Il muro
di Lorenzo Merlo
(scritto il 27 settembre 2021)
C’è un muro intorno a noi.
Viviamo entro una roccaforte che non vediamo. Scorrazziamo liberi nei suoi cortili che crediamo il mondo, senza avvederci del limitato spazio che ci è concesso. Misero vermaio di ridondanti pensieri e sentimenti.
Accade ad alcuni di divenirne consapevoli. Si dà allora la responsabilità della passata costrizione e castrazione a qualcuno o a qualcosa. Sempre però si tratta di capri espiatori che permettono di nascondere a se stessi la verità ultima alla quale, nuovamente, ad alcuni accade di accedere. E quando ciò succede, ciò che era segreto diviene banalità. Sotto una permanente spinta biografica, che per ontologia, non contraddice mai se stessa, realizziamo il nostro unico destino disponibile. Sempreché qualcosa in noi non evolva. Sempreché non ci si riconosca architetti e muratori del nostro muro di fondo e di circostanza. Allora, ogni singola pietra, mattone e colpo di cazzuola, serviti per erigere il muro, non sono più opera altrui ma nostra. Sebbene la cultura – come muro eretto da altri – non la scegliamo, interrompendo l’attribuzione di responsabilità o di realtà oggettiva, possiamo emanciparci da quella in cui capitiamo. Ovvero, possiamo riconoscere le sue ragioni storiche, la sua necessarietà filosofica e anche la sua arbitrarietà e la sua strumentalità. Cioè, la sua effimera natura scambiata per definitivo muro. Il percorso necessario per avvedersi del grande slittamento di piano che tutto muta e travolge è lavoro che compete all’individuo.
Il muro e le varie coperte di Linus sono geneticamente figli del medesimo genitore: la necessità di sostenere il proprio io. Sono rifugi, habitat, bioregioni in cui possiamo garantire la nostra sopravvivenza. In cui possiamo affermare la nostra forza, la nostra verità, identità e differenza.
La dimensione del muro è proporzionale al senso di importanza personale che ne ha diretto l’edificazione. E l’importanza personale è a sua volta in funzione del gradiente di consapevolezza che l’io non è che un muro costruito intorno a noi.
Identificare se stessi con il proprio io è la conditio per determinare la delimitazione del proprio dominio. Entro il quale siamo, fuori dal quale non siamo. Entro il quale sappiamo sempre dov’è il nord, fuori da quale siamo spaesati. Entro il quale percorriamo la via del vero, del bello e del giusto. Fuori dal quale le vie sono del falso, del brutto e dello sbagliato.
Chi è dominato dal proprio giudizio ferma la realtà, la definisce e reifica col suo stesso giudizio. Chi non è dominato dal proprio ego osserva il fluire del reale, ne vede le forze, grette e sottili, che su essa agiscono. In ciò che osserva riconosce sempre una verità. Nel primo caso, domina il fermo immagine, in cui si osserva una realtà corrispondente a una fotografia, la cui composizione è determinata dal nostro muro. Ad essa corrisponde sempre un nostro vantaggio. Nell’altra situazione si vede il film del divenire, la parabola della storia e la sua permanente legittimità. Una condizione che permette di sciogliere anche i muri più refrattari.
Autoreferenziati dal nostro muro procediamo a testa alta come paladini della giusta morale, della giusta politica, del giusto impiego della forza. Il muro, un passo alla volta, ci conduce in luoghi che mai avremmo sospettato, ci produce realtà che mai avremmo voluto. In tutte le circostanze il muro impone sempre la sua legge per la sopravvivenza della nostra metafisica.
Attraverso il grande portale di accesso alla nostra fortezza transitano solo i sodali: solo le idee che non ci turbano e che confortano le nostre posizioni. Oppure, per uscire in proselitica battaglia. Dalle feritoie osserviamo il mondo esterno pronti alla difesa in caso di attacco. Una difesa spesso frutto di reazioni difensivo-emotive, incapaci di riconoscere il senso di quanto ci viene incontro. Messaggi in forma varia raramente vengono considerati, accolti, masticati, digeriti e infine fatti propri.
Per quanto le battaglie tra le idee si svolgano con armi razional-dialettiche – le sole che nel dominio razionalistico della nostra epoca, siano ritenute intelligenti – all’insaputa di tutti, i soli proiettili che colpiscono sono quelli emozionali. Il resto sono salve intellettuali che, bene che vada, toccano la pelle e mai raggiungono il cuore.
E sono credute razionali, quindi le più forti e durature, pure le singole pietre che compongono il muro e gli argomenti che portiamo a sostegno della loro messa in opera. Ma è superstizione protoscentista. Di fatto, non lo sono affatto forti e resistenti, semmai ondivaghe e ribaltabili. Infatti, anche quelle pietre, ognuna di quelle è posta da una forza emozionale con ragioni esclusivamente emotive. Tutta la cosiddetta e presunta razionalità ha genitori emozionali.
L’hanno ampiamente raccontato Humberto Maturana e Francisco Varela. Ma, nonostante la loro visione abbia la potenza culturale paragonabile a quella fisica di una fusione nucleare, essa è rimasta circoscritta a tesi di laurea e a quisquiglie accademiche.
L’autopoiesi di noi stessi – dicevano i due ricercatori cileni – corrisponde al muro. La cui natura è di essere parzialmente permeabile solo da ciò che è compatibile con quanto crediamo di noi. Accettiamo ciò che già in noi, che con quello si integra. Non solo. Tale compatibilità è misurata da un regolo di tipo emozionale. Per schematizzare, si può dire che il medesimo argomento può essere accettato/rifiutato se fornitoci in tempo differente. E che, nel medesimo tempo possiamo accettare/rifiutare un identico argomento se fornitoci da fonti differenti. Il primo caso dipende dal variare della nostra intima condizione/convinzione. Il secondo dal giudizio che generiamo – e con cui ci identifichiamo – nei confronti dell’emittente.
La popolare formula apertura mentale, vorrebbe contenere questo oceano e queste profondità, così facilmente, ignoti a noi stessi. L’apertura mentale di una madre nei confronti delle malefatte del figlio tende ad essere massima. Nella circostanza il suo muro è totalmente abbattuto o permeabile. Nessun giudizio tiene a distanza il figlio. Nessuna alterazione si propaga nella madre.
Diverso accade con le ideologie conclamate o minimali che siano. Lo scontro tra queste è garantito, così come l’importanza personale dei duellanti.
Con la consapevolezza che l’altro è un universo diverso, che ha quindi ritmi, vibrazioni, rotazioni e quadrature – che sono solo un accenno di un corposo elenco – possiamo rivolgerci al linguaggio, al modo e al tempo per provare ad avvicinare il prossimo, per rischiare di coniugare il nostro pensiero e il nostro spirito con il suo. In una parola, modulare il linguaggio significa ascolto. E questo allude all’assunzione di responsabilità di ciò che accade quando il muro dell’altro si dimostra impermeabile; quando dalla sua feritoia partono dardi infuocati diretti a noi.
Così come la debolezza è direttamente proporzionale alla consistenza del muro, la forza lo è indirettamente. Questa, raggiunge il suo massimo nell’ascolto, dove il muro appare minimo o abbattuto.
Nella consapevolezza che l’identità è un’infrastruttura di noi, che essa non corrisponde al nostro sé universale, disponiamo di fermezza e duttilità, depurate dagli inquinamenti tossici dell’importanza personale.
Ricoperti da strati di saperi cognitivi, nei quali abbiamo annegato la vibrissa che siamo, abbiamo dimenticato chi siamo. Abbiamo abdicato l’infinito che è in noi. Un’antenna sottile e sensibile, capace di captare le energie del cosmo e del momento, capace di distinguere, discriminare, scegliere capace di essere terra e conoscenza, capace di guidarci e fare luce nel labirinto oscuro dei momenti, Capace di informaci che in noi c’è già tutto e che quello che non troviamo, come un rifiuto, lo abbiamo buttato fuori dal muro. Per paura della vita. Per timore di essere ciò che siamo e non solo ciò che crediamo.
E allora, i traumi sono devastazioni del muro, sono sottovalutazioni del nemico.
Le terapie sono consapevolezza che siamo noi a costruirlo e che difenderlo a testa bassa ci procurerà altri inconvenienti, tra cui la follia. Uno stato in cui il muro è così stretto intorno a noi da impedire il passaggio perfino alla luce.
La saggezza non sta nel non edificare la barriera ma nel prendere le distanze da essa, nel liberarsi dall’importanza personale, nel riconoscere con compassione i propri e altrui muri. Nel comprendere cosa la selettività mascolina e l’accoglienza femminina. Nell’andare oltre le ingenue e arroganti leggi degli uomini e riconoscere quelle imperiture e semplici della natura.
Combattere diventa allora recitare una parte, eventualmente per noi doverosa. Come per il Samurai, per il quale il nemico vinto avrà l’onore delle armi.
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Trascorrendo spesso lunghi periodi all’estero mi sono reso conto che guardare al paese dove vivo standone fuori ha su di me un effetto positivo e rigenerante. Resettante, per usare una brutta parola. È un qualcosa che si prova solo vivendola, un po’ come l’alpinismo. Ne puoi parlare finché vuoi ma se certe sensazioni non le hai mai provate ne resti lontano. Non hai competenze, anche se credi di averle. Restando al di qua del muro la capacità di critica e visione è limitatissima e fa vivere di conseguenza. Basta leggere certi commenti.
Sul muro poi, un certo Roger Waters, uno che suonava il basso e cantava pure nei Pink Floyd, nel 1979 c’ha scritto un disco, The Wall, in cui le liriche sono poesia tragica proprio su quest’argomento. Oltretutto anche la musica non è male.
11) gia’ 🙂
Non essere miope, ce ne sono 1000.
8) mi pare di vederne due, il suo ed il tuo.
Non è detto che il muro che uno si costruisce intorno sia esclusivamente composto di muri da castello medievale. Può essere anche flessibile. Per esempio io tengo sempre disattivata la suoneria del cellulare. E’ una difesa flessibile dall’invasione altrui. Se sono alla scrivania perché lavoro, il cell si illumina e posso verificare il numero che mi chiama. Se mi interessa, rispondo, altrimenti lascio perdere. Quando non sono alla scrivania, il cell è “lontano” da me: vibri finché vuole, non me ne accorgo neppure. I miei conoscenti sanno che vivo in questo modo: se proprio hanno necessità di comunicare con me, riprovano finché rispondo. Chi non insiste, era un rompiballe, meglio non avergli dato corda. Tempo perso. Questo è un esempio di difesa flessibile. Ma adotto molteplici di queste strategie.
Il muro.
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-logica-della-pandemenza-e-i-popoli-cornuti
Bertoncelli. In questa fase imparo più dagli abili contadini che vivono intorno a me che non dai libri. Sono loro che mi hanno insegnato come si ripara un muro a secco o come si posa una rete termosaldata contro i cinghiali. Però mi hanno insegnato che con il maledetto tasso (peraltro animale bellissimo) che mi distrugge tutto senza pietà, le mie reti non servono a niente. I muri sono utili ma dipende dalle situazioni. Un gruppo o un individuo che si chiude dentro delle mura afferma sicuramente la sua identità ma rischia di regredire come tutti i gruppi chiusi. Una difesa flessibile può funzionare in situazioni di movimento e ma certamente rischia di far perdere radicamento. È la differenza tra un castello medioevale con le mura spesse due metri e il cerchio dei carri dei pionieri che abbiamo visto in migliaia di film. Ho la sensazione che oggi in molti campi siamo più nella situazione dei pionieri del West.
Non vedo tutta questa negatività attorno alla barriera che rappresenta. Il muro è ad un tempo di affermazione e di difesa. Lo assimilerei al ‘bozzolo ‘ stregonesco di Don Juan, e parallelamente a questo vedrei meglio il potersene andare e venire di qua e di là piuttosto che auspicarne il superamento. Perché sia esso opera da muratore o da stregone il famigerato ‘io’ senza riparo o riferimento diventa preda degli elementi e degli animali da rapina o semplicemente si dissolve nel niente ( o tutto) Amen
“Come nella famosa scatola di cioccolatini Forrest Gump non sai mai cosa scegliere o cosa ti capita. Perché cos’era meglio lo sai solo alla fine.”
Qui stiamo sconfinando nella filosofia. Casualità o determinismo?
… … …
Caro Roberto, forse un giorno noi discuteremo a quattr’occhi di queste cose. Ne parleremo per ore, per giorni, per anni, per una vita. E alla fine della giostra saremo sempre al punto di partenza: “Boh?”.
P.S. Comunque io – fedele cultore di Giacomo Leopardi – sono per la pura casualità. Se non l’hai già fatto, ti consiglio questa lettura: “Dialogo della Natura e di un Islandese”. Tu sei saggio a sufficienza per meditarci a fondo, e sei forte a sufficienza per non deprimerti piú di quanto non lo sia già dopo tutte le meditazioni sul tema che avrai certamente fatto nel corso della vita.
… … …
Meditate, o voi che vi inviperite per una quisquilia. Meditate!
I muri e i reticolati sono un’ottima difesa contro i cinghiali. Contro i tassi e le volpi non funzionano. Se l’avversario è astuto e mobile li aggira e ti fotte. Lo hanno dovuto imparare anche gli strateghi della linea Maginot. Bastava chiedere ai contadini. Per questo molti preferiscono difese più flessibili. Sembrano meno solide all’apparenza, ma in certe circostanze funzionano di più. C’è una “resilienza” (come dicono oggi) basata sulla rigidità e una basata sulla flessibilità. Come nella famosa scatola di cioccolatini Forrest Gump non sai mai cosa scegliere o cosa ti capita. Perché cos’era meglio lo sai solo alla fine.
Quante masturbazioni mentali……cercate di vivere per voi stessi e la vostra famiglia, fate ciò che vi piace e che vi interessa, preoccupatevi di star bene e lasciamo le cavolate ai masturbatori dell’intelletto. La vita è più semplice e si apprezza con le cose piacevoli. Sciate e mangiate
Non voglio perder tempo a imbastire la solita tiritera sui sabaudi (che NON sono tutti i torinesi, ma una spsciica nicchia), ma essa calza a pennello. Il “muro” fa parte della mostra cultura, del modo in cui siamo educati. Non ammettiamo facilmente (anzi!) gli altri nel nostro spazio vitale. Vale sia in termini fisici che intellettuali. Vale anche per le “idee” e le emozioni. Teniamo le distanze e di natura siamo diffidenti, verso tutto e tutti. Non mi è mai capitato di abbracciare neppure un amico, un socio di montagna. Figuriamoci gli altri. Penso derivi da esperienze ataviche, cmq in noi viene impresso fin dalla culla. In questo contesto non si puo’ che crescere così. Devo pero’ dire che io mi trovo benissimo in questo modello e che, parimenti, non ho mai sentito nessuno/a del mio giro lamentarsi dei rispettivi “muri” che ci circondano. Il muro non lo considero quindi un limite, ma un elemento di forza personale, una corazza verso le difficoltà oggettive della vita: le energie non vengono disperse ma convogliate verso obiettivi razionali e ben individuati. È un approccio “ingegneristico” alla vita. Non mi perdo qui a sostenere le ragioni per cui lo considero più azzeccato. Dico solo che, se uno si trova bene nei panni chd indossa fin dall’inizio, non c’è motivo per cui debba cambiare sarto…
Grazie Lorenzo, bella riflessione!
Credo, però, che la ricerca del proprio Sé, la nostra Individuazione, come la chiama Jung, sia un cammino indispensabile, forse lo scopo maggiore della nostra vita.
Quando capiamo chi siamo veramente, attraverso un’ autoanalisi e continue riflessioni, solo allora saremo in grado di capire e accettare il Muro degli altri.
Se ciò non accade è perché abbiiamo troppa paura di perdere il nostro Sé, e ci arrocchiamo nel chiuso del nostro Muro.