52 anni dopo
(ripetizione della via Gogna-Pellegrinon sulla parete sud-est della Torre del Formenton)
L’amico Alessandro Beber mi aveva proposto di inserirmi nella sua ormai numerosa collezione di video di storiche vie delle Dolomiti. La cosa mi aveva fatto grande piacere ma al tempo stesso era stata fonte di grande preoccupazione.
L’idea delle sue Dolomitiche prevede la ripetizione di una certa via ma anche il coinvolgimento del suo primo salitore. Se questo è in età prestante è matematicamente invitato a far parte della cordata; se è invece un anziano signore che vive di ricordi, Alessandro fa in modo che anche il vecchio protagonista segua da più o meno vicino la salita e in seguito lo intervista, chiedendogli aneddoti e curiosità sulla lontana prima ascensione. Tutto semplice, direte voi. Ma quando il primo salitore non è proprio ancora decrepito, ma di certo non è pimpante come Alessandro e i suoi compagni, come la mettiamo? In lui vincerà la curiosità e quindi farà parte della cordata o prevarrà la vigliaccheria e dunque si limiterà a usare i binocoli dal basso? Beh, molto dipende dal tipo di via scelta.
Nel mio caso sono state subito escluse non solo le big wall (tipo Pale di San Lucano) ma anche le vie lunghe (tipo Marmolada, Brenta Alta, Terranova, Croda Grande dei Monfalconi o Cime di Pino): non certo perché fossero così temute dalla banda Beber, bensì semplicemente per mancanza di tempo e complessità logistiche. Assieme ad Alessandro avevamo sfoltito l’elenco delle rimanenti possibili, ed eravamo arrivati a due, entrambe meritevoli e adatte: la parete sud-est della Torre del Formenton (che avevo salito con Bepi Pellegrinon nel 1968) e la diretta alla parete est del Campanile di val Montanaia (che avevo aperto con Mauro Corona nel 1992).
Era bello che entrambi i miei compagni di allora potessero intervenire, dunque non era quello l’elemento per una scelta definitiva. Dentro di me però era chiaro che non avrei mai osato ripetere alla mia età la parete est del Campanile di Val Montanaia, decisamente troppo impegnativa. Dunque alla fine prendiamo la decisione di provare la Torre del Formenton 2920 m.
Chi volesse andare a leggere ciò che ho raccontato al riguardo di questa salita può andare a farlo qui.
Dopo una primavera di reclusione da pandemia non sono certo allenato, ho fatto poche uscite in giugno e ancor meno in luglio. Con Alessandro ci teniamo in contatto, lui deve coordinare tutti e navigare tra gli impegni dei componenti la squadra, ferme restando le buone condizioni meteo.
E’ un caldo fine pomeriggio del 30 luglio 2020 quando lascio la mia auto in un posteggio autostradale di Trento e salgo sul van di Alessandro, diretti alla sua casa di Pozza di Fassa. Questa è posta molto vicino alla residenza estiva di un altro mio amico, il parmense Antonio Bernard, col quale tanti anni fa ho arrampicato parecchio: ero quasi di casa in quella sua villetta, oggi purtroppo a un passo dalla fine di una pista di sci.
In casa Beber fervono i preparativi per la cena, in attesa che arrivi anche la moglie Lisa con le due bambine. Ma prima di loro spuntano Matteo Pavan (il fotografo) e Matteo Faletti (guida alpina), elementi che per fortuna non mandano in confusione il padrone di casa indaffarato ai fornelli. Al telefono Alessandro aveva detto a Lisa di aver fatto un “bello spesone”, ma naturalmente ci si può sempre aspettare che qualcosa alla padrona di casa non vada bene…
Infatti lo “spesone” viene giudicato insufficiente, ma tutto passa in second’ordine di fronte al casino che riescono a fare le due bambine, decisamente scatenate e non so quanto contente della nostra invasione. Ma la simpatia delle due briccone, soprattutto della più piccola, è ineguagliabile. Lisa non s’intromette nei piani culinari del marito, ma alla fine riusciamo lo stesso a mangiare un ottimo piatto di pasta, più contorni e antipastini vari. Concludiamo con qualche pezzo di buona pasticceria.
La mattina dopo la sveglia è tale in modo da partire alle 6, l’appuntamento è alla malga Flora Alpina 1818 m, poco oltre il Passo San Pellegrino. Lì faccio conoscenza con gli altri due compagni, Alex d’Emilia (il “dronista”) e Fabrizio Bicio Dellai (anche lui guida alpina). In totale siamo sei, di cui quattro guide alpine (vabbè, io sono “guida emerita”…).
La giornata è splendida, riusciamo a metterci in cammino per le 7.30. I cinque baldi giovani devono immediatamente adeguare la velocità di marcia al povero anziano, il quale pensa con apprensione agli 800 metri di dislivello per arrivare all’attacco. Che in se stessi non sono tanti, ma nel mio ricordo molto faticosi per via del ghiaione immenso che segue ai prati bucolici della Valfredda.
Quando il vallone che abbiamo seguito si apre al cospetto della catena dei Monzoni, lo spettacolo è fantastico. Alcuni cavalli pascolano liberi in questo paradiso. Il dronista decide di fare delle riprese e io saluto questa sua decisione con gioia: ben venga tutto ciò che mi permette di portarmi avanti per poi farmi raggiungere e superare…
Il ghiaione è davvero maledetto, con scarse tracce di sentiero, meno male che ho i bastoncini. E in più comincia anche a fare caldo. La rettangolare parete grigia s’ingrandisce pian piano, ma la base è davvero ancora lontana. Arrivo ai 2690 m dell’attacco per ultimo, quando tra lazzi e frizzi Matteo Faletti sta già per iniziare. Matteo, che sarà seguito da Matteo Pavana e dal dronista Alex, comincia con cautela a salire i primi metri della superficiale fessura che dà la direttiva all’intera via: il suo compito è quello di aprire strada e soprattutto rinforzare le soste. Alessandro intanto mi fa una breve intervista prima di incominciare: sono decisamente emozionato, dopo 52 anni mi ritrovo ancora qui con amici giovani e fantastici: loro sono qui per me e sento che in qualche modo mi vogliono bene. E ora che mi sono sciroppato l’approccio, non vedo l’ora di cominciare ad arrampicare. Il che succede più o meno alle 10.30.
La giornata si presenta così perfetta che decido con determinazione di non provare neppure ad andare da capocordata. So che potrei farlo, e ciò mi basta. Guardo con ammirazione la sicurezza con cui Alessandro sale il primo tiro. Dietro e assieme a me sale Bicio, tanto forte quanto sereno e di poche parole. Su questa roccia grigia, tutto sommato da buona a molto buona, mi trovo molto bene, perché è un’arrampicata sempre tecnica che non richiede grande tenuta di braccia. La stessa cosa succede per altre due lunghezze, nessuno mi chiede mai di fermarmi, mi filmano e mi fotografano senza disturbarmi!
La regolarità della salita è disturbata improvvisamente da un rumore secco. Bicio ed io, fermi in sosta, sussultiamo e ci appiccichiamo istintivamente alla roccia temendo una scarica di sassi. Invece è il drone, mandato in volo senza preavviso! La stessa cosa si ripeterà altre due volte, e in entrambe avremo la stessa reazione.
Distanti 20-30 m da noi, a sinistra, due ragazzi stanno scalando una linea moderna abbastanza ripetuta in questi ultimi anni. Occhi d’acqua (7b, 230m) è stata ultimata nel settembre 2015, aperta dal basso da Marco Bozzetta e Costante Carpella. La via attacca a una quindicina di metri a sinistra della mia e prosegue autonoma su una serie di placche di roccia stupenda fino alla vetta. L’unico piccolo neo è che incrocia una vecchia (anni Ottanta) e mitica via di Gigi Dal Pozzo: di questa, aperta senza spit e certamente di difficoltà simile, si sa così poco che sorge il dubbio di parziali sovrapposizioni.
La quarta lunghezza della Gogna-Pellegrinon è il tiro chiave: lì la fessurina, già un po’ intermittente, si esaurisce in una placca verticale. A suo tempo avevo trovato la soluzione con una espostissima salita in obliquo a destra. Alla fine della traversata purtroppo la qualità della roccia scade, sicuramente è meno affidabile: c’è una sezione gialla decisamente verticale e impegnativa per raggiungere una fessurina irregolare e rovescia che porta obliquamente a sinistra a un diedro fessura. Questo bisogna risalirlo tutto prima di trovare una possibilità di sosta decente su una specie di pulpito che domina la gola rocciosa a destra della parete (quella per la quale Bepi ed io eravamo poi scesi provenienti dalla vetta). Ho visto che i primi quattro si erano impegnati, ma alla fine anche io ne esco con dignità, scalando in libera dove certamente 52 anni fa, con gli scarponi rigidi, mi ero attaccato a qualche chiodo (anche perché dovevo piantarli…).
Ora anche visivamente è chiaro che la difficoltà più grossa è sotto di noi, però l’arrampicata continua ancora per due lunghezze molto sostenute, ricche di passaggi assai atletici in fessura-camino fino a terminare su una sottile cresta rocciosa che in pochi metri porta alla sommità.
L’aspetto positivo della presenza di Occhi d’Acqua è la possibilità che ci offre di poter scendere in doppia su soste attrezzate a spit. La via di discesa da noi seguita nel 1968 percorreva un po’ di cresta nord-ovest, poi giù per la parete nord fino a raggiungere l’intaglio a nord-est dal quale precipita il canalone roccioso (in versante sud-est) che riporta all’attacco. Tutta la prima parte di questa discesa è la classica arrampicata su difficoltà di I e II grado, quelle che io in questi anni temo maggiormente per via dei problemi di equilibrio che ho dal 2013 (quando mi hanno asportato un neurinoma dal cervelletto). Da allora non posso più fare il camoscio. Quindi l’idea che la disarrampicata mi sarà risparmiata esalta la felicità di essere qui, circondato da cinque amici stupendi. In una giornata quasi surreale di bellezza. L’arrivo in vetta ci ha aperto la visuale sull’intera parete sud della Marmolada, e a quella sulle Pale di San Martino e sul Civetta eravamo abituati già da qualche ora… Insomma, questo è un luogo di una meraviglia unica.
Matteo Faletti mi chiede in quanto tempo eravamo saliti allora, gli rispondo che potevo dirglielo perché ero andato recentemente a leggere sui miei diari: questi riportavano una cifra di 6 ore e mezza, e se c’era scritto così era certamente così. Si meravigliano tutti. Noi oggi, con le varie soste, ma non poi tante, dovute alla ripresa del film, abbiamo impiegato quattro ore e mezza. Secondo me c’è anche un’altra ragione che rende imparagonabili questi due tempi: un buon dieci per cento in più è stato impiegato solo per migliorare le soste, in prevalenza con nut e friend sistemati a regola d’arte. Cosa che nel 1968 era decisamente di secondaria importanza, ci accontentavamo di un chiodo (al massimo di due, quando il primo faceva proprio schifo…).
Dopo una regolare e comoda discesa, durante la quale riesco a vedere anche due vecchi cordoni attorno a clessidre, evidenti tracce di Dal Pozzo, approdiamo in prossimità degli zaini lasciati all’attacco. Siamo tutti su di giri, perché sentiamo che la giornata è stata speciale.
In discesa sento tutta la mia stanchezza, ogni tanto qualcuno mi aspetta. Ma, verso la fine, quando vedo che sta arrivando un temporale, esigo che anche Bicio raggiunga gli altri. Il mio ritardo è di un quarto d’ora, quanto basta per prendermi una decina di minuti d’acqua.
Al rifugio Flora Alpina, grandi feste. Anche perché nel frattempo è arrivato Bepi Pellegrinon che naturalmente offre un giro di birra a tutti, forse anche alle figlie di Beber… In tutti questi anni non ci eravamo persi di vista, anzi. La passione per la storia e per i libri ci aveva offerto più occasioni per rivederci. Siamo davvero felici di aver potuto vivere questa giornata e di averla conclusa con una bella cena.
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Grazie dell’ottimo articolo.
L’ho saluta ieri per la prima volta e devo dire che il quarto tiro ha una breve sezione che è sicuramente di grado VII e non VI come riportato in varie relazioni. La roccia non è sempre solidissima e la via, seppure abbastanza breve, me l’aspettavo più facile. L’ambiente è stupendo e l’avvicinamento neppure troppo faticoso. Il successo di Occhi d’acqua ha fatto si che si sia creato un sentiero lungo il ghiaione e non ci si cammini poi così male. Complimenti ai primi salitori.
Fose la marcia di avvicinamento, la scarpinata su ghiaioni, sono la salvezza di quelle pareti e sottogruppi. Rivedendo il filmato..finalmente una colonna sonora musicale che non paga diritti alle topten del pop rock new age folk rap monocultura dominante…A chi si chiede come declinare la montagna slow: basta continuare ad andarci a prescindere dell’eta’ e farsi degli amici giovani.Rivelatore il senso di annullamento delle differenze di eta’se ci si sente con lo stesso spirito. Se poi si e’ imparato bene ad andare in bicicletta, si va sempre anche se con meno foga .. cercando di recuperare con telai piu’leggeri( o scarpette slick al posto dei “pesantoni”..che pero’ rendono meglio nella discesa zompante dei ghiaioni)
Che bella la Torre del Formenton! Non la conoscevo.
Complimenti per la performance.
complimenti ad Alessandro, la classe non è acqua. Grande entusiasmo e sempre un gran ghigno.
Bello
Bellissimo resoconto!!
Con la tecnologia dell’ Rna chissa’ che vi-ci riesca di riprendere il vigore dei gli anni giovanili, ma intanto ‘na birra dopo gnocchi di ricotta affumicata , salvia e burro…e’ sempre una degna conclusione. Oltre utilizzi deviati, questa applicazione del drone merita!