Il Brenta… il mio Brenta

Il Brenta… il mio Brenta
di Giuliano Stenghel

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**

Cima Tosa
Quando corro lungo una grande parete dolomitica mi sento libero, ma la libertà massima di tutto ciò che ho dentro la esprimo al limite in una creazione: l’apertura di una via nuova ha un valore infinitamente superiore di una ripetizione di una via precedentemente aperta, il salire diventa come per uno scultore scolpire una statua o per un pittore dipingere un quadro. Il mio alpinismo mi piace chiamarlo semplicemente “arte”. Sì, un modo artistico di affrontare e percorrere la mia via, l’arte di capire, di scoprire metro dopo metro, di esternare le mie idee, i miei principi, i valori più profondi, di dare forma a un sogno, insomma lasciarmi trasportare dal cuore.

Se ne sono andati tanti anni da quel giorno…
Oggi con Bruno Detassis, quasi ottantenne, abbiamo salito il Campanil Basso. Sul sentiero ai piedi della parete, il grande vecchio mi rivela i segreti del suo Brenta. Bruno è la storia di queste montagne: si è legato in cordata con alpinisti leggendari, nel suo rifugio ha incontrato i più forti scalatori del mondo, ha guidato in parete uomini di grande fama come il re del Belgio e altri. Quante volte, ho ascoltato le sue avventure, ho condiviso emozioni e soddisfazioni soprattutto quando tornavo da una sua via. 

Ai piedi della “Guglia” (il Campanil Basso, NdR), mi parla dei suoi compagni di corda, in particolare di Giorgio Graffer che aveva salito lo spigolo dello Spallone con pochissimi chiodi, oggi ce ne sono almeno il triplo. Non parliamo della fessura sul Pilastro Est di Cima Tosa: quaranta metri di sesto grado senza una protezione. Bruno: “Un atleta e anche un pilota straordinario: in volo notturno di ricognizione sopra Torino, Giorgio scorse le luci di un bombardiere inglese, i cannoncini dei velivoli sputavano fuoco, il suo caccia venne colpito e a quel punto lo lanciò sul bombardiere nemico, ne danneggiò il motore fino a farlo precipitare, cadde a sua volta e si salvò lanciandosi con il paracadute. Morirà qualche mese dopo sui cieli di Albania in uno scontro impari contro dei velivoli inglesi”. 

L’ombra del Campanile Basso e la Cima Tosa

Riprendiamo il cammino. Chiedo a un certo momento: “Ed Ettore Castiglioni? Ecco, ti chiedo di lui, perché sono stato invitato a presentare il mio alpinismo dal Club Alpino di Tregnago, dove è sepolto”. Il grande vecchio per un attimo rimane pensieroso. Poi, prende nuovamente la parola: “Ettore era un vero signore, figlio di una ricca famiglia, laureato, suonava il pianoforte, era un uomo di grande cultura e parlava perfettamente molte lingue; era anche un uomo di grandi principi. Ricordo che, in un rifugio, dopo una scalata, il gestore ci rifiutò una camera offrendoci posto nel fienile accanto, quando casualmente venne a conoscenza della nostra identità, scusandosi rimediò subito con la sua stanza migliore. Per quanto mi riguarda l’avrei accettata, Ettore no e con decisione gli disse: Stiamo nel fienile!.

“Anch’io ho avuto un’esperienza simile”.

Riprende Bruno: “Durante la guerra ha aiutato tante persone a espatriare, la grande esperienza alpinistica gli ha permesso di mettere in salvo oltre confine centinaia di antifascisti ed ebrei perseguitati dalle leggi razziali – Dare la libertà alla gente, aiutarli a fuggire per me adesso è un motivo di vitacosì ha scritto sul suo diario”.

“Era un uomo spontaneo che non accettava l’ingiustizia”.

Annuisce e continua: “Per questo è stato arrestato e rinchiuso in un alloggio d’albergo. Privato degli scarponi e dei pantaloni, nonostante il freddo intenso e il buio è evaso calandosi con delle lenzuola dalla finestra con una coperta e senza scarpe. Privo di indumenti, attraverso il passo del Forno è stato colpito da una bufera di neve ed è morto assiderato a pochi metri dal confine e dalla salvezza”.

Lo fisso e gli confido: “Ho letto che molto tempo prima, esattamente aveva previsto e annotato nel suo diario la sua morte”. Con commossa partecipazione rifletto: “È stato uno dei più grandi alpinisti italiani, ma a me piace pensarlo come un uomo libero, di grande coraggio e di grande valore morale, abituato alle grandi imprese in montagna e a grandi rischi nella vita, un grande personaggio che non poteva arrendersi e accettare di essere privato della libertà”. Dico inoltre: “Chi può capire la logica di chi per amore dona la vita per salvarne un’altra?”.

Rimaniamo ambedue in silenzio. Davanti ai quasi mille metri della Cima Tosa, Bruno mi indica con il dito un pilastro rimasto inviolato, con un diedro che l’attraversa proprio nel centro della parete. A volte, quello che si considera un piccolo gesto può nascondere una grande rivelazione e accendere una grande passione, in questo caso per risolvere un problema alpinistico sulla cima più alta del Brenta. 

Più tardi, seduto su una panca del rifugio Brentei, casualmente mi trovo tra le mani una vecchia rivista di montagna con una fotografia di Ettore Castiglioni e una sua frase: “L’essenza dell’alpinismo consiste nella conquista metro per metro della propria vita. Dunque in fondo è rischio: ma il rischio non è fine a se stesso bensì solo la premessa necessaria alla conquista. La vita vissuta è solo quella conquistata. Perciò la vita è difficile e deve essere difficile, come un’ascensione che non può essere bella se non è anche difficile. Ove non c’è difficoltà, non c’è lotta; ove non c’è lotta non c’è conquista. Perciò la vita è lotta”. 

Sono passati tanti anni, e, come fosse oggi mi ritorna il momento con Bruno Detassis, quando scherzosamente gli dissi: “Se continuo ad aprire vie nel tuo Brenta, va a finire che ti rubo lo scettro e io… io potrei diventare il re del Brenta”.

Repentina la sua risposta: “Sì, ma dopo morto!”.

Bruno Detassis

Bruno ci ha lasciato, ma il suo Brenta ha perso l’unico, vero insostituibile re. Un mese dopo, con Delio Zenatti, saliremo quel pilastro inviolato, dedicandolo a mio nipote Mattia, nato proprio in quei giorni. La via è diventata per me una sbiadita fotografia: mi rimangono soltanto lontani e vani ricordi… la salita del Canalino Merzbarcher con scarponi, ramponi e piccozza; la frazione di tempo quando, alla base delle rocce, infilate le scarpette ai piedi e messo tutto il materiale da ghiaccio in un vecchio sdrucito zaino, lo abbiamo lasciato ruzzolare lungo il canale ghiacciato: lo avremo recuperato al ritorno. La via logica e ardita, un’impresa di notevole impegno, confacente al mio modo di essere in parete: con un’arrampicata atletica, a pieno ritmo e la conquista della cima del pilastro in poche ore. Lassù, avvolti dalle nuvole, nel grigiore della nebbia che, di tanto in tanto, lasciava infiltrare la luce del sole, le nostre ombre si riflettevano creando impressionanti immagini spettrali in movimento. 

Di quella bella scalata ho anche il racconto del mio compagno di corda tratto dal mio primo libro Lasciami volare:
“Ricordo solamente che ero sdraiato di malumore sotto un termosifone che perdeva, era infatti il periodo in cui stavo sistemando la nuova casa, all’improvviso mi scuote una voce: – Dai, dai pianta lì che nèm a far na via nova en Brenta – era Giuliano.
Gli avrei sbattuto la chiave inglese su un piede: – Ma non vedi quanto ho da fare!
Ma un qualcosa inceppa la mia usuale razionalità, mi alzo come un automa e vado a preparare la roba.
– Porta anche piccozza e ramponi – aggiunge lui. Questa è proprio nuova, non sono attrezzi usuali per lui!
Ma cosa andremo a fare? Boh…
L’alba successiva ci coglie mentre arranchiamo nel Canalino Merzbarcher in direzione di quel magnifico diedro fessurato che incide la parete nord-est della Tosa e che proprio non avevo mai notato. Della via ho solo vaghe impressioni: l’enorme peso dello zaino, un chiodo, rimasto l’unico di progressione, piantato su una volta marcia e strapiombante, che si piega mentre lo abbranco con entrambe le mani e Giuliano che mi chiede: – Cosa ne dici Delio, sarà settimo grado?.
Più sopra, una sosta con ben quattro chiodi tutti perfettamente collegati. Eh già! È il suo stile: quaranta metri senza nessuna protezione, su qualsiasi difficoltà, ma poi le soste a prova di bomba. La via è lunga, a tratti marcia e dura ma alle ore 14 risuona nella Val Brenta la voce del mio capo corda: – Siamo fuoriiii!
Lo copro di improperi: – Ma perché cavolo mi hai fatto portare tutta la roba da bivacco nello zaino se poi usciamo a mezzogiorno?
Poi me ne sto zitto ripensando alla via percorsa: qualche grande alpinista dell’epoca avrebbe impiegato due giorni e piantato chissà quanti chiodi, lui invece è salito completamente in libera e siamo già in cima. Penso che sarebbe inutile dirglielo, non servirebbe a niente. 
Giuliano interrompe le mie riflessioni con un grido: – Guarda, guarda giù!
Il sole riflette le nostre ombre sulle nebbie che salgono lungo la parete est e le ombre si muovono anche se noi stiamo fermi.
– Vedi, sono i nostri spiriti che ci seguono – asserisce serio.
Lo ritrovo dopo secoli nella falesia di Crosano, stento a crederci: Giuliano qui in mezzo agli spit e al magnesio, lui che ha sempre odiato spit e magnesio, che uomo dalle grandi contraddizioni!
La voce mi esce quasi da sola: – Guardalo bene, quello è il primo free climber della storia!
L’allievo che è con me sgrana gli occhi, osserva attentamente ed infine sbotta con fare irridente: – Ma come? fatica a fare un 6c?
Il mio cervello va in tilt, solo ricordi, emozioni che ritornano violente, rispondo istintivamente: – Vedi, una volta non c’erano gli spit… l’arrampicata era un sogno di pochi…
Mi rendo conto che l’allievo mi guarda come fossi matto e lascio perdere, lui non può capire, nessun libro gli sarà d’aiuto per capire perché lui, in montagna non ha mai visto il suo spirito che lo segue! (Delio Zenatti)”.

A sinistra il Pilastro Mattia, a destra la Direttisima del Cinquantenario e Pilastro Cabas

Direttissima Via del cinquantenario-Pilastro Dario Cabas
(dedicata a Bruno Detassis e a Dario Cabas sulla parete nord-est di Cima Tosa)
Se ne sono andati oltre trent’anni da quel giorno al rifugio Brentei… La mia vita di alpinista, la fotografia della maestosa parete della Cima Tosa, con il tracciato della via da poco aperta con Delio. Davanti a me Bruno Detassis; siamo seduti uno di fronte all’altro e non posso fare a meno di notare i suoi occhi nascosti nelle folte sopracciglia che fissano l’immagine: ho la convinzione che la nostra vittoria un po’ gli appartenga, come una sua creazione, insomma sua l’idea. La sua barba folta, i capelli lunghi e spettinati, con la mano destra stringe la pipa mentre con la sinistra avvolge una tazza di tè caldo. Le sue mani lunghe e provate con le dita sottili parlano di montagne, di nude rocce toccate e tanti sogni realizzati; nelle sue rughe profonde, infinite, si leggono centinaia, migliaia di scalate, un’infinità di giornate sotto il sole, la pioggia e le stelle e, su tutto ciò, la consapevolezza di conoscere e offrire generosamente, insegnare, in sostanza trasmettere passione. Trattengo l’emozione: nonostante la nostra grande amicizia, la sua vicinanza riesce sempre a sconvolgere i miei pensieri.

“Me l’avevi indicata e l’abbiamo aperta”, sostengo con un po’ di orgoglio. E con l’immagine davanti Bruno mi racconta la storia della grande parete, le vie aperte: quella con il fratello, la Barbier, la Livanos sul torrione Gilberti, ecc. 

Mentre parla la mia attenzione è catturata da una nuova linea. “Bruno!”, lo interrompo. “Guarda quel pilastro sopra il Torrione Gilberti, guarda tutta la parete sottostante”. E con il dito comincio a segnare il nuovo itinerario. A bocca aperta, il grande anziano alpinista perora, rinforza la mia ispirazione: “Sarebbe una grande via nel centro della grande muraglia, sul pilone, il più alto, superbo, splendido, in uno dei posti più selvaggi del Brenta”. 

E così ho concepito una grande via: ho guardato la parete dai vetri della finestra del rifugio e ho afferrato che ben presto sarei stato lassù. 

Da un po’ di tempo, mi sento infallibile, sembra impossibile possa capitarmi qualche incidente e per di più sono felice di realizzare i miei sogni. Arrampico solo per me stesso ed è difficile essere umili quando si è o ci si sente troppo forti. E così non va! Se la passione si adopera per la crescita, per giovare agli altri, è utile al nostro bene, se invece serve per alimentare un’esigenza egocentrica e vanitosa, un bisogno irrefrenabile di vivere e probabilmente morire solo per se stessi, allora non serve a nulla. La vita ha senso se vissuta in funzione degli altri!”. Appena coricato tanti pensieri affollano la mia mente.

La mia esistenza, le mie aspirazioni, sono un tutt’uno con l’amore per la montagna e l’alpinismo sembra sia l’unica cosa che esiste; analizzo le mie energie e il mio tempo unicamente nell’arte dell’arrampicata, spesso addirittura da solo, senza corda e protezioni e senza rendermi conto dei rischi che corro e dell’importanza della vita, se non per me, per le persone che ho accanto. Sono orgoglioso, istintivo e pieno di me stesso, vivo soltanto per una sbronza di emozioni. Durante la scalata, l’emozione, l’esaltazione e l’ebbrezza sono al culmine, ma in vetta sento un vuoto dentro che si può colmare soltanto guardando all’orizzonte altre montagne da salire, così non finisco mai. Tante volte mi capita di pensare: – Se cado in solitaria? Mi sfracellerò centinaia di metri sotto e non lascerò nulla: sarò considerato un folle della montagna che è morto senza senso. 

Dopo un po’: “Sono un drogato di scalate!”. Poi però mi viene spontaneo ponderare che la passione vera ha sempre una manifestazione esteriore assai marcata, talvolta estrema, ma anche nel pericolo, c’è la sicurezza che viene dal conoscere quali sono i rischi da correre. Comunque, l’arrampicata libera non può essere condizionata dalla paura di cadere, ma dall’immensa voglia di conquistare il cielo.

Il grande Emilio Comici, dopo una grande salita solitaria ha scritto: “Da che cosa ero pervaso io? Da una forma di pazzia o di sadismo alpinistico, forse? Non so, ero ebbro, sì, ma cosciente: perché mi sentivo la forza fisica di superare lo strapiombo, e la sicurezza morale di dominare il vuoto. Riconosco a priori che l’arrampicamento solitario su pareti difficili è la cosa più pericolosa che si possa fare, ma ciò che si prova in quel momento è talmente sublime che vale il rischio”.

La prima luce del mattino irrompe nel Rifugio Brentei, attraverso i vetri delle finestre, mentre con Dario Cabas consumiamo la colazione immersi nei nostri pensieri. La giornata è straordinariamente bella, l’aria fresca e le pareti illuminate dal sole. Ci mettiamo in moto non certo di buon’ora, ma ci sentiamo di ottimo umore, scherziamo spensierati senza preoccuparci del fatto che siamo in procinto di attaccare la parete più severa del Brenta. Non c’è un alito di vento, l’aria è ferma e si sente il profumo intenso e inconfondibile dell’erba, dei fiori e dell’ambiente tra i più selvatici e impervi.

Fortunatamente un sole radioso illumina le pareti e infonde vita e coraggio; la parete nord-est della Cima Tosa è totalmente immersa nella luce, a esclusione della sola ombra del Campanile Basso che su di essa si riflette, e lentamente l’attraversa quasi tutta. Raggiungiamo in poco tempo la base della grande muraglia rocciosa, cui si accede da un impegnativo sfaldabile zoccolo, simile all’anticamera del Purgatorio.

L’ambiente è quello austero, aspro e coinvolgente delle grandi pareti dolomitiche, sulle quali salgo dove lo ritengo possibile, con pochissime protezioni, agile e svelto. Con la sola corda e un mazzo di chiodi, il mio corpo si muove armonico, proiettato verso l’alto, e il mio pensiero immerso nell’azione e sugli appigli che scorrono sotto le mie mani. Procedo sicuro e deciso, i primi passaggi li supero con determinazione: è il mio modo d’essere in parete, salire su difficoltà come fossi slegato, con pochissimi chiodi e senza preoccuparmi più di tanto della complessità dell’ambiente. Con le mani e i piedi mi muovo in sintonia, sposto un arto, poi l’altro.

Ma… all’improvviso avviene fatalmente l’ineluttabile, ciò che a ogni alpinista non dovrebbe accadere soprattutto su una possente impervia parete dolomitica: sto accarezzando un buon appiglio quando, inaspettatamente, mi crolla l’appoggio del piede. Istintivamente stringo l’unico appiglio che si sbriciola letteralmente in mano. L’equilibrio ne viene compromesso e di colpo precipito, sto cadendo davvero in un salto senza termine. Il volo è di una concretezza allucinante: sotto di me il nulla, un impalpabile e angosciante vuoto, ma non m’invade il senso della morte, anzi cerco disperatamente di schiantarmi in piedi. Un salto lungo e pauroso per franare rovinosamente su un terrazzo. La fortuna di toccare il suolo in piedi e la grande preparazione atletica fanno sì che le gambe reagiscano come una molla; ma la botta sull’osso sacro è forte. Che strano: non so spiegarmi l’accaduto, rimango allibito, incapace di muovermi, mentre il mio compagno mi fissa preoccupato. Quando mi chiede se sto bene, lentamente mi tasto dappertutto, un brivido mi percorre, la testa un po’ mi gira e il cuore pulsa a mille, ma non sento dolore e, alla fine, lo rinfranco nel tentativo silenzioso di rassicurarmi.
“Tutto a posto”, e ricomincio a scalare scosso e tremolante fino a lui.
“Devo reagire!”, esclamo ora a voce bassa e angosciata. 
In sosta, sorseggiando un goccio di tè, tra me e me penso: “La paura mi attanaglia, come posso vincerla?”. 

Da una parte c’è la ragione che mi sta dicendo di rinunciare, ma dall’altra c’è una strana eccitazione, l’adrenalina che m’invita a proseguire nell’azione: è una situazione paradossale. Esito un attimo e, nonostante il mio primo impulso di staccare la spina, decido di continuare la mia scalata, ma con un dolore, una fitta acuta all’inizio sopportabile che mi affligge il fondo schiena, procurandomi un soffocante senso di timore di non farcela.

Superiamo alcuni strapiombi, placche più o meno verticali e sempre senza chiodi. Non una parola esce dalla mia bocca che apro solamente per inspirare profondamente l’aria fresca, come se potesse guarirmi dall’impressione violenta, dal trauma della tremenda esperienza della caduta. Qualche volta mi viene l’ansia, la paura di avere dei problemi fisici. Mi guardo attorno, il sole lascia definitivamente la montagna che cambia totalmente facciata: ora è in ombra e mostra un’imponente parete dall’aspetto inospitale e repulsivo. Salgo il più veloce possibile per uscire al più presto da quest’esperienza e ritrovare la luce. Mentre recupero il mio secondo, mi ritorna alla mente un episodio accadutomi tanti anni prima: durante una scalata, senza rendermene conto e su rocce facilissime, ero caduto e, dopo una lunga scivolata in un canale, per buona sorte mi ero arrestato aggrappandomi a una pianta, fortunatamente poggiata lì, come da una provvidenziale mano, per salvarmi.

Dario Cabas (1942-2015)

Inesorabilmente, i miei occhi si perdono nel vuoto sottostante e la mia mente riflette sulle conseguenze catastrofiche di un altro volo. Comunque, non mi lascerò sopraffare dai cattivi pensieri, non posso… non voglio gettare la spugna. Nonostante tutto, mi sento ancora all’altezza della prova, padrone delle difficoltà e sto proseguendo come fossi solitario e in completa arrampicata libera: senza chiodi e rinvii di protezione. Sono consapevole di essere oltre il punto di non ritorno e che ormai mi conviene mirare alla vetta.

Il mio compagno mi segue veloce: siamo preparati, sicuri e ben motivati. È pomeriggio inoltrato quando ci troviamo a pochi tiri dal Pilastro: il più diritto e perpendicolare alla cima. Ora, non sono più convinto della mia idea: una linea perfetta e diritta, aprendo una via proprio nel punto più alto della parete, perché mi assalgono i primi dubbi e per di più sono ferito. Avverto i primi sintomi di stanchezza, arrampico deconcentrato, assente, come per inerzia, assorto nei miei brutti pensieri, come un automa e con lo scopo di uscire al più presto dalla grande muraglia. Di tanto in tanto, particolarmente quando apro le gambe in una spaccata, avverto una contrattura che mi provoca un dolore acuto alla schiena e mette a dura prova il mio animo eroico e il mio ardimentoso coraggio.

Ho la percezione che per questa vittoria ci sia un prezzo da pagare e intuisco l’importanza di agire velocemente e, con tutte le energie, per non dare il tempo all’angoscia d’impadronirsi di me. Non posso fare a meno di continuare a salire, ma con l’atipicità e la follia di non cercare più “il facile nel difficile”, bensì, ironia della sorte, l’opposto; insomma sto arrampicando senza prendere le decisioni giuste, come per mettermi nei guai.

Ai piedi del pilastro sommitale le difficoltà crescono, assieme alla fatica e al dolore. Potrei uscire più facilmente dalla parete deviando dalla direttiva, ma un qualcosa dentro mi spinge direttamente e senza indugio sul problema irrisolto: il pilone più alto e lungo una fessura verticale di roccia bagnata e gelida. Attorno, l’ambiente si fa molto severo, crudo e impressionante, incute timore: non riesco più ad adattarmi e avverto una sensazione di solitudine, ho la percezione di essermi infilato in un vicolo cieco, sono in preda a tristi presentimenti, mi sento torturato, oppresso, come se la montagna avesse scelto di schiacciarmi. Non ce la faccio più! D’altronde come può reggere l’animo se il corpo è ammalato? Mi sembra che a ogni passo mi sia negata la possibilità di continuare, mi sto muovendo in maniera impacciata, fatico ad aprire le gambe, mi rimane soltanto la volontà.

Il pericolo è nell’aria e la mente è invasa da strani pensieri e brutti presagi. Sono sul punto di cedere. È il triste epilogo di una scalata nata male! Ho peccato di superbia, e adesso la montagna mi sta presentando il conto per essermi spinto oltre i miei limiti. Profondamente scoraggiato e intimidito ascolto una vocina dentro: “Devi desistere piccolo presuntuoso, devi smetterla di affrontarmi con tanta arroganza”.

La mia risposta chiara e precisa: “Non è giusto, la mia non è boria e spavalderia, ma cuore, valore e coraggio!”.
“Il tuo coraggio? Vediamo… vediamo dove ti porta”. 

Ho sempre seguito l’istinto lasciandomi trasportare dalla mia passione e quasi sempre sono stato premiato, ma oggi ho come un triste sentore che nulla vada per il verso giusto. Sono su passaggi duri, i muscoli indolenziti dalla fatica e dai crampi non rispondono quasi più e ogni movimento mi costa uno sforzo immenso. Sto vivendo una grande sfida dalla quale voglio uscire e non rimanerci.

Rifletto: “Da dove viene la forza per salire ferito, su un’immensa parete nord che non vuole lasciarsi conquistare e che sembra voler far di tutto per insinuarmi dubbi e incertezze”.

In sosta con il mio compagno, apro la bocca per respirare a pieni polmoni. Poi, mi rivolgo a lui: “Non preoccuparti Dario, anche questa volta ce la faremo”. Gli dico inoltre: “Stiamo soltanto rincorrendo i nostri sogni”. E lui mi incita: “E’ il tuo modo di essere in parete; il tuo alpinismo è del tutto impulsivo, hai sempre seguito l’istinto senza calcolare, ma quante volte hai subito cocenti delusioni…”. Un attimo di silenzio mi riempie di dubbi. Dario se ne accorge e con una pacca sulle spalle soggiunge: “Ma quante altre, hai toccato il cielo con un dito“. 

“Caro Dario, se non provassi a rincorrere i miei sogni, probabilmente non sarei qui ad assaporare le piccole e grandi cose che ogni volta riesco a conquistare. Non sono un Santo, ho troppi difetti e debolezze, però in ciò che faccio mi sento un protagonista, ne ho il carisma”. E riparto con tanta grinta.

La sventura, il fato, la cattiva sorte mi fa cadere il martello con l’ultimo mazzo di chiodi proprio sull’ultimo tratto, il più ostico: lo vedo rimbalzare sulle rocce sottostanti.

Un silenzio di piombo scende sulla montagna. In quest’istante mi sale un brivido di paura. Tuttavia non mi arrendo e affronto l’ultimo tiro di corda estremamente impegnativo senza l’aiuto e la protezione di un chiodo. Faccio diversi tentativi, ma ora, il male è così insopportabile che non riesco più a spingere con le gambe. Ritorno sui miei passi. 

Nuovamente sconsolato al mio compagno: “Basterebbe un buon chiodo, uno solo per questi pochi metri, è una beffa!… Se riesco a superare il passaggio siamo fuori!”. Dentro di me c’è però la paura che il mio corpo non risponda, che possa essere inaffidabile e precipitare ancora.

Dario si rende pienamente conto del mio dramma interiore, ma anche della cattiva sorte e fa di tutto per farmi ragionare a non spingermi oltre. Solo un pensiero mi coglie: “Dai… che mancano pochi metri”.

Faccio molti tentativi. Ritorno in sosta sfinito e sfiduciato. Lo sguardo affranto e rassegnato, incollato su quel passaggio che mi sta precludendo una vittoria tanto ambita e meritata. L’ambiente attorno è impressionante, ora incute timore. 

Appoggio la fronte alla roccia: “Non ce la faccio più!”. Altri pensieri invadono la mia mente: “Forse ho veramente peccato di presunzione, e adesso la montagna mi sta presentando il conto per essermi voluto spingere al di là dei miei limiti”. Prostrato, amareggiato e con tono perentorio: “Però non è giusto!”.

Leso ora anche nell’animo ho paura! A questo punto il proseguire sarebbe un rischio troppo alto per le mie forze e per la mia situazione e mi arrendo.

Ci calano una corda con la quale saliamo, beffati, l’ultimo tratto.

Il giorno seguente la diagnosi della frattura del coccige e l’immobilizzazione a letto a pancia in giù. 

Per il mio alpinismo con pochi mezzi, subisco un duro attacco pubblico, al quale compio l’errore di rispondere e non mancano le inutili polemiche che non fanno altro che stritolarmi il morale. In sostanza, in montagna le calunnie e le maldicenze lasciano il tempo che trovano, perché una grande scalata è sinonimo d’impresa riservata solo ai più grandi, contraddice ogni chiacchiera inutile e merita il giusto rispetto: il rispetto alpinistico, un dovere che si esplica nei confronti di chi ha saputo scrivere una pagina sul grande libro dell’alpinismo. Nonostante la sconfitta, mi sento compiaciuto, gratificato dalla mia salita sulla parete della cima Tosa, appagato di fare un grande alpinismo, ispirandomi a uomini del passato, dai quali sto imitando il vero concetto dell’arrampicata libera.

Questo è il bello per chi sale le montagne: le frottole e le ciance contano nulla al cospetto di una grande conquista. Uno scalatore non si giudica da una sola via, ma dall’attività e dal come è stata svolta. Gli alpinisti, quelli veri, sanno che a volte bisogna esporsi e rischiare, soffrire e forse persino morire; ne vale la pena? Non lo so, ma credo sia inevitabile. 

Ho coscienza di una passione che ci può condurre persino a dure conseguenze, ma per una vita più intensa.

Due mesi dopo, da poco ristabilito, ritorno sulla parete. Con me chiodi e martello, ma non servono perché risolvo il maledetto passaggio con un’arrampicata libera di grande impegno. Un tratto che affronto con rabbia e caparbietà sul quale do prova di valore, sangue freddo e tanto coraggio. 

Guardando Dario salire: “Il maledetto passaggio è un tratto di settimo grado, vero?”.
“Altro che settimo, ma non lo hai mai dato, quindi non so che dirti”.
Aggiunge: ”Con questo chiudiamo ogni polemica”.

La mia vittoria, seppur sofferta, sulla Direttissima alla Cima Tosa nessuno me la può togliere. Ho avuto cuore e fegato nel percorrere una grande parete dolomitica con un osso rotto, con il morale a terra e con il minor uso di materiale: se avessi avuto due corde, con una calata avremmo potuto uscire in vetta per rocce più facili, se avessi avuto martello e altri chiodi non avrei avuto problemi sull’ultimo tratto, se non avessi avuto quelle fitte forti al fondo schiena e soprattutto la paura di non farcela. In conclusione se avessi avuto trapano e spit, oppure qualche gancio o friend e magari anche le ali…

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Il Brenta… il mio Brenta ultima modifica: 2018-01-10T05:56:33+01:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Il Brenta… il mio Brenta”

  1. No Alberto, il volo passa più a sinistra e parallela nella prima parte, forse tocca in parte la via Livanos nei primi metri.

  2. molto bella la linea del Pilastro Cabas.

    Una domanda , magari Emanuele Megardi, dall’alto della  sua grande conoscenza alpinistica  mi sa rispondere. Oppure anche Marco Furlani se legge.

    La prima parte della via  è in comune a “Il Volo dell’aquila” di Furlani e compagni alla Torre Gilberti?

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