurare l’autorità della legge morale, dato che la tendenza al male non può essere eliminata alla radice, bisognatener conto del fatto che suddetta tendenza viene descritta da Kant nei termini di una tendenza morale, che quindi si differenzia dalla tendenza fisica, che è necessaria e condizionata da fattori esterni e nella quale quindi non c’è spazio per il libero arbitrio; questa tendenza al male, essendo inscritta nell’ambito morale, implicante il libero arbitrio, è qualcosa a cui possiamo decidere liberamente di fare fronte, poiché la nostra volontà è libera: la redenzione dal male morale per Kant è da rivedersi nei termini di un’“autoredenzione”, poiché non ha a che fare con un ‘intervento dall’esterno, ma con un cambiamento che noi stessi dobbiamo operare nella nostra moralità, nella nostra volontà.

Kant fa questo ragionamento: se diamo per supposto che per diventare moralmente buoni sia necessaria una cooperazione soprannaturale, bisogna che l’uomo si renda degno di riceverla, si prepari ad accoglierla, è in questo senso va interpretato il concetto di “autoredenzione”; essere buoni vuol dire ristabilire in noi l’intenzione buona, cioè la nostra disposizione al rispetto incondizionato della legge morale come unico movente sufficiente a se stesso del libero arbitrio, far sì cioè che la massima fondamentale che la volontà dà a se stessa nell’uso della libertà ritorni ad essere la legge morale nella sua incondizionatezza.

Usiamo il termine “ristabilire” a ragione, poiché infatti questo movente al bene, essendo per Kant la nostra disposizione originaria alla buona intenzione, non lo si può perdere ma solo accantonare (dando luogo in questo accantonamento, in questo subordinamento, al male morale), quindi l’uomo può e deve, in nome della disposizione autentica, ristabilirlo.

Ristabilire la buona intenzione è per Kant l’unico orizzonte possibile per l’uomo verso la redenzione e corrisponde all’impegno morale a far trionfare il bene.

L’intenzione buona per essere pura deve infatti basarsi sulla fede incondizionata nella verità della legge morale che a sua volta si rifà alla fiducia autentica nell’attuabilità del bene morale. Essere buoni, vuol dire fare il bene, cioè seguire la legge morale ma prima ancora di seguirla dobbiamo credere autenticamente che questa rispecchi il bene.

In ultima analisi quindi è la purezza e la bontà dell’intenzione, l’accogliere cioè intimamente e incondizionatamente nella propria intenzione i puri principi morali, ciò che per Kant fonda quella religione morale fondata sullo spirito e sulla verità, che è la sola che può far sperare nella redenzione e nell’avvicinamento a Dio.

Infatti la pura intenzione, portando con sé la fiducia autentica nel bene, rivela a chi ne è cosciente già l’orizzonte della grazia, essa è come dice Kant “il consolatore (il Paracleto), quando i nostri passi falsi ci danno inquietudine” [27], in quanto l’intenzione supplisce all’imperfezione e alla fallibilità inseparabili dalla natura umana, per la quale non si può mai essere completamente quello che ci si propone di diventare.

La perfezione morale infatti è irraggiungibile per l’uomo con le sue sole forze, perciò quello che conta è la pura e buona intenzione che si propone come fine proprio questa perfezione: poiché il male morale è tale in quanto intacca non la bontà delle azioni ma la bontà originaria dell’intenzione, rendendola perversa o cattiva, Kant afferma che “la sentenza di un giudice che investiga i cuori, bisogna che sia pensata come una sentenza fondata sull’intenzione generale dell’accusato, non sui fenomeni esteriori di essa, non sulle azioni”[28].

Posto dunque che il male morale per Kant va vinto con la fiducia autentica nel bene morale, prerogativa di ogni buona intenzione, quindi con la moralità dell’intenzione, il problema non si risolve affatto poiché per il filosofo noi non possiamo conoscere la moralità delle nostre intenzioni, ma solo la legalità delle nostre azioni: sta qui il fondo oscuro della lettura kantiana del male, nel fatto da lui ravvisato che sì possiamo combatterlo con la buona intenzione rinnovata, ma di questa buona intenzione e dell’effettivo rinnovamento non possiamo avere la certezza, “poiché la profondità del suo cuore (il fondamento soggettivo primo delle sue massime) rimane all’uomo stesso impenetrabile”[29].

L’intenzione morale non potrà mai porci sul piano della certezza della nostra moralità, ma, rappresentando quell’impegno etico imprescindibile per ottenere la grazia, ci pone sul piano della speranza, in quanto noi possiamo solo sperare di diventare moralmente buoni, e della fede autentica, quale fiducia nella possibilità del bene nel mondo.

L’intenzione morale e la speranza che ne consegue sono il contrassegno di quella fede riflettente, tanto importante per Kant, che confida in totale umiltà in un aiuto spontaneo e gratuito di Dio come ricompensa -non necessario ma augurabile- dell’impegno etico di una volontà autenticamente buona: atti di culto, preghiere, invocazioni o glorificazioni (tipici di una fede dogmatica) non possono in alcun modo dare garanzia di salvezza, ma per Kant è solo il miglioramento dell’intenzione buona che ci può fare sperare di essere graditi a Dio e di ricevere il suo aiuto.

In questa disposizione alla speranza s’invera il vero significato della fede riflettente kantiana, fede che non vuole dipendere da alcuna rivelazione storica o dogma prestabilito, ma che, nel solo accordo con la razionalità della ragione (pura) pratica, riconosce le possibilità che vanno oltre i limiti della sua comprensione e favorisce la buona volontà “al di là” del sapere: la fede riflettente riconosce lo spazio del non-sapere che è imprescindibile da ogni atto di fede, realizzando l’originaria distanza tra fede e sapere, distanza che la fede dogmatica delle religioni rivelate, nel suo essere fede “che vuole sapere”, tende a dimenticare.

Proprio sulla questione riguardante il rapporto tra fede e sapere, e sulla questione di un possibile, se non necessario, primato dell’una sull’altro si è sforzato il pensiero di un’altro grande filosofo e psichiatra tedesco, Karl Jaspers, il quale, nell’intraprendere il compito che si era proposto cioè il “rinnovamento della filosofia” o “dello spirito filosofico del suo tempo” dichiara la sua vicinanza filosofico-spirituale a Kant, individuando nel filosofo di Königsberg il suo modello di riferimento, in quanto lo descrive come “il filosofo in assoluto che non può essere paragonato con nessun altro per la nobiltà della sua umanità riflessiva”[30].


Note
[1]Libro di Giobbe, traduzione it. dei testi originali I ed. (1977) del Rev. Giovanni Boccali e del Rev. Florindo di Vincenzo Radice, nella collezione I Garzanti- I grandi Libri, Aldo Garzanti Editore, p 60, nota 25

[2] Luigi Moraldi, “Presentazione critica al Libro di Giobbe” (1977) in Giobbe Ecclesiaste, edizione Garzanti, nella collezione “I Garzanti. I grandi libri”, periodico settimanale n 199, Milano 1977, p XXVI

[3] Luis Alonso Schökel, Giobbe, in Luis Alonso Schökel e altri, La Bibbia, parola di Dio scritta per noi, vol. 2, Marietti, Torino 1980

[4] Paul Ricoeur, La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960

[5] Luis Alonso Schökel, Giobbe, in Luis Alonso Schökel e altri, La Bibbia, parola di Dio scritta per noi, vol. 2, Marietti, Torino 1980, p 606

[6] Paul Ricoeur, La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960, p 298

[7] Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana editrice, Brescia 1993, p 23

[8] ibidem,

[9] ivi. p 53

[10] “Immanuel Kant, sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea” (1791), tr. it di G. Durante, A. Poma, G. Riconda, in Scritti di filosofia della religione, Mursia Editore, Milano 2013, p 54

[11] ivi.

[12] “Immanuel Kant, sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea” (1791), tr. it di Gaetano Durante, Andrea Poma, Giuseppe Riconda, in Scritti di filosofia della religione, Mursia Editore, Milano 2013, p 5

[13] ibidem, p 6

[14] ivi.

[15]ibidem, p 59

[16] Giuseppe Riconda, Presentazione critica de “Immanuel Kant, sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea” (1791), tr. it di Gaetano Durante, Andrea Poma, Giuseppe Riconda, in Scritti di filosofia della religione, Mursia Editore, Milano 2013, p 8

[17] “Immanuel Kant, sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea” (1791), tr. it di Gatetano Durante, Andrea Poma, Giuseppe Riconda, in Scritti di filosofia della religione, Mursia Editore, Milano 2013, p 61

[18] ivi.

[19] ibidem, p 62

[20] ivi.

[21] ibidem, p 64

[22] Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia (1986), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana Editrice, Brescia 1993, p 34

[23] Ernst Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilophie, cit., p 78, trad. it. cit., p 225

[24] Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione (1793), tr. it. Alfredo Poggi, Laterza Editori, Bari 2010, p 37

[25] ibidem, p 38

[26] Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione (1793), tr. it. Alfredo Poggi, Laterza Editori, Bari 2010, p 45

[27] Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione (1793), tr. it. Alfredo Poggi, Laterza Editori, Bari 2010, p 75

[28] ibidem, p 77

[29] ibidem, p 55

[30] Karl Jaspers, Filosofia, tr. it. a cura di Umberto Galimberti, Utet, Torino, 1978, p 63

(Continua)

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Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspers – parte 2 ultima modifica: 2021-05-04T04:05:00+02:00 da GognaBlog

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