Sempre a proposito del bellissimo libro di Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare – I limiti morali del mercato, Feltrinelli, 2013, ci piace riprenderne ancora una tematica, quella del paragone tra sanzioni pecuniarie e tariffe.
Questo tema ci porta per via direttissima a ciò che rappresentano, per la nostra moderna società le “preferenze” utili al mercato.
Francesca Rigotti scrive giustamente: “Il fatto è, in buona sostanza, che c’è qualcosa di moralmente sbagliato nel pensare (come sembra fare l’economia di mercato) di poter allegramente massimizzare le preferenze senza considerare il loro valore morale, perché, ed ecco il punto, non tutte le preferenze hanno uguale peso. E questo non l’ha certo scoperto Sandel bensì la critica liberal-egualitarista all’utilitarismo, che pure Sandel ha avuto il pregio di rispolverare e mettere in bella mostra. Non si possono mettere sullo stesso piano le preferenze per la velocità sulla strada, il fumo e, caso estremo, la pedopornografia, e quelle per la protezione dell’ambiente, la sicurezza stradale o il silenzio. La salute, l’ambiente e la procreazione non sono merci come televisori e frigoriferi, sono beni di altra natura e meritano diverso trattamento”.
Sanzioni pecuniarie contro tariffe
di Michael J. Sandel
Qual è la differenza tra una sanzione pecuniaria e una tariffa? Vale la pena riflettere sulla distinzione. Le sanzioni pecuniarie contemplano una disapprovazione morale, mentre le tariffe sono semplicemente prezzi che non implicano alcun giudizio morale. Quando imponiamo una sanzione pecuniaria a chi getta l’immondizia per terra, stiamo affermando che gettare l’immondizia per terra è sbagliato. Gettare una lattina di birra nel Grand Canyon non solo impone costi per la pulizia, ma riflette una cattiva condotta che noi, come società, vogliamo scoraggiare. Supponiamo che la sanzione pecuniaria sia di 100 dollari e che un ricco escursionista decida che vale la pena avere la comodità di non doversi portare i vuoti fuori del parco. Egli tratta la sanzione pecuniaria come una tariffa e getta le lattine di birra nel Grand Canyon. Sebbene paghi, pensiamo che abbia fatto qualcosa di sbagliato. Trattando il Grand Canyon come un costoso cassonetto per l’immondizia, egli non è riuscito ad apprezzarlo in un modo appropriato.
Oppure consideriamo le aree di parcheggio riservate ai disabili. Supponiamo che un indaffarato imprenditore fisicamente sano voglia parcheggiare vicino al proprio cantiere. Per la comodità di lasciare l’auto in un posto riservato ai disabili, è disposto a pagare la sanzione pecuniaria piuttosto alta; la considera un costo del fare business. Benché paghi la sanzione pecuniaria, non pensiamo forse che stia facendo una cosa sbagliata? Egli tratta la sanzione pecuniaria come se fosse semplicemente una costosa tariffa di parcheggio. Ma così non ne coglie il significato morale. Trattandola come una tariffa, egli non riesce a rispettare i bisogni dei portatori di handicap e il desiderio della comunità di provvedere a loro predisponendo appositi spazi per il parcheggio.
La multa di 170.000 euro per eccesso di velocità
Quando le persone trattano le sanzioni pecuniarie come tariffe, trasgrediscono le norme che tali sanzioni esprimono. Spesso la società reagisce. Alcuni automobilisti benestanti considerano le multe per eccesso di velocità il prezzo da pagare per guidare alla velocità che desiderano. In Finlandia, la legge tende a contrastare questo modo di pensare (e di guidare) stabilendo le sanzioni pecuniarie sulla base del reddito del trasgressore. Nel 2003, Jussi Salonoja, l’erede ventisettenne di un’industria di salsicce, fu sanzionato con 170.000 euro per aver guidato a 80 chilometri all’ora in una zona con il limite di 40.
Salonoja, uno degli uomini più ricchi della Finlandia, aveva un reddito di sette milioni di euro all’anno. Il precedente record per la sanzione pecuniaria più salata per eccesso di velocità era stato quello di Anssi Vanjoki, un dirigente della Nokia, la compagnia di telefoni cellulari. Nel 2002, fu condannato a pagare 116.000 euro per aver attraversato Helsinki sulla propria Harley-Davidson a una velocità eccessiva. Un giudice ridusse la sanzione quando Vanjoki mostrò che il proprio reddito era crollato, a causa di un calo nei profitti della Nokia.
Quel che rende le multe finlandesi per eccesso di velocità delle sanzioni pecuniarie piuttosto che delle tariffe non è soltanto il fatto che variano col reddito. È anche l’obbrobrio morale che vi sta dietro – il giudizio che violare i limiti di velocità è sbagliato. Anche le imposte progressive sul reddito variano col reddito e tuttavia non sono sanzioni pecuniarie; il loro fine è aumentare le entrate, non sanzionare la produzione di reddito. La sanzione per eccesso di velocità di 170.000 euro della Finlandia mostra che la società non vuole soltanto coprire i costi della condotta pericolosa; vuole anche commisurare la punizione all’illecito – e al saldo del conto corrente di chi lo ha commesso.
Malgrado l’atteggiamento sprezzante nei confronti dei limiti di velocità da parte di alcuni ricchi individui che corrono al volante, la distinzione tra una sanzione pecuniaria e una tariffa non viene facilmente cancellata. In molti posti, essere fermati e sanzionati per la velocità eccessiva lascia ancora uno stigma. Nessuno pensa che l’agente stia semplicemente riscuotendo un pedaggio o che stia presentando al trasgressore il conto per la comodità di un tragitto più veloce. Recentemente sono incappato in una curiosa proposta che chiarisce bene il punto, mostrando a che cosa effettivamente assomigli una tariffa sulla velocità, a differenza di una sanzione pecuniaria sulla medesima…
Considerazioni nostre
Imporre una sanzione pecuniaria a chi, per esempio, percorre un fuoripista è dunque, secondo Sandel, sinonimo dell’affermare che andare in fuoripista in regime di divieto è sbagliato moralmente.
Le sue considerazioni sono valide per i casi che lui cita, vale a dire il gettare la lattina di birra nel Grand Canyon oppure il posteggio nell’area disabili oppure ancora l’eccesso di velocità.
Sono tutti e tre comportamenti che la maggior parte della gente sente come NON propri, alieni da una società civile. Teoricamente non ci sarebbe alcun bisogno di divieti per la maggior parte dei cittadini. Siamo tutti d’accordo, a parole; e quasi tutti d’accordo, a fatti.
Il caso del fuoripista o dell’arrampicata invece è molto più incerto. Il divieto è rivolto a tutti, ma non da tutti è condiviso eticamente. La maggior parte pensa che è diritto del singolo di fare attività sciistica e sportiva dove vuole e che fa parte del bagaglio di responsabilità individuale poter fare delle scelte. C’è il forte sospetto, nella maggioranza dei casi, che il divieto sia stato apposto sull’onda emozionale di qualche incidente e soprattutto per evitare eventuali grane politiche, giudiziarie e amministrative. C’è la quasi totale certezza che il divieto sia emesso ma faccia poi fatica, per pigrizia e inefficienza, a essere rimosso quando le condizioni siano mutate. C’è il sospetto che, se per qualunque motivo fosse possibile far pagare una tariffa per un percorso fuoripista o per la frequentazione di una falesia, di certo la quantità di divieti crollerebbe vistosamente. C’è infine il paragone con altre attività sportive, come ad esempio la balneazione, non soggette a regolamenti di alcun genere.
In conclusione sosteniamo che il ragionamento di Sandel è valido solo se esiste una vera condivisione etica e non quando la sanzione è comminata per aver infranto divieti senza alcun reale fondamento, bensì basati esclusivamente sulla moderna ossessione della sicurezza.
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Mi pare che Sandel (a giudicare da quanto letto nell’articolo), nel distinguere tra sanzione pecuniaria e tariffa, non faccia che ricordarci che la sanzione nasce per dare forza al precetto morale: senza questo binomio il diritto sarebbe inapplicabile.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che ogni precetto o decisione presa dall’autorità sia di per sé giusta e condivisa dalla collettività. Sono d’accordo, dunque, sul fatto che vi possano essere dei casi in cui colui che viola una norma possa non sentirsi moralmente colpevole.
Detto questo, però, l’ipotesi della violazione del precetto non mi sembra la soluzione migliore almeno per un paio di ragioni.
Punto uno, se ognuno (inteso non solo come singolo individuo ma anche come gruppo di interesse) cominciasse a stabilire da se ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, lo stato di diritto nel suo complesso avrebbe vita breve e si tornerebbe rapidamente allo stato di natura in cui vige la regola del più forte.
Punto due, si verificherebbe una discriminazione tra le persone (gli scialpinisti): coloro che si trovano in una situazione economica agiata potrebbero esercitare questo diritto di resistenza mentre coloro che non se lo possono permettere vi dovrebbero rinunciare.
L’unica soluzione, a parere mio, praticabile è quella di declinare il diritto di resistenza nel senso di esercitare la propria libertà di espressione, di opinione pubblica con l’obiettivo di coinvolgere la collettività e le istituzioni e giungere (chissà) alla rimozione del precetto (im)morale.
Il divieto è rivolto a tutti, ma non da tutti è condiviso eticamente. La maggior parte pensa che è diritto del singolo di fare attività sciistica e sportiva dove vuole e che fa parte del bagaglio di responsabilità individuale poter fare delle scelte. C’è il forte sospetto, nella maggioranza dei casi, che il divieto sia stato apposto sull’onda emozionale di qualche incidente e soprattutto per evitare eventuali grane politiche, giudiziarie e amministrative. C’è la quasi totale certezza che il divieto sia emesso ma faccia poi fatica, per pigrizia e inefficienza, a essere rimosso quando le condizioni siano mutate. C’è il sospetto che, se per qualunque motivo fosse possibile far pagare una tariffa per un percorso fuoripista o per la frequentazione di una falesia, di certo la quantità di divieti crollerebbe vistosamente.
Claudio de Grazia, da facebook 11 dicembre 2015
Premetto che non ho letto il libro di Sandel (e una brutta bronchite mi costringe a casa altrimenti non scriverei tutti ‘sti commenti) ma sono stato sanzionato dalla Polizia perché sciavo fuoripista con dei clienti giapponesi nella zona del Pordoi, sopra casa.
Ho fatto ricorso e il mio Collegio di appartenenza (Alto Adige a quei tempi, ora sono nel Veneto) mi ha gentilmente fornito un bravo avvocato/alpinista e siamo finiti in tribunale. Il giudice era uno scialpinista. Più culo di così…
La zona in cui sciavo era interessata da un ordinanza del sindaco del mio Comune di residenza e mio vicino di casa (questa si che era sfiga) che vietava il fuoripista perché le condizioni di innevamento erano pericolose. L’ordinanza risaliva a più di un mese prima e, si sa, le condizioni della neve cambiano e io quel giorno le avevo trovate sicure e quindi ho ignorato (come tutti i giorni) il cartello di divieto. Il poliziotto che ci ha fermati (rincorrendoci senza aratva né zaino e cadendo pure per l’alta velocità e la scarsa padronanza del mezzo) non aveva fatto che osservare l’ordinanza. Lui non aveva nessuna colpa, poveretto, visto che aveva preso pure una bella musata sulla neve.
Insomma in tribunale l’ho spuntata per vari motivi. Il giudice mi ha lasciato parlare per esporre i fatti e le mie supposte (da me medesimo) ragioni, in luogo del mio avvocato. L’ordinanza vecchia non poteva tenere conto delle mutevoli condizioni del manto nevoso. Un’eventuale valanga non avrebbe interessato piste o strade sottostanti (questo elemento è importantissimo perché in questo caso avrei avuto torto marcio, se lo ricordino guide e sciatori: al di sopra di piste, strade e case, la legge vieta -con un articolo degli anni 30- lo spostarsi in qualsiasi modo se si può provocare una valanga) e il cartello di divieto è stato paragonato dal giudice a quello stradale di CADUTA MASSI. Il segnale indica che la zona può essere interessata da caduta massi ma non significa che la strada non si può percorrere. Quindi l’ho spuntata a non si è creato, almeno dalle mie parti, un pericoloso precedente che avrebbe limitato pericolosamente la libertà.
Visto che ho tempo, dopo qualche settimana mi sono ritrovato davanti allo stesso giudice per discutere un ricorso fatto da me per una multa (ne faccio svariati se penso che la sanzione sia ingiusta e li ho sempre vinti) di divieto di sosta su un piazzale del mio Comune ricoperto dalla neve e dove la segnaletica orizzontale era quindi nascosta. Sedevamo davanti al giudice io e…il sindaco, sempre lui. Quando siamo entrati in aula il giudice riconoscendomi mi ha detto: salve Cominetti, come pensa che sarà la neve sabato sul Piz Boè che vorrei andarci con degli amici? Ho capito così che anche quella volta la sanzione non avrei dovuto pagarla. Per fortuna il sindaco dopo pochi mesi è cambiato.