Il Nuovo Mattino
All’inizio degli anni ’70 prese forma, prima a Torino, poi in altri ambienti alpinistici italiani, un modo nuovo di intendere le sfide che la montagna continuamente poneva agli alpinisti. Questo “movimento” torinese fu battezzato, più che altro in termini letterari e non certo in quel momento, il Nuovo Mattino. Anima dei nuovi fermenti e in seguito “guru” delle nuove tendenze era Gian Piero Motti, un giovane che si era distinto per la qualità delle sue imprese e dei suoi scritti.
La meta filosofica, quasi un credo, di tutto il pensare e l’agire in montagna era la conquista senza sofferenza, come se di questa l’alpinista non avesse più bisogno, avendo già composto dentro se stesso le tensioni che lo spingevano a “lottare” contro la montagna. L’utopia non riguardava tanto la fine della sofferenza quanto l’interiorizzazione che l’uomo avrebbe dovuto farne, prima e durante.
Naturalmente i ragazzi che parteciparono alle imprese più belle del Nuovo Mattino non erano così “catechizzati”, anzi ciascuno la pensava a modo suo. Li univa principalmente il rifiuto della cultura ufficiale dell’alpinismo.
Lo Scoglio di Mróz (Vallone di Piantonetto)
Tutto era incominciato il 22 ottobre e 4 novembre 1972, quando Motti, con Ugo Manera e compagni, vinceva i Tempi Moderni al Caporal. Nello stesso tempo Guido Machetto, Miller Rava ed io, con Carmelo di Pietro, salivamo lo Scoglio di Mróz. Ma, mentre noi eravamo stati outsider, Motti e Manera, con Gian Carlo Grassi e Danilo Galante avrebbero ampiamente continuato l’esplorazione intrapresa nelle valli di casa.
In tre anni, dal 1972 al 1974, tutto si compì. Sul Caporal, sullo Scoglio di M’roz e sul Sergent ebbero luogo le imprese più significative, mentre le altre strutture videro le prime esplorazioni. Era nato il free climbing italiano: ne eravamo fieri e lo saremmo stati ancora per un po’ di anni.
In seguito, a strada aperta, le salite continuarono, investendo le strutture vicine e lontane, dalla Rocca di Caprie al Vallone di Sea. Ma a quel punto il movimento del Nuovo Mattino era dilagato in Italia.
Nel 1983 Motti scrisse un articolo su Scandere che doveva lasciare il segno: Arrampicare a Caprie decretava la fine del Nuovo Mattino, perché sostanzialmente riconosceva che la realtà era diversa dalle aspettative e che la pratica sportiva, con le sue regole, con i suoi spit e con la necessità della competizione, aveva preso il sopravvento.
E a distanza di più di quarant’anni alcuni di noi, un po’ infreddoliti accanto alle braci di ciò che resta di un lungo fuoco serale, sonnecchiano in solitudine ed aspettano una nuova alba, senza però avere più la sicurezza di una bella giornata di sole.
La Rocca di Caprie (Bassa Valle di Susa)
Infatti Alberto, è proprio così.
Antonio ho il dubbio che Ulisse, se avesse voluto, ad Itaca ci sarebbe ritornato assai prima. Penso che Ulisse abbia volutamente ritardato questo ritorno a casa per per il gusto di avventura e per l’ignoto da esplorare che aveva su di lui una fortissima attrazione. Molto più della nostalgia di casa.
Ignoto assoluto e ignoto relativo sono luoghi geografici . Potremo forse parlare anche di un “ignoto personale”. Nel senso di esplorare le sensazioni, le emozioni e i limiti che abbiamo dentro di noi. Qui c’è ancora tanto da fare.
Secondo me esiste un ignoto assoluto ed un ignoto relativo. L’ignoto assoluto fa parte dei luoghi dove nessun essere umano è mai stato o forse dove qualcuno è stato ma da dove non è tornato o se è tornato non ha lasciato nessuna traccia ai posteri. L’ignoto relativo fa parte dei luoghi dove singolarmente non siamo mai stati ma dove altri sono invece andati.
Di ignoto assoluto ce n’è sempre meno ma di ignoto relativo ce n’è ancora tanto. Il fatto stesso di andare in un luogo dove non si è mai stati senza documentarsi o documentandosi poco è già un modo di affrontare l’ignoto. Uno dei significati del termine “avventura” è proprio questo: impresa rischiosa ma attraente e piena di fascino per ciò che vi è in essa d’ignoto o d’inaspettato. L’avventura, per essere tale, deve contenere l’ignoto ma questo non significa necessariamente che il mio ignoto sia ignoto a tutti, ci sono diversi livelli.
E’ chiaro che l’avventura con la A maiuscola è quella che contempla l’ignoto assoluto ma non per questo bisogna disdegnare l’ignoto relativo. In ultima analisi si potrebbe ragionevolmente sostenere che l’alpinismo contempla sempre qualcosa di non noto, piccola o grande che sia, perché le variabili in gioco sono numerose però è altrettanto vero che in un’ottica del confronto si devono necessariamente mettere dei paletti.
A questo punto vorrei fosse chiara una cosa, non è che io ce l’abbia coi confronti, non ce l’ho nemmeno con una sana competizione, dico semplicemente che non si può col confronto uccidere la fantasia. Per me andare in montagna costituisce un’esperienza unica e irripetibile in quanto personale anche se ciò non significa che altri non possano vivere tale esperienza. Il fatto è che ciascuno la vivrà in maniera diversa perché non proverà le stesse identiche sensazioni. L’avventura diventa tale anche in base alla predisposizione d’animo con cui viene affrontata, l’gnoto può essere affrontato con spirito agonistico oppure con spirito contemplativo, la qual cosa non significa sedersi in meditazione e cercare di sentire il suono dell’OM. Affrontare l’ignoto con spirito contemplativo significa per me immergersi in esso e vederlo per quello che è, non solo ed esclusivamente come un ostacolo da superare per andare oltre. Ulisse, citato da Alberto, affronta sì l’ignoto per tornare ad Itaca ma rimane anche per un anno intero fra le braccia di Circe. Ulisse l’ignoto lo vive fino in fondo e in tutti i suoi aspetti.
Alla fine dei giochi credo che ciascuno di noi dovrebbe cercare il proprio ignoto, anche se sono consapevole che l’orizzonte di coloro i quali l’ignoto l’hanno affrontato molte volte è decisamente più ristretto rispetto a quello di coloro i quali si son sempre mossi nei soliti ambienti e han sempre fatto le medesime cose.
Se parliamo di tecnologie entriamo in altri campi dei quali si è già parlato, che si potrebbero ancora discutere fino alla nausea ma che non hanno nulla a che vedere con la voglia di avventura, se non di avventura preconfezionata. Anche le falesie a prova d’imbecille che vengono acclamate a gran voce ne fanno parte non serve andare tanto in là… ma questo è la massa… chi ricerca l’avventura fa parte di altre categorie…
Certo la mediatizzazione delle spedizioni fa rilassare gli intestini, ma i costi di una spedizione sono sempre stati piuttosto elevati e se gli sponsor una volta richiedavano propagande del tipo altissima e purissima oggi chiedono quello… specchio dei tempi al quale ti adegui o ne hai tanti senza bisogno di nessuno (ma quelli fanno altre cose, magari giocano a golf ma mai visti a fare spedizioni sulla parete Rupal…)
> Ci sono i satelliti, c’è Google Maps che ti fanno vedere anche le formiche.
voilà 🙂
Stefano quando scrivo che manca l’ignoto non intendo dire che non ci sono più cose nuove da fare.
Certo che ci sono. ma per pensarle e farle ci vogliono occhi per vedere. Ma ci sono sempre voluti, anche quando era tutto molto più evidente.
Oggi manca l’ignoto perchè il mondo è tutto esplorato. Di terre misteriose , inesplorate non ce ne sono più. Ci sono i satelliti, c’è Google Maps che ti fanno vedere anche le formiche.
Per trovare l’ignoto bisognerà andare a scalare su Marte.
Poi, grazie o purtroppo (per me purtroppo) , al computer, c’è la mania di raccontare in diretta, al mondo, tutto quello che avviene minuto per minuto in una spedizione.
Anche questo contribuisce a distruggere l’ ignoto.
questi giorni vagano per il Ciad alla ricerca di nuove emozioni mai scalate…
Il nuovo c’è e c’è sempre stato basta saperlo vedere!
Il Nuovo Mattino nacque negli ambienti torinesi ma si espanse nello scritto, inglobando (involontariamente?) tutto un movimento culturale che si faceva largo dalle fabbriche, alle scuole, fino ai monti. Una volontà di liberarsi di vecchi canoni e vecchie ideologie reazionarie (chiesa, patria, famiglia) implose causando due guerre mondiali ed una guerra fredda in atto… Messner non era torinese ma i suoi scritti non si differenziano nei concetti.
Il nuovo dall’Anerica? Si pensava così di certo, oggi, guardando indietro non appare tanto scontato, direi piuttosto che avvenne uno scambio culturale, da e verso, che alla fine portò all’omologazione sportiva e si fagocitò la rivoluzione!
Dall’est intanto si aprivano nuove strade che vennero comprese molto dopo (erano comunisti, per gli americani il Ba-Bau, per gli europei pericolosi soggetti da tenere a freno nonostante le sedicenti aperture…) e che realizzarono capolavori come “Weg durch den Fisch” in Marmolada, Kukuczka ed il suo speciale modo di vivere gli ottomila (a Messner con i suoi sponsor occorsero ben 16 anni a completarli con tre nuove salite ed una variante, a Jerzy, elettricista poveraccio di Katowice solo 8 anni con dieci nuove salite, 4 invernali e difficolta nettamente superiori, ma Messner docet e Kukuczca requiescat sine laude o ben poche…), l’affaire Cesen e lo sputtanamento occidentale dettato da vecchie cariatidi tipo Elizabeth Hawley che ci azzecca ‘na minchia con le salite ma fa il bello e il cattivo tempo con buona pace di tutti …
Oggi di nuove realtà che si gustano l’ignoto ce ne sono e molte, non così di bonattiana memoria (plateali e catastrofiche… ma fu figlio del suo tempo e si ruppe gli zebedei mollando l’alpinismo e seguendo strade più interessanti e fuori dalla pista…) mi vengono in mente i miei colleghi trentini che in
faccio un invito a Ugo Manera, che ha vissuto da protagonista quel periodo, ad intervenire. Anche per dirci che abbiamo scritto tante bischerate.
> Ma mancano dell’ IGNOTO.
Io invece apprezzo molto questo punto, Alberto, che mette il dito nella “piaga”.
Tra l’altro proprio il qui citato Alex Honnold, purtroppo, è co-protagonista di una ideologia di quello che chiamo al volo: anti-ignoto, in una vicenda raccontata in articolo che uscirà presto su questo blog.
Stay tuned.
Complimenti Antonio il tuo è un intervento bellissimo.
Perchè le gesta di Honnold non sono epiche come quelle di un Cassin , di un Bonatti?
Le imprese di Honnold sono delle grandi prestazioni sportive, tecniche, fisiche e mentali. Non è roba per tutti. Su questo non c’è dubbio.
Ma mancano dell’ IGNOTO. I grandi alpinisti del passato andavano verso l’ignoto. E’ l’ignoto che rende un’impresa epica e crea il mito. Ulisse andava verso l’ignoto.
Oggi questo mondo è diventato piccolo e l’ignoto, qui sulla Terra, non esiste più.
Il saper raccontare poi è fondamentale per trasmettere a chi legge le emozioni. Ma oggi le prestazioni sono troppo sportivizzate, l’aspetto tecnico prevale e questo credo mini molto il racconto.
Dal punto di vista etimologico la parola mito significa racconto. Nel linguaggio comune questa parola viene utilizzata anche per identificare il protagonista od i protagonisti di tale racconto.
Honnold, tanto per fare un esempio, racconta sè stesso attraverso le immagini e, pertanto, la suddetta identificazione risulta più semplice ed immediata. Nonostante ciò sembra che manchi qualcosa, le gesta di Honnold (ma potrei citare altri fenomeni della nostra epoca) sembrano non avere la stessa dimensione epica di quelle di Bonatti o di altri alpinisti del passato.
A questo punto, considerato il livello tecnico mediamente raggiunto, in parte sicuramente frutto della tecnologia, ci si può ragionevolmente domandare quanto la capacità di raccontare e raccontarsi incida sulla nascita del mito. Secondo me molto.
Con questo non voglio dire che senza le elucubrazioni di Motti non ci sarebbe stato il Nuovo Mattino ma molto probabilmente i cambiamenti sarebbero stati vissuti diversamente. Oggi siamo di fronte ad una mancanza di contenuti o piuttosto ad una incapcità di raccontare in maniera adeguata ciò che sta’ succedendo? A volte mi chiedo se i giovani (e anche qui bisognerebbe capire a chi ci riferiamo, se ai ventenni, ai trentenni, ai quarantenni, perché il concetto di giovane non è più lo stesso degli anni sessanta-settanta) non stiano in realtà comunicando qualcosa d’incomprensibile per un ultra cinquantenne come me.
A volte mi capita di leggere resoconti di realizzazioni di un certo livello ma scritti talmente male da farmi passare la voglia di continuare a leggerli fino in fondo, col risultato di perdermi probabilmente per strada qualcosa d’interessante. Di contro mi capita d’imbattermi in video ben fatti sul piano tecnico ma incapaci di trasmettere le sensazioni interiori, poveri di una regia che riesca a portare lo spettatore oltre le immagini.
Fatte le suddette considerazioni rimane la questione dei contenuti. Quali erano i contenuti del Nuovo Mattino? A parte quanto evidenziato da Alessandro col Nuovo Mattino si è avuto il defintivo riconoscimento dell’arrampicata come disciplina autonoma unitamente alla valorizzazione delle strutture di fondo valle, in precedenza relegate al rango di palestre. Inoltre ci si è gradatamente liberati dalla tecnica artificiale con cui si superavano i passaggi più difficili. Stiamo parlando di cambiamenti importanti il cui eco risuona ancora oggi ed il fatto che alcuni di questi cambiamenti abbiano in realtà avuto origine oltreoceano nulla toglie a certe intuizioni. D’altronde anche i grandi esploratori spesso non hanno scoperto nulla di quanto già conoscevano i nativi delle zone esplorate.
Sono assolutamente d’accordo con Stefano Michelazzi quando scrive “il problema” la linea che si vede e si immagina di salire, ghiaccio, roccia, neve o tutti assieme, non importa quale sia l’elemento ma conta la linea quello dovrebbe essere il vero mito…!
Perché sono d’accordo? Perché quella linea non la racconti, la puoi solo salire. La si potrà descrivere ma in ultima analisi, quando la si sale, si è da soli con essa e l’esperienza che si fa è unica e irripetibile. Questa esperienza purtroppo viene spesso svilita dai confronti, dalla gradazione, da cose insomma che sanno di sport, senza per questo voler sminuire l’attività sportiva che però è un’altra cosa, almeno a livello di contenuti.
In questo periodo storico in cui le grandi realizzazioni vengono facilmente mediatizzate colgo una carenza di contenuti anche se mi rendo perfettamente conto che per un ventenne potrebbe non essere così. D’altronde il ventenne cresciuto con forme di comunicazione diverse dalle mie potrebbe non essere in grado di fare dei confronti. Per dirla in parole povere non mi appassiono! Di contro mi appassionano le salite degli inglesi ed il motivo è abbastanza semplice e sintetizzabile in una sola parola: AVVENTURA. L’alpinismo deve essere fondamentalmente un’avventura, se non lo è diventa sport. Se ciò che conta è la mera prestazione siamo nell’ambito dello sport, se ciò che conta sono i numeri, i tempi, i gradi, siamo nello sport.
Nel Nuovo Mattino si è avuto un perfetto connubio fra l’avventura e la capacità di raccontarla. Oggi spesso c’è la prima ma manca la seconda e se c’è la seconda manca la prima. Intendiamoci, queste considerazioni non hanno valore assoluto perché il Nuovo Mattino ha riguardato la nostra società e il nostro modo d’intendere il rapporto con la montagna ma d’altronde è sempre stato così. Uno come Apa sherpa che è salito 21 volte sull’Everest credo che a leggere tutte queste elucubrazioni si farebbe delle gran risate.
Giorgio, con il Nuovo Mattino Messner non c’entrerà ma non si può negare che ha indicato una nuova strada…..: “Calza gli scarponi e parti. Se hai un compagno, porta con te la corda e un paio di chiodi per i punti di sosta, ma nulla di più. Io sono già in cammino, preparato a tutto: anche a tornare indietro, nel caso che io m’incontri con l’impossibile. Non ucciderò il drago; ma se qualcuno vorrà venire con me, proseguiremo assieme verso la vetta, sulle vie che ci sarà dato di percorrere senza macchiarci d’assassinio.”
E questa nuuova strada non era un cambiamento da poco.
Quanto agli eroi e antieroi. Gli alpinisti non sono eroi. Gli eroi, per me, sono altri.
Per quel che sò, Reinhold Messner non c’entra niente con il Nuovo Mattino.
Ognuno si sceglie i propri eroi (ed i propri antieroi, semmai).
“Non mi pare che i vivi rimasti siano diventati colletti bianchi.”… li conosci tutti Giorgio?
Il mio, se non si fosse capito, era un parallelismo tra alpinismo e vita di ogni giorno, tra i moti che dal ’68 arrivarono al ’78 e quindi tra i soggetti umani che li animavano da una parte e dall’altra. Reinhold Messner che scrisse “7° Grado” nel 1974, Bibbia alpinistica dell’Epoca e non solo, secondo te era lontano da quella rivoluzione culturale del Nuovo Mattino?
Evito di approfondire sull’argomento perché non la finiremmo più, ma continuo a pensare che eroicizzare nessun eroe sia pratica poco costruttiva!
Senza per questo togliere lustro a nessuno ma tentando di vedere con realtà e non con romanticismo altrimenti siam tutti buoni ma non mi risulta!
“Ed i sognatori del Nuovo Mattino?”
Bhe, il “sognatore” non è più tra i vivi.
Ma si può chiedere a qualcuno “di loro”, che è tra noi.
Alessandro per esempio. Ha parlato (nell’intervista qui pubblicata interamente).
Quello ho capito dalle sue parole è l’assenza di un collettivismo.
Ci furono destini individuali diversi.
Non mi pare che i vivi rimasti siano diventati colletti bianchi.
Semmai.
Alessandro Gogna, è per una sua via.
Ugo Manera, ogni tanto dice.
I morti non parlano e restano “miti”.
Sta a noi interpretare.
La storia.
sul bellissimo programma AVVENTURA ho trovato questo commento:
“Joe Cocker e Avventura: così, bambini, scoprivamo il mondo. In bianco e nero, sul primo dei due canali della tv (Rai è superfluo, c’era solo lei). Chi viaggia attorno ai 50 anni ha il pudore di non chiamare cult quel programma di Bruno Modugno che però attendeva per tutta la settimana nello rarefatto palinsesto della tv dei ragazzi che iniziava alle 17.45. Il razzo che ti portava in orbita ogni venerdì pomeriggio era She came in Through the bathroom window che cantata dai Beatles (chiedo scusa) metteva giusto allegria, mentre urlata da Joe Cocker ti sparava in corpo tutta l’adrenalina possibile. E’ ancora lì, dopo tanti anni, ficcata nel cervello, tra le sinapsi addette al piacere, alla nostalgia, effetto madeleine o ratatouille, come preferite.
Correva l’anno 1969 e da allora, nei dieci anni seguenti, la Rai trasmise un’ottantina di puntate di mezz’ora ciascuna basate su documentari, molti autoprodotti dagli autori (che allora gareggiavano alla pari con la Bbc in quanto a bravura ma con assai meno mezzi) e reportage che ti facevano davvero girare la testa e il mondo. L’ideatore e conduttore Bruno Modugno, con l’aiuto di Sergio Dionisi, William Azzella e Mino Damato, univa cultura e divulgazione e ti spingeva a correre in biblioteca per saperne di più dei faraoni, del polo sud, degli animali selvaggi della Rift Valley. Un capolavoro. E alla fine ci pensava la malinconica A Salty Dog, dei Procol Harum, a salutarti dando inizio all’attesa della prosssima puntata. Chissà se Joe Cocker l’ha mai saputo.”
bravo Stefano. Si era AVVENTURA. bellissimo
AVVENTURA Alberto… si chiamava così e qullo sì che era un mito di trasmissione… 🙂
Stufo di grattare coi “trombini” (gli stivali di gomma in uso allora) negli antri carsici e scalare colonne calcitiche piene di fango, ho scoperto che la roccia esterna mi dava molto di più, i miti son arrivati dopo e a vent’anni è abbastanza comune.
Cos’è il mito in alpinismo? L’alpinista? Se così fosse non avremo mai avuto il primo salitore che ha dato l’avvio a questo ambaradam…
Il mito è “il problema” la linea che si vede e si immagina di salire, ghiaccio, roccia, neve o tutti assieme , non importa quale sia l’elemento ma conta la linea quello dovrebbe essere il vero mito…!
Come dicevo, gli inglesi che le pareti le hanno esaurite da un pezzo e son costretti in patria ad inventarsi nuovi orizzonti sulle stesse linee, probabilmente proprio per questa carenza di terreno, l’hanno capito e stanno esplorando a tutto spiano, mentre noi rimaniamo ancora a chiacchierare di chi e quando ed a domandarci come mai l’alpinismo del meridione alpino si vede poco sulla scena internazionale…
Aldilà che almeno in alpinismo sarebbe bello mettere da parte i nazionalismi e vedere soltanto le salite, ma è indubbio che culture diverse diano risultati diversi.
Ultimamente mi è capitato di leggere già diverse volte sui libretti di via in Valle del Sarca, commenti di salite in lingua araba, non conosco la scrittura e quindi non so interpretare da dove siano arrivati questi scalatori, ho diversi contatti sul mio profilo fb di origine mediorientale e anche più in là e vedo che senza tanti problemi questa gente scala e sembra pure molto bene…. sarà che il loro mito è diverso dal nostro?
Probabilmente se la smenano meno o per niente su spit no spit e balle varie e puntano al risultato senza tanti nomi da emulare…
Stefano io di sogni ne ho avuti tanti . Nonostante l’età e le esperienze vissute ne ho ancora. Poi da li a realizzarli ce ne corre. Alcuni dei miei compagni di scuola che erano i primi a contestare la scuola e a promuovere lo sciopero, li ho ritrovati molti anni dopo in divisa o a fare i direttori di banca.
Da rivoluzionari a direttori di banca…….
Quelli del Nuovo Mattino negli anni giovanili hanno cercato di dare uno scrollone all’alpinsimo classico, un pò come i sassisti della val di Mello e altri. Gli anni passano…… e anche loro magari hanno fatto come alcuni dei miei compagni di scuola….si sono omologati al sistema.
Fulvio io ho inizito a scalare perchè mi sono sempre sentito attratto dalla montagna e dai luoghi impervi in genere. Mi ricordo un programma della TV (non ricordo il nome del programma) se non ricordo male come colonna sonora c’era una canzone di Joe Cocker, dove in copertina c’era una scena di un alpinista che faceva un pendolo. Ne rimasi affascinato.
Se è vero quello che scrivi te: il mito alpinismo divora se stesso. Allora non dovrebbe esistere l’alpinismo. Tutto nell’attività umane è destinato ad essere superato. E anche, putroppo sconsacrato. Ma questo è diverso perchè tutto va inquadrato nella sua epoca e la storia non va cancellata come invece, oggi, tanti tendono a fare.
Ma come si fa a rinunciare al mito?
Non credo che Cassin, Gervasutti, Bonatti o Desmaison volessero diventare dei miti. Semplicemente lo sono diventati per quello che hanno fatto o meglio per come lo hanno fatto. Era logico che, chi sarebbe venuto dopo avrebbe voluto misurarsi con questi miti . Sicuramente per assaporare l’emozione , per immedesirmarsi.
C’è stato un momento nella storia dell’alpinismo dove sono state più importanti le prime ripetizioni di alcune vie (ad esempio quelle di Cassin), piuttosto che cercare di aprirne di nuove.
Inseguire il mito di Cassin, della Walker era più importante.
Parliamo solo di etica “tecnica” o di etica tout court?
Voi perché avete cominciato a scalare?
Io perché volevo imitare i miei miti o toccare con mano qualcosa di mitico.
Come me migliaia di altre persone. Ma tutto questo ha stravolto quegli stessi luoghi che prima erano mitici.
Certo che i grandi alpinisti sono stati e restano mitici. Ma se oggi luoghi e gesti sono miti “sconsacrati, la “colpa” è di chi ha creato quel mito.
Possiamo ripetere le vie con meno mezzi, ripeterle senza chiodi o lasciando meno tracce possibile, ma quel luogo non sarà mai più lo stesso, perlomeno fino a quando il suo “mito” richiamerà le masse.
Dopo la “prima” non sarà che una ripetizione e la prima ha aperto la strada a quella “sconsacrazione” di cui poi in seguito ci si lamenterà.
Se non ci fossero stati alpinisti a rendere “mitico” il Monte Bianco, non sarebbe mai nato un reality dal titolo “Monte Bianco”.
Per questo parlo di mito che divora se stesso. per questo motivo forse la cosa più etica che si potrebbe fare sarebbe la rinuncia al mito. Al volerlo diventare ma anche al seguirne le sue orme.
Mi rendo comunque conto che il mio è un ragionamento puramente retorico. Ma non vorrei che per un discorso sull’etica si fermasse alla tecnica. La vera etica nell’alpinismo dovrebbe abbracciare un ambito più ampio. Anche se farlo senza scadere nel moralismo non è facile.
Alberto la minestra non è mai cambiata, rimane sempre la stessa… quali sogni abbiamo avuto noi che hanno realizzato un cambiamento in meglio nella società??? E prima? Ed i sognatori del Nuovo Mattino?
Al massimo sono stati in grado di cambiare (o forse solo mescolare…) le regole del “gioco alpinismo” ma i sogni si son fermati lì e dieci anni dopo li ritrovavi in doppio petto e ventiquattr’ore a vendere prodotti bancari (non tutti ovviamente ma moltissimi)…
Oggi i sogni sono diversi, forse, anzi credo con certezza, non c’è una linea di tendenza comune ma arriverà anche quella prima o dopo com’è sempre stato, l’uomo è un animale che continua a mordersi la coda anche se l’ha persa da qualche millennio…!
Forse e solo forse, ciò che si può tentare di indicare loro è il rispetto verso l’ambiente, che nel nostro caso non era certo la cosa più importante e tentare quindi un’inversione di tendenza da uno sfruttamento da desertificazione ad una nuova coscienza collettiva sull’andazzo planetario in termini di natura ed ambiente e nella loro salvaguardia, sia per contemporanei che per i posteri…
Stefano non mi fraitendere, io non ce lo mica con i giovani. Lo so benissino che oggi ci sono giovani molto in gamba. Molto di più di quando io ero giovane…..
Se la società di oggi è quella che è , certamente non è colpa dei giovani, che se la sono trovata così come gli è stata consegnata.
La domanda che mi faccio io è? Hanno oggi i giovani i sogni che potranno cambiare questa società?
Perchè di certo sono loro che dovranno cambiare questa società che purtroppo tende a toglierci i sogni.
Ecco su questo ho qualche dubbio….
Alberto, anche tenere per sè i propri miti ed i propri sogni è come da termine “proprio” soggettivo… si vive più a lungo? Forse o comunque si sogna più a lungo, solo che quando il sogno rimane sogno e non più realizzazione dello stesso , alpinismo è un termine che riveste un “SOGNIFICATO” e non più un significato… almeno in divenire, i ricordi sfumano e rimane il gusto di bearsi del proprio passato giudicando il presente…
I giovani in gamba esistono e sono sempre esistiti (anche qui sul blog molte storie lo confermano) e non è screditandoli che si migliora!
Certo questa società attuale è evoluta in maniera anomala rispetto a quello che ci avevano fatto credere ma non è colpa dei giovani che son arrivati domani… e sarebbe il caso che ognuno di noi si rendesse conto che abbiamo contribuito a renderla così anche se con piccoli, quasi insignificianti (alla vista) comportamenti nostri del passato…!
“I miti… ma quando cresciamo? ”
“I ricordi romantici vanno bene per chi non ha più niente da dire.”
Io direi che a crescere troppo poi si rischia di non avere più nulla da dire. Forse mantenere vivo il bambino che dentro di noi e avere qualche mito , ci fa vivere (nel senso pieno del termine) a lungo.
Parole, perole, parole… parole, parole, parole… MIna e ALberto Lupo… bravissimi all’epoca, oggi piuttosto “obsoleti”…
Parlare, trovare idee nuove, possibili soluzioni… a cosa? Ad una visione di un mondo onirico realizzabile che ognuno di noi vede a suo modo…?
“Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male” diceva Casarotto in risposta ai soliti reazionari che dipingono da sempre un mucchio di sassi come fosse l’altare del bene universale, l’altare unico della realizzazione mistico-spirituale… Lo scrisse elegantemente ma probabilmente pensando: “Che puttanate!”
Ognuno di noi vive il suo di sogno e lo realizza in base ai tempi che sta vivendo, lo modella a seconda di come la società gli ha insegnato a modellare…
Le Alpi sono un richiamo e chi ci vive tenta di sfruttarle al massimo, chi non ci vive, vuole viverci e sfruttarle a modo suo ed il tutto incentrato sulla sopravvivenza personale sia fisica che psicologica e quindi se oggi la società richiede avidamente immagini e preconfezionamento è questo, che chi girella attorno a questo spezzone di mondo tenta di dare per sentirsi realizzato, acclamato mitizzato…
I miti… ma quando cresciamo? I miti van bene per i ragazzi che han bisogno di esempi e li ricercano per immedesimarsi poi con la maturità i miti dovrebbero lasciare spazio a quella razionalità che legge le persone e non l’immagine che noi vogliamo dar loro…
“Ah… che eroi, che eroe Comici (tanto per fare un nome spesso gettonato), altro che quelli di oggi, provassero oggi a scalare con gli stessi materiali…quello sì era un mito!” Mai letto o sentito citare nomi storici dell’alpinismo in questo modo?
Ma che direbbe allora Angelo Dimai che scalava cogli scarponi chiodati rispetto a Comici ???
Ci si sta parlando addosso credo e nel frattempo quei “senza montagne” degli inglesi ci stanno insegnando un’altra volta cosa significhi fare alpinismo, che ce n’è ancora molte di cime inviolate e che loro, mentre noi ci parlòiamo addosso, se le scalano…!
Il “Nuovo Mattino” è stata la conseguenza di una società che voleva scalzare i vecchi miti, che li dissacrava, non il contrario, non la creazione di nuovi miti ma l’eliminazione dei vecchi… specchio della società di allora e sua diretta conseguenza.
I ricordi romantici vanno bene per chi non ha più niente da dire.
L’etica non è una sola ed ognuno sceglie quale seguire o quale impostare per sè stesso, come dice Luca Visentini. Non eisistono i custodi dell’alpinismo perché l’alpinismo è una forma di realizzazione personale!
Non esiste sacralità della montagna perché è soltanto un mucchio di sassi…!
Se poi si vuole invece parlare di ambiente e di mantenimento del suolo che calpestiamo, per evitare di auto-eliminarci, allora il discorso cambia, ma non certo coi nuovi mattini…!
La parola “mito” è a mio avviso fuorviante, qui.
Fulvio tu dici: “Quando qualcosa diventa “mitico” tutti lo vogliono vedere, toccare, ripetere. E quando tutti hanno toccato, visto e ripetuto, il mito non esiste più.”
Bhe, io la vedo all’opposto: quando “qualcosa” diventa mitico, “tutti” NON lo vogliono più vedere, etc.
Il punto è cosa si intende con questo “qualcosa” ? E’ un essere umano, un alpinista ? E cosa si intende per “tutti” ? noi umani, gli alpinisti ?
Alessandro Gogna, cita in questo articolo, non a caso, l’articolo di Gian Piero Motti, che “chiude” il sogno di un periodo ed un luogo. C’è dopo un salto quantico, che si viene a discutere tra “loro”, sgomenti. O sbaglio ?
Ma allora cosa pensava Motti a riguardo “mito” ? Ne hanno ben parlato lui ad Alessandro. E non credo che loro due si parlassero nelle “lunghe telefonate in teleselezione” di quanto fosse mitico un Di Bona, o un Bonatti (“quello che non muore mai”…). Per dettagli si veda l’articolo su questo blog: “la pervicace ricerca del destino – parte 2”.
Poi, venendo a minori questioni chiaccherose di revisionismo storico:
Marcello, con parole tue, cosa dice Giovanni Pastine, nel suo libro, a discredito di Walter Bonatti ?
Alberto, il libro vedo che è in vendita presso le “migliori” librerie, ma sì! magari lo compro e se mi eccitano i contenuti (a leggere al didascalia, non mi pare, ma spero di sbagliarmi), allora cercherò di contattare personalmente Giovanni Pastine e lo intervisterò se vorrà.
Pappa per questo blog, no?
Ma prima, con priorità, devo ancora leggere la “storia dell’alpinismo” di Miotti.
E non è lettura che si fa in un week-end…
Ho citato Bonatti per fare un esempio conosciuto ai più, non certo perchè è stato l’essere perfetto . Ma potevo anche citare Lorenzo Massarotto . Molte delle sue vie sono tecnicamente difficili ma sempre realizzate con il principio della rinuncia. Con il principio che è l’uomo che si adatta alla montagna.
Massarotto non è un personaggio conosciuto ai più ma certamente per molti di noi un mito che ha indicato una strada, un nuovo mattino.
Marcello mi intereserebbe avere il libro di Pastine. Come si può fare?
Riguardo al mito di Bonatti consiglio la lettura di UNA STORIA DELL’ALPINISMO di Giovanni Pastine (classe 1933), un libro edito in sordina ma che se letto fan grandissimo rumore. Il mito di Bonatti non ne esce tanto luccicante. Non era mai successo! Rivoluzione?!
Ovviamente le vie logiche non sono infinite ma è pur vero che affollando sempre le stesse non le si cercano poi più di tanto. La via logica non necessariamente deve poi essere la via normale. In ogni caso si fa per parlare, Il punto della questione è che un auspicabile Nuovo Mattino deve necessariamente apportare un nuovo modo d’intendere l’andare in montagna e dai commenti che leggo mi pare d’intravvedere una certa sintonia di vedute.
Bonatti rimarrà sempre un mito, come per altri versi rimarrà sempre un mito Manolo, almeno per una certa generazione (magari per i giovani di oggi resterà più mito Ondra, non lo so) ma il mito dovrebbe rimanere un punto di riferimento non trasformarsi necessariamente in un soggetto da emulare. Dal mito bisogna anche sapersi svincolare e trovare una dimensione personale ma forse uno dei problemi è proprio questo, quello cioè di riuscire a dare un’interpretazione interiore a ciò che si fa. La faccio breve, se uno ripete una via di Bonatti per gustarne la bellezza, per tentare un impossibile processo d’immedesimazione ma per certi aspetti non del tutto vano, sicuramente percepisce qualcosa di profondo a livello interiore ma se ripete la stessa via nell’ottica di salire nel minor tempo possibile ritengo perda parecchio per strada. Se poi addirittura è talmente supponente da sentirsi come Bonatti credo non abbia proprio capito niente ma questo è un altro discorso.
Sull’importanza del “come” ci si pone di fronte alla montagna concordo però mi domando come si possa, al lato pratico, coniugare l’etica con la difficoltà. Passi una salita in diedro o fessura, si può essere più o meno invasivi, ma quando ci si mette in testa di salire una placconata liscia dove le alternative sono o salire alla Honnold o piantare degli spit che si fa? Cioè, c’è poco da discutere.. In questo caso un’etica di stampo Preussiano porterebbe quasi tutti a lasciar perdere. E a mio avviso un auspicabile Nuovo Mattino queste domande se le dovrebbe porre e trovare il modo di dare una risposta.
Si, ma anche la passeggiata nel bosco se la fai con la moto da trial, se il sentiero lo imbratti di segni di vernice, di cartelli indicatori che come un cordone ombelicale ti dicono metro metro dove sei e dove vai, se usi il gps senza metterci nulla di tuo. Se il fienile o il metato lungo il bosco lo trasformi in una rivendita di cocacola e panini ….anche la passeggiata nel bosco non è più etica.
Gli spit alla Sbarua e sulla fessura della Disperazione distruggono il mito e creano un luna park verticale. Chi vuole inseguire il mito per gustarne il sapore deve rispettare il messaggio lasciato da chi è passato prima.
Alberto, si hai ragione.
Quello che voglio dire è che è il mito della Nord del Cervino di Bonatti, che ha portato al Mito di “Ueli Steck” che la sale in meno di due ore.
Si parlava di etica e spesso è proprio la nascita del mito, a creare le precondizioni per la caduta dell’etica, o a rendere non più etico quello che in precedenza poteva essere accettabilmente tale. .
E’ mito di Hillary e dell’everest, a generare le migliaia di persone che oracalpestano quella cima, con i problemi etici che le spedizioni commerciali si portano dietro.
Nel mio piccolo, sono stati proprio i miti di Grassi, Motti, Gogna, anche per vicinanza geografica, a portare me e i miei amici, più bravi di me, a cercare linee nuove che ci sembrava etico proteggere con (pochi) spit.
Poi oggi se vado in Sbarua mi accorgo che non ho mai posseduto tanti rinvii allora, quanti ne servirebbero adesso per proteggere un tiro e mi chiedo se siamo stati davvero cosi etici. E’ il mito della Fessura della disperazione, ad aver fatto spuntare gli spit sulla mitica sosta di cunei di legno. Sono etici? Non lo sono? E’ etico creare qualcosa di mitico, sapendo che poi questo porrà nuovi problemi di etica? (domanda senza senso e chiaramente provocatoria).
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Per questo alla fine se parliamo di etica, trovo più etica una passeggiata in un bosco.
L’alba di un nuovo mattino tarda a spuntare, proprio perché c’è stata quella precedente. Chi oggi ci prova deve alzare tantissimo l’asticella o rinunciare al mito.
Deve essere un Ueli Steck o un Alex Honnold. Anzi dopo di loro qualcosa di più.
Fulvio il mito secondo me esisterà sempre. Esisterà non tanto nella realizzazione, nell’itinerario che ha risolto una parete, un problema. Esisterà nella persona che l’ha creato.
La via Bonatti alla nord del Cervino potrà essere sempre più ripetuta e quindi il misto della via scadrà. Ma Bonatti alpinista sarà sempre un mito per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.
Di linee logiche o semplici ce ne sono sempre di meno. Quindi è gioco forza rincorrere la difficoltà se si vuole continuare a salire. Ma non è questo il problema. Il problema è “IL COME” si supera la difficoltà. Il problema è come ci si pone difronte alla montagna.
E’ il mito dell’alpinismo che divora se stesso.
Quando qualcosa diventa “mitico” tutti lo vogliono vedere, toccare, ripetere. E quando tutti hanno toccato, visto e ripetuto, il mito non esiste più.
Altri per restare nell’etica hanno alzato il livello cosi tanto, che il mito non solo per la maggior parte di noi è irraggiungibile, ma anche incomprensibile.
Oggi trovo più etica in una gitta nel bosco mentre nevica, o nel cercare l’ultima riga di neve in una sconosciuta cima dell’appennino, che nelle imprese estreme di molti. Ma appunto, credo semplicemente di non capire.
E’ vero Luca, l’etica ognuno se l’aggiusta. Credo però che tutti noi, in cuor nostro, sappiamo riconoscere l’etica positiva da quella negativa. Lo percepiamo intuitivamente solo che per il perseguimento di determinati obiettivi preferiamo aggirare l’ostacolo (penso alle direttissime degli anni sessanta).
Penso che l’etica alpinistica più radicale sia stata scritta da Preuss nelle sei regole dello scalatore ma la sua applicazione su larga scala avrebbe comportato delle fortissime limitazioni. Certo, si può facilmente sostenere che Preuss sia pure morto in nome di tale etica, sicuramente è stato coerente e sappiamo quanto la coerenza sia una qualità rara, soprattutto ai nostri giorni.
Quando precedentemente ho scritto che la contemplazione dovrebbe prevalere sulla prestazione in realtà avevo in mente un aspetto ben preciso dell’andare in montagna. Mi rendo conto che la suddetta frase buttata lì così presti il fianco a considerazioni opposte, In realtà penso che, senza la prestazione, l’alpinismo nemmeno esisterebbe. Ciò che volevo dire, e questo deriva dalla mia modesta esperienza diretta, è che la prestazione fine a sè stessa lascia sovente una traccia nella nostra mente costituita da poche righe scritte sul diario di bordo (nel mio caso un foglio di word), riportanti la data in cui tale prestazione è stata realizzata. Ciò che invece tornano in mente con tutta la loro forza sono quasi sempre le sensazioni di pace e serenità provate percorrendo vie o sentieri non difficili od il sentiero di rientro al termine di un’esperienza montanara. Spesso mi chiedo, infatti, che senso abbia fare tanta fatica quando basterebbe molto poco per riappropriarsi di certe esperienze che la caotica vita moderna non ci consente di fare. Però è altrettanto vero che solo tramite la fatica si possono provare alcune delle esperienze sopra descritte.
Hai ragione Luca quando dici che siamo diventati schiavi del gesto e che “Un nuovo mattino sorgerà quando invertiremo la rotta, cominciando ad armonizzarci noi con la montagna selvaggia e non ad adattarla per i nostri capricci”. Concordo, ciò che manca è proprio l’armonizzazione con la montagna, armonizzazione che dev’essere prima di tutto interiore e poi esteriore perché solo quando ti senti parte di un qualcosa puoi entrare in sintonia con esso. E questo principio vale anche per le falesie. Qualche anno fa tirai giù da Internet un articolo di Maurizio Oviglia in cui spiegava come, secondo lui, sia possibile diventare dei bravi arrampicatori senza allenamento a secco ed evidenziava come la cosa più importante sia proprio quella di entrare in sintonia con la roccia abituando il corpo a muoversi in un ambiente a lui non consono, sostenendo che le trazioni al trave portano l’individuo a concepire un’unica tipologia di gesto.
Onestamente non so se un Nuovo Mattino arriverà velocemente e se sia già in atto, potremmo anche assistere ad un’ulteriore frammentazione di un’attività che fino agli anni settanta era percepita come unitaria. Forse i tempi per una netta separazione fra un alpinismo di stampo classico, portatore di certi valori, ed uno di stampo sportivo sono maturi e magari potrebbe per certi versi essere anche un bene perché si potrebbero prendere definitivamente le distanze da certe forme estreme con cui viene affrontata la montagna. Il piacere, per esempio, di salire una parete attraverso una linea logica, come facevano i primi scalatori, potrebbe già costituire una chiave di svolta, trasformarsi in una sorta di etica alpinistica tale da contrastare la continua ricerca delle difficoltà e ciò risulterebbe forse più facile in presenza di una separazione, perché allo stato attuale certe realizzazioni vengono poco pubblicizzate in quanto scarsamente interessanti sul piano del gesto. Con il formarsi di un’etica della linea logica, ovviamente su montagne dove ancora non è stata tracciata o dove comunque tali percorsi sono stati abbandonati perché sviliti da altri più impegnativi, potrebbe prender vita un approccio diverso, meno muscolare e più rispettoso dell’ambiente. D’altronde anche il concetto di difficoltà è soggettivo, dipende dai punti di riferimento, da cosa viene enfatizzato, se il gesto atletico o la ricerca, l’equilibrio o la capacità d’orientamento, le doti fisiche o quelle psichiche.
Arriverà veloce “un nuovo mattino” vedrete. E come prima spazzerà via il nostro vecchiume, saremo sorpassati. Forse stà già nascendo e non lo sappiamo, speriamo di esserci e di poter ammirare la nuova alba. Io continuo a vedere montagne deserte e, a volte, mi chiedo, dove sono gli alpinisti? Poi li so in coda all’attacco della via alla moda, li incontro nel supermarket delle divise, ed è lì che mi chiedo ancora dove sono gli alpinisti. Forse stiamo sbagliando qualcosa, diamo per scontato il valore dei nostri principi etici che fanno parte del passato, solo del nostro passato. Io fino al 1999 non distinguevo un abete da un larice ed il bosco era solo un ostacolo all’arrampicata, oggi sto molto attento dove metto i piedi perchè potrebbe esserci una fatta (merda di animale) interessante. Non so, per mè è cambiato molto ed in meglio ma forse non ho mai preteso di essere un grande alpinista e mi sono dedicato a un mucchio di altre cose dalla politica alla birra, dalle donne (sempre poche) al vino buono. Chissà… Mah… Forse nessuno degli addomesticatori di montagne sa, conosce la materia, gliene frega niente. Forse noi ci consoleremo dicendo “noi l’abbiamo vista la montagna selvaggia” ma è una ben magra consolazione. Beh? Chessifà? Come Blade Runner? “questi occhi hanno visto cose che voi umani…” Meglio di no. Proposte? Questo blog! …e si vedrà.
L’etica, ognuno se l’aggiusta. Dalle vie aperte “rigorosamente dal basso” (mi ha fatto sempre sorridere questa assurdità, superata ultimamente dalla trovata delle salite con l’elicottero) alle sole soste a spit. Poi, ci vogliono anni e anni per ripetere Brutamato YeYe, che mi dicono sia di un grado manco estremo…
E’ un mondo che non m’interessa e non mi appassiona. Ho provato piacere, avventura e libertà, la scorsa estate, a salire delle cime che ancora non conoscevo quassù nei miei dintorni.
Oltre alla gabbia della sicurezza si sta imponendo quella dello sport da tempo libero in versione divertimentificio e le condizioni naturali delle montagne si stanno sempre più compromettendo. Un po’ come per i fienili nei boschi, divenuti chalet per intrattenere il turista dell’albergo con una grigliata all’aperto.
Abbiamo anche noi le nostre responsabilità quando prendiamo in considerazione una via soltanto se ha la roccia buona (ottima, eccellente, spaziale…), se le sue soste sono “a prova di bomba”, se è comodamente avvicinabile, se ci consente dei movimenti eleganti, eccetera.
Siamo diventati schiavi del gesto. Ripetiamo, ogni domenica, gli stessi identici gesti. Scegliamo esclusivamente le vie certificate “belle” e “divertenti”, cioè le vie “scontate”. E la chiamiamo arrampicata libera!
Un nuovo mattino sorgerà quando invertiremo la rotta, cominciando ad armonizzarci noi con la montagna selvaggia e non ad adattarla per i nostri capricci.
“Sono sempre i sogni a dare forma al mondo
sono sempre i sogni a fare la realtà
sono sempre i sogni a dare forma al mondo”
Si Giorgio, adesso siamo nelle tenebre ma i sognatori ci sono ancora. Alla faccia di chi invece vuole una società preconfezionata e inquadrata da regole che sono fatte più per degli automi che per essere umani.
Non credo che la contemplazione dovrebbe prevalere sulla prestazione.
Credo invece che la prestazione dovrebbe fare i conti con l’etica. Non si puo fare tutto e a tutti i costi.
Una prestazione rispettosa del limite che va inseguito ma non distrutto. L’impossibile va salvaguardato.
Una prestazione rispettosa dell’ambiente che invece viene sempre più aggredito.
Effettivamente l’ultima frase di Alessandro, parrebbe dirci che si è “svegliato” male sta mattina.
Sto scherzando! Purtroppo forse si capisce una amarezza.
Mi piace la tu a ultima frase, Antonio: “L’etica dovrebbe prendere il sopravvento a scapito della difficoltà, la contemplazione a scapito della prestazione e se ciò dovesse inevitabilmente comportare un abbassamento del livello tecnico credo non sarebbe male.”
Sì che sarebbe “bene”, ma temo che un risveglio etico necessiti un lungo sonno prima, ed ora siamo nelle tenebre, perchè il fuoco serale è pressochè spento.
Buonanotte ai sognatori, quindi.
Un qualche sole risveglierà domani
sta umanità svilita
La prima volta che ho letto qualcosa in merito al Nuovo Mattino è stato nel 1985, quando ho cominciato ad arrampicare, e pertanto due anni dopo l’articolo di Motti. Di lì ad un mese si tenne la prima gara d’arrampicata a Bardonecchia, il resto è storia nota.
In quegli anni, almeno nell’ambiente che frequentavo, si tentava ancora di differenziare il free climbing dall’arrampicata sportiva sebbene oggi faccia fatica a ricordare su cosa si basasse tale distinguo (sono passati troppi anni). L’arrampicata pura, soprattutto a certi livelli, comportava per me un impegno esagerato e, tutto sommato, non mi interessava più di tanto. Successivamente ho trovato la mia dimensione nella percorrenza di sentieri alpinistici, attrezzati e non, facili arrampicate e anche giri senza capo né coda, camminando per ore ed ore senza vedere anima viva, per il solo gusto di trovarmi immerso nella natura.
Il Nuovo Mattino ha però continuato ad esercitare su di me un fascino particolare, quasi leggendario, e non avendolo vissuto direttamente posso essermene pure fatto un’idea parzialmente distorta.
Non so esattamente cosa voglia dire Alessandro con le parole conclusive le quali possono prestarsi a più interpretazioni. Volendo contestualizzare la nuova alba potrebbe souonare come uno scossone, paragonabile al Nuovo Mattino, accompagnato però dall’insicurezza che tale scossone possa effettivamente arrivare. Questa almeno è l’interpretazione che mi è venuta da dare a caldo.
Ora, non essendo un alpinista di punta e nemmeno una Guida Alpina (le due cose a volte coincidono), nè un accompagnaotre di mezza montagna e nemmeno un frequentatore dell’ambiente CAI (in pratica sono un lupo solitario che da solo o con qualche amico di lungo corso razzola per i monti) non conosco l’attuale situazione in maniera estremamente dettagliata. Ciò che però mi pare d’intravvedere è che l’alba di un Nuovo Mattino sia un po’ lontana, forse uno scossone come quello degli anni 70 l’alpinismo non l’avrà mai più. In quegli anni, che ho vissuto da ragazzino, si respirava un’atmosfera, anche culturale, diversissima rispetto all’attuale e non sto’ dicendo che si stava meglio quando si stava peggio ma semplicemente che si stava diversamente. Come qualsiasi attività umana l’alpinismo è diventato sempre più complesso e ciò ha comportato delle specializzazioni. Credo sia fuori di dubbio che si stia andando, se non si è già arrivati, ad una visione dell’alpinismo, diciamo pure del semplice andare in montagna, eccessivamente sportiva.
Una nuova alba potrebbe proprio essere costituita da un cambio di rotta, cioè dal passaggio da una visione di tipo muscolare ad una visione di tipo spirituale, nell’immaginare cioè la montagna come un luogo in cui la fusione psicofisica con l’ambiente assuma un ruolo determinante.
L’etica dovrebbe prendere il sopravvento a scapito della difficoltà, la contemplazione a scapito della prestazione e se ciò dovesse inevitabilmente comportare un abbassamento del livello tecnico credo non sarebbe male.
“E a distanza di più di quarant’anni alcuni di noi, un po’ infreddoliti accanto alle braci di ciò che resta di un lungo fuoco serale, sonnecchiano in solitudine ed aspettano una nuova alba, senza però avere più la sicurezza di una bella giornata di sole.”
Effettivamente vista la società di oggi che vuole tutti omologati e che ti vuole controllare e regolare ogni istante della vita , c’è da stare poco allegri .
Ci sarà un risveglio da questo stato in cui questa società che appiattisce tutto ci ha rilegato?
Ci sarà un “NUOVO MATTINO” ??