Il secondo menisco

Metadiario – 225 – Il secondo menisco (AG 2000-001)

L’invito di Guya a trasferirmi da lei era chiaro, ma al tempo stesso io esitavo. Ero indeciso se andare ad abitare in via Lanzone 33, nei pressi della Cattolica: con un padrone di casa come Luca Marcora di certo mi sarei trovato bene, ma qualcosa mi diceva di non farlo. Ero perfino indeciso se davvero tagliare i ponti con via Scarpa, questo avrebbe voluto dire essere chiari con le bambine e dar loro una notizia per nulla buona.

A complicare le cose il mio socio Marco Milani mi aveva affittato un suo appartamento sito in via Morgantini 25… Credo di averci dormito una notte, da ottobre 1999 in poi fino a quando lo tenni, marzo 2001. Più che altro era per alloggiare i miei libri. Alla fine, verso gennaio 2000, mi convinsi e portai un po’ di cose in viale Sabotino 21a. Era una bella casa, di proprietà di Guya, molto luminosa e abbastanza silenziosa: l’esposizione delle camere da letto era proprio sui tram e sul traffico di viale Sabotino, ma al terzo piano molto rumore si dissipava. Dal soggiorno, invece, si godeva una bella vista su un appezzamento verde che si estendeva fino alle mura dei Bastioni di Porta Romana. Non c’era alcuna possibilità di trasferire i miei libri in quella casa.

Petra e Mumu, marzo 2000, viale Sabotino 21a, Milano

Quando ci misi piede la prima volta, l’incontro con gli animali di Guya fu abbastanza uno choc, collegato alla conoscenza della cugina Simona Bassi, che era in quel momento coinquilina. La personalità di Simona era travolgente, le due si erano messe d’accordo per vedere se e quanto mi stupissi a vedere le menomazioni fisiche degli animali, per poi riderne fino alle lacrime. L’unico sano e normale era il gatto Mumu, un bell’esemplare di felino “norvegese”; poi c’era il cane Pelucco, molto meticcio, che, sia pur festosamente, zampettava su solo tre zampe. L’anteriore sinistra era stata conservata nell’operazione dopo l’incidente ma era del tutto inservibile: ciò nonostante mi sarei accorto in seguito che Pelucco correva molto veloce, davvero da non credere. Quanto al secondo gatto, che era Tarantola, detta Tara, era il massimo dell’amore sviscerato per gli animali. Tara era stata tenuta e accudita amorevolmente, anche lei dopo un’operazione in seguito alla quale entrambi gli arti posteriori rimasero inerti e quindi “trascinati” durante la deambulazione. Molti animali in quelle condizioni vengono “terminati” dai padroni: con grande sollievo dei padroni legittimi, Guya l’aveva risparmiata rilevandone il possesso. Tara non andava d’accordo con il povero Mumu, trattato male quotidianamente in più occasioni.

Al fondo, in angolo, il portone d’ingresso di viale Sabotino 21a.

Un amico in comune l’aveva soprannominata “mocho vileda”, sia per il colore del pelo grigio che per la somiglianza d’uso del ben noto attrezzo per la pulizia domestica. Tara si spostava velocemente per tutta la casa, riuscendo anche a salire sui letti e sul divano grazie alle unghie delle zampe anteriori: si poteva star certi che inglobava tutti i batuffoli di polvere, quelli che i veneti chiamano le “gatte”. In seguito scoprii un altro particolare che la dice lunga sul carattere di Guya. Due volte al giorno doveva prendere Tara in braccio, disporla sul water, e provocarle la fuoriuscita di pipì e feci, perché non era possibile che potesse farlo da sola, anche questo in seguito all’operazione. 

A metà novembre, pensando di fare cosa gradita, iscrissi Guya ad un corso di arrampicata che si teneva al Golden Gym in ora da aperitivo, dalle parti di Porta Ticinese, sulla strada tra ambulatorio veterinario e casa.

Marzo 2000: Tara e Pelucco. Tara non è seduta: quella era la sua normale posizione.

Gli istruttori erano tutti amici miei, Andrea Sarchi era il proprietario, poi c’erano Pino Gidaro e Luca Biagini. La saletta con la paretina era assai sacrificata, in un buco al fondo della parte di palestra che rendeva soldi, quella con i macchinari. Del tutto priva di areazione, la puzza del sudore della clientela che si affannava con i muscoli in vista era stagnante. Presto mi resi conto che Guya frequentava le lezioni solo per compiacermi: non poteva essere motivata in un ambiente del genere. Pino e Luca facevano il possibile ma, quando dopo le prove degli altri allievi toccava a lei prodursi, ogni scusa era buona per non impegnarsi mai. Si stava verificando ancora la situazione di quando, allora tredicenne o forse meno, sulle piste di Cortina la madre l’aveva iscritta ad un corso individuale con un bravo maestro di sci. Questi faceva di tutto per farla sciare, ma poi cedeva di fronte all’invito che lei gli faceva di andare al bar, lui per bere un vov, lei per una coca-cola.
– Signora, la ragazzina forse non è molto portata… – aveva confessato il maestro alla madre. Alla fine Guya era riuscita a togliersi di dosso quelle che per lei erano solo fastidiose perdite di tempo.

Dopo un mese di quelle manfrine nella palestrina puzzolente fummo tutti d’accordo nell’interrompere le lezioni. Gidaro e Biagini se la ricordano ancora adesso l’allieva Guya…

Un attestato non si rifiuta a nessuno…
Pelucco

Nelle vacanze di Natale, trascorse a Levanto, fui come al solito impegnato nella scrittura testi per il volume III dei Grandi Spazi delle Alpi. Guya alloggiava in via Roma, in un appartamento gentilmente messo a disposizione: avevamo deciso di non rendere ancora pubblica la nostra liaison, pertanto i nostri incontri erano clandestini. Questo fu occasione di parecchi episodi divertenti, fino a che dopo capodanno non partimmo entrambi per l’Isola d’Elba, ospiti dell’amica Simonetta e di suo marito Maurizio nel villaggio di Nisporto. Fu una bellissima vacanza, il tempo fu mite e riuscii anche ad arrampicare un po’, mentre Guya mi faceva sicura. Fu allora che Simonetta mi definì un uomo “accomodante”, provocando le risa sgangherate dell’amica Guya. Ma forse non mi conosceva ancora bene. Ad ogni modo, ricordando questo episodio, Guya ed io ne ridiamo ancora oggi.

Guya Spaziani, marzo 2000, viale Sabotino 21a

Il 4 marzo 2000, sempre per le mie esigenze fotografiche, la portai in Val Camonica, a Cimbergo. Invece di visitare i classici luoghi turistici, per esempio il parco delle incisioni rupestri, trascorremmo l’ultima ora di luce alla ricerca di un luogo dove dormire nel van Transporter di proprietà della Edizioni Melograno: il luogo doveva essere tale da poter, la mattina dopo, fotografare le prime luci dell’alba sulla bellissima Concarena senza dover camminare. Ciò significava, per Guya, la prima notte in vita sua passata a cercare di dormire in un furgone decisamente non attrezzato a camper, senza riscaldamento né servizi chimici, in più ad una temperatura esterna davvero ostile.
In ogni caso andò tutto bene e al mattino, incurante del gelo, trascorsi un bel po’ di tempo a fare le foto. Quando il sole finalmente arrivò anche sul furgone, svegliai Guya e facemmo una ricca colazione. Il programma proseguiva con un trasferimento a Schilpario attraverso il Passo del Vivione.

Febbraio 2000, matrimonio di Luca Marcora, qui con sua figlia (a sinistra) e Petra.

Raggiunta la località Fondi 1280 m e posteggiato il mezzo, le feci calzare un paio di ciaspole e ci avviammo lungo la strada forestale che porta al rifugio della Bagozza 1580 m. Per un 2,5 km tutto andò bene, ma nelle ultime centinaia di metri Guya cominciava ad accusare la fatica, soprattutto a causa del movimento muscolare per lei del tutto inconsueto. Quando finalmente arrivammo alla radura dalla quale si vede il rifugio, non distante ma neppure vicinissimo, cominciarono le lamentele. Decisi di salire diritto evitando la parte finale della strada innevata che faceva un giro sulla destra. Questi ultimi metri furono letali, ma alla fine approdammo al rifugio. Era l’ora di pranzo e si vedeva del gran movimento sulla sinistra della costruzione: il sole favoriva il pasto all’aperto e la gente mangiava polenta e spezzatino a quattro palmenti. Per raggiungere quel cortile circondato dalla neve occorreva passare attraverso un corridoio abbastanza buio, o almeno che faceva quell’effetto, visto lo sbalzo di luce esterno-interno. Dietro un bancone si materializzò un ragazzotto, in tutta evidenza afflitto da qualche sindrome. Lo salutammo e lui, invece di risponderci, pronunciò un prolungato “beeella” all’indirizzo di Guya che mi seguiva, sudata fradicia, l’occhio spiritato e con ciocche di capelli che le ricadevano sugli occhi. La vista dei ricchi piatti di polenta e cacciagione le fece presto dimenticare la fatica e l’impressione di quel complimento. Per lei quel posto era fuori dal mondo, mai più si immaginava un’accoglienza del genere.

Febbraio 2000, matrimonio di Luca Marcora, Elena

Seguì l’operazione al secondo menisco, quella del primo risaliva a qualche anno prima. Dopo due o tre giorni ero già a Compiano per il lavoro dei corsi di formazione aziendale. Ma anche questa uscita fu “storica” perché assieme a me Guya erano le mie figlie! Era la prima volta che osavamo sottoporre a loro i cambiamenti familiari appena trascorsi. Per fortuna si conoscevano già, per via delle frequentazioni di Levanto. Andò tutto al meglio delle aspettative.

Nel frattempo avevo preparato una visita alla regione svizzera di Appenzell: alle consuete condizioni lavorative (articolo per rivista e capitolo per i Grandi Spazi delle Alpi) avevo rimediato un magnifico soggiorno in un hotel per una settimana. Il 13 marzo, sotto un fastidioso nevischio, da Wasserauen 870 m salimmo a piedi nella neve (pista battuta) fino al Seealpsee 1140 m. Non incontrammo nessuno e fummo anche fortunati perché al nostro arrivo uscì il sole. Ci aggiravamo tra le baite ordinate, in mezzo a chiazze di neve. All’esterno di una di queste, racchiusa dal muretto di cinta, spiccava una croce. Ci domandavamo il perché, non è normale seppellire qualcuno fuori casa.
– Sarà un cane… – concluse Guya.

Il tempo nei giorni dopo fu davvero brutto, avemmo solo modo di fare una foto panoramica dalla Scheidegg/Kronberg e, il 15, di andare da Brülisau al Sämtisersee 1200 m. Poi, viste le ulteriori previsioni e d’accordo con l’Ufficio del Turismo, decidemmo di tornare a casa e rimandare la visita all’estate.

La casa di Franco e Marvi Ribetti a Briançon, un po’ nascosta dalla siepe.

Franco Ribetti, in quella primavera 2000, era diventato magnifico proprietario di una bella villetta nei pressi di Briançon, in rue François Chabas del quartiere Forville. Per acquistarla aveva semplicemente venduto d’improvviso l’intera collezione dei suoi splendidi libri di montagna, alcuni di notevole valore. Non condividevo la sua scelta, però in quella casetta si stava davvero bene con vicini o assenti o discreti (anche se fanatici del barbecue). Ma il merito di quella serenità era soprattutto di Marvi e degli altri ospiti di diritto, i figli Erica e Marco con relative famiglie che, in qualche modo, riuscivano a non costituire affollamento a dispetto dei numeri.

Serre-Chevalier

Approfittai di un weekend in cui le bambine erano affidate a me per andare a Briançon e passare qualche giorno ad arrampicare e sciare. Il 18 marzo andammo alla Rocher Baron, una roccia di serpentino che si appoggia su bellissimi prati. Elena fece da prima la via Ventose (3b), mentre il giorno dopo andammo a sciare nel comprensorio di Serre-Chevalier. Con noi erano anche Franco, la sorella Erika e il simpaticissimo Filippo Colombo (figlio di Erika), più o meno coetaneo di Elena. Di lui ricordo una battuta divertente. Stavamo tornando a casa, il traffico era assai rallentato ed eravamo tutti impazienti di fare una buona merenda. Filippo se ne uscì con questa frase: “Sarà tutta colpa del solito camper di merda…!”.
“Belle cose che t’insegna il nonno”, fu il commento di Erika che sotto sotto gongolava.

La parete nord-est della Concarena (Val Camònica)
Dal rifugio della Bagozza, visuale sul Cimon della Bagozza con l’evidente sperone roccioso salito da Riccardo Cassin.

L’uscita di fine-settimana in quel di Briançon mi convinse che la mia convalescenza da menisco era terminata. Così decisi che sarei andato con Marco Milani allo Schwarzenstein 3369 m.
Era passato un anno dalla nostra visita in Valle Aurina, quando eravamo stati costretti dal maltempo a tornare a casa senza poter salire lo Schwarzenstein (Sasso Nero). Questa volta il tempo era buono e decidemmo senza indugi. Questa montagna è una delle cime più alte della valle e l’escursione impone il maggiore sforzo non nella giornata della vetta, ma in quella dell’avvicinamento. In compagnia di una guida locale, Markus Neumair, il 21 marzo 2000 salimmo gli stretti tornanti della stradina che da St. Martin 1002 m porta al maso di Stalliler 1472 m. Qui eravamo ormai nella stretta e lunga valle del Rotbach: calzati gli sci, cominciammo dolcemente nel bosco, per poi salire sempre più ripidamente. Oltre alla mia recente operazione, lamentavo anche uno scarsissimo allenamento scialpinistico. Occorreva inserire una specie di pilota automatico e nello stesso tempo controllare sempre le condizioni dei pendii. Markus ci diceva che sono meno pericolosi degli altri perché invasi dai cespugli di ontani nani, e noi volevamo credergli. In più, nella parte alta, l’esposizione della valle favorisce un surriscaldamento che, in unione al carico pesante che ci ritrovavamo sulla schiena, ci fece arrivare abbastanza «cotti» allo Schwarzensteinhütte 2922 m, situato alla sommità della lunga cresta rocciosa che divide la Rotbachtal dalla Trippachtal. È il rifugio più alto delle Alpi Aurine e per raggiungerlo ci eravamo sciroppati ben 1450 metri di dislivello, carichi come somari di macchine fotografiche.

Il Seealpsee (Säntis)
Seealpsee, Säntis, Appenzell

Il colpo di grazia ci fu dato dal custode Günther Knapp, che praticamente aveva aperto solo per noi: ci propinò grandi limonate e bicchierini di grappa di sua produzione, poi ci fece mangiare un piatto caldo, poi ci costrinse ancora a bere. Quasi ebbri, nell’euforia lo aiutammo alla folle costruzione di un enorme igloo davanti al rifugio, che non avremmo mai saputo a cosa potesse servire. In serata, smaltita un po’ la sbornia, a fatica salimmo al vicino Tripbachsattel 3030 m, per inerpicarci al tramonto su una panoramica cresta in vista del Grosser Löffler (Monte Lovello) 3376 m. Il mattino dopo fu trionfale, perché dopo essere risaliti allo Tripbachsattel, ci volgemmo allo Schwarzenstein (Sasso Nero), una facile salita interrotta soltanto da un breve pendio da risalire senza sci: quando arrivammo alla larga vetta, ancora una volta c’immergemmo in quella magia che ti riservano le Alpi quando le guardi essendoci dentro e subimmo volentieri quel dolce languore che ti danno le montagne che non si conoscono.

Da Schaidegg (Kronberg) su Säntis, Appenzell
Un momento di riposo per Marco Milani e Markus Neumayr, in salita verso la Schwarzensteinhütte.

Naturalmente non demordevo dall’insegnamento a Guya di un minimo di tecnica di arrampicata. Individuai nella via Ortofresco al Terzo Sperone dello Zucco dell’Angelone un possibile itinerario di quattro lunghezze che si poteva sperare essere divertente anche per lei. La via era stata aperta, ovviamente dal basso, da Andrea Savonitto e Anna Marieni nel 1982. Ci andammo il 2 aprile con l’amico Guido Daniele e in verità la poverina fu brava durante la salita, abbastanza anche sui passi di 5a. Giunti alla fine della via, per scendere occorreva fare due corde doppie lungo l’itinerario Foto di gruppo con Signorine, da me aperto nel lontano 1980. Scese Guido per primo, poi toccava a lei e lì iniziò la tragedia. Non se ne parlava proprio di affidare il proprio peso alla corda, voleva l’elicottero e sragionava. Presto ci mettemmo a urlare. Altri scalatori assistevano a questo dramma, tra il divertito e il preoccupato. In qualche modo Guido decise di scendere, anche perché stava minacciando di piovere. Sfruttò le corde di qualcuno e ci aspettò alla base. Dopo lunga contrattazione, con diplomatica ammissione di colpa per averla portata lì, alla fine riuscii a calarla tra urla disumane di terrore. Dopo una ventina di metri la poveretta si trovò con una gamba incastrata in una fessura orizzontale. Paralizzata dal terrore, pensava ormai di rimanere lì per sempre. A quel punto scesi anch’io sulla corda per liberarla da quella situazione. La gamba era, sì, incastrata ma la liberai facilmente e con dolcezza. In qualche modo riuscimmo a scendere fino in fondo. C’era solo Guido in attesa, gli altri se ne erano andati per evitare la pioggia. Sotto una fine acquerugiola tornammo al posteggio, mentre con sarcasmo Guido ci raccontava di qualcuno che gli aveva chiesto:
– Ma quello è Gogna?
– Sì, sì, è lui.
– E quella chi è, una sua cliente?
– No, no, quella è una sua amichetta…

Al bar del posteggio non volli neppure entrare, per paura di fronteggiare gente che certamente rideva ancora di noi.

L’alba sulla Schwarzensteinhütte. Foto: Marco Milani.

Ma il 16 aprile, ancora con Guido e Guya e in più anche Giovanni Alfieri, salimmo Solitudine alla Rocca di Bajedo, che almeno aveva il pregio di una discesa per facile sentiero!

Il 29 aprile partimmo da Milano molto presto e raggiungemmo Briançon, dove ci aspettava Franco Ribetti. Il programma prevedeva di fare un giro in Provenza di qualche giorno, dormendo nelle gîte d’étape. Con noi sarebbe stato anche Luigi Gally, un torinese da tempo trasferitosi a Briançon. La sua compagnia poteva in teoria provocare qualche problema, visto che a lui piacevano i monotiri in falesia e le vie di placca, mentre a noi piacevano vie più lunghe e magari anche con qualche fessura e camino. Decidemmo di andare con la sua Mercedes, indubbiamente assai comoda, che però ci accorgemmo subito lui guidava in modo ben diverso dal nostro. A Guya piacque subito la simpatia di Franco, al quale chiunque perdonava ogni sua battuta, anche pungente.

La conversazione, con il marcato accento torinese di entrambi, per Guya era una festa. Non eravamo neppure ancora usciti dall’abitato di Briançon, che già Luigi aveva passato ben due incroci con il semaforo rosso.

Alessandro Gogna in salita verso lo Schwarzenstein. Foto: Marco Milani.

Quando Franco si rivolse a Luigi facendogli notare, con serafico atteggiamento da gentleman, che normalmente noi ci fermavamo quando i semafori erano rossi, Guya ne fu definitivamente conquistata. Anche Luigi la faceva sotto sotto morire dal ridere, ma ogni individuo ha le sue caratteristiche e favorisce determinate preferenze.

Senza incidenti arrivammo a destinazione, dalle parti di Sisteron, e avemmo anche tempo di fare qualche tiro a Orpierre, settore Adrech. Poi ci trasferimmo alla gîte d’étape che avevamo prenotato, della quale non ricordo il nome. Anche dormire in una camerata di letti a castello non era tra le esperienze avute in passato dalla mia compagna. E naturalmente c’era parecchia gente, vista la festa del 1° maggio. Franco, al momento di coricarsi, appese i suoi calzini al sostegno metallico della cuccetta di Guya, praticamente senza farsene accorgere. Lei realizzò lo scherzo soltanto la mattina dopo, quando ormai era davvero preoccupata di dover usufruire dei servizi igienici che aveva ispezionato la sera precedente e che, ovviamente, non avevano superato l’esame.

Quasi in vetta allo Schwarzenstein, 22 marzo 2000. Foto: Marco Milani.

Quella mattina del 30 aprile con Franco decidemmo di andare alla Pierre Impie 1091 m, per fare una promettente via di quattro lunghezze, La belle aventure, con un pregevole tiro che si svolgeva in un faticoso camino di 6a. Ancora a colazione Luigi si era raccomandato di non portarlo in camini e fessure…

Tutto procedette bene fino a quando il povero Luigi dovette affrontare il camino. Guya sentiva le sue urla dal basso:
– Voi siete pazzi… dio fa, voi siete pazzi!

Quasi in vetta allo Schwarzenstein, 22 marzo 2000. Foto: Marco Milani.

Ancora in giornata facemmo qualche bel monotiro al settore Belleric della falesia di Orpierre. La sera ci trasferimmo ad altra gîte d’étape (anche di questa, per fortuna, non ricordo il nome), che non reggeva il confronto con la precedente. La proprietaria era una anziana signora che, senza tema di offendere, definimmo subito una “vecchia megera”. L’igiene del posto era davvero preoccupante. La signora aveva l’abitudine di farsi aiutare da tutti i commensali a rigovernare. Non ci sarebbe stato nulla di male se la cena fosse stata dignitosa. Questa consisteva in un pastone osceno, una roba che si sarebbe potuto dare solo ai maiali, cui seguiva il passaggio veloce, troppo veloce, di un plateau di formaggi.

Marco Milani e Markus Neumayr in vetta allo Schwarzenstein, 22 marzo 2000

Qui si raggiunse il limite. Luigi osò lamentarsi, quella gli rispose piccata. Luigi approfondì la critica al pastone che la signora, invece, difendeva, in realtà cercando con lo sguardo la solidarietà degli altri ospiti. Nessuno fece cenno di aver particolarmente gradito, così la megera si incattivì ulteriormente e cominciò a criticare che noi italiani eravamo troppo viziati, in più sostenendo che la vita di campagna era quella.
Di fonte all’accusa d’essere italiani, Luigi reagì così:

“Madame, ma femme est française, elle vient de Paris… vraiment de Paris… et je suis heureux, pour votre bien, qu’elle ne soit pas ici…”.

Alla fine riuscimmo ad avere un secondo giro di formaggi, tutti gli ospiti ci ringraziavano con lo sguardo.

Alessandro Gogna in vetta allo Schwarzenstein, 22 marzo 2000. Foto: Marco Milani.

Al mattino dopo, salutati ospiti, ce ne andammo alle Gorges d’Agnielles. Guya ci aveva seguito fino alla base e lì mi aveva preso da parte e mi aveva confidato di non essere ancora andata di corpo dal momento che eravamo partiti da Milano… Ciò era evidentemente dovuto allo schifo che le avevano fatto entrambe le gîte d’étape, ma anche alla sua scarsa dimestichezza con l’evacuazione outdoor, da lei mai praticata in alcun modo. Finalmente era arrivato il momento ineludibile. Le feci un rapido corso, sotterramento dei residui incluso. Lei, volonterosamente, si allontanò e tornò dopo un quarto d’ora, con un sorriso trionfante. Mi disse che aveva fatto tutto per benino, ma che mentre era lì era passata una comitiva.
Ero talmente a disagio che sono riuscita a superarlo e a fregarmene se quelli mi avevano visto.

La parete della Pierre Impie: sulla sinistra si vede l’evidente linea, con il grande camino, di La belle aventure.

Al ritorno in auto Franco ci allietò parlando della cosiddetta “cagnulera”. Io sapevo già di questo suo pezzo forte di fantasia, vero must dello straparlare in tavolate alcoliche e molto maschiliste, sul quale avevamo sempre riso sguaiatamente. Così anche Guya venne a sapere che le donne di un gruppo devono fare una doccia senza usare alcun tipo di sapone o profumo. Poi vengono rinchiuse tutte assieme in una sala, al buio più pesto, messe a carponi. Dopo un po’ entrano gli uomini che, anche loro a carponi, dovranno annusarle, in un vorticoso giro di tentativi, fino a riconoscerle nome per nome e applicare su ciascuna un bollino col nome che ritengono giusto. Vietato usare le mani, vietato parlare, ridere. Soprattutto vietato baciarsi o avvicinare i visi. Si chiama cagnulera perché è questo che i cani fanno.

Guya, maggio 2000, Provenza
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Il secondo menisco ultima modifica: 2024-08-07T05:39:00+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Il secondo menisco”

  1. Io mi chiedo come mai il 99 per cento degli alpinisti arrampicatori decida di iniziare all’arrampicata / far frequentare un corso di arrampicata alla fidanzata/ potenziale fidanzata quando ci sono tutti gli indizi per capire che non gliene importa un fico secco. Ci siamo caduti tutti o quasi ma almeno negli anni della maturità’ abbiamo il coraggio di ammetterlo? Buon agosto a tutti

  2. Bella, l’ode di Fabio! Ci sta proprio bene al tramonto, dopo la lettura dell’ultima puntata del super-diario di Alessandro.

    Ho avuto il piacere di incontrare Guya solo l’anno scorso e mi sono sorpresa che, dopo tanti anni di vita comune con Alessandro, sia ancora molto ironica ed abbia l’aria di divertirsi.

  3. Alessandro Gogna (e Pablo Neruda): “Confesso che ho vissuto”.
    … … …
    Caro Alessandro, ora ti pongo un quesito che, prima o dopo, incomincia piano piano a fare capolino tra i meandri del cervello di quasi tutti noi mortali e poi vi si annida come una tossina per il resto dei nostri giorni.
    Ti domando: dopo tante avventure, dopo tanta vita, dopo che sono trascorsi tanti e tanti anni, non provi nostalgia?
     
    So che conduci ancora un’esistenza molto attiva, sia a livello intellettuale che fisico. Ne sono piacevolmente stupito e mi complimento con te: bravo!
    Ma la questione non cambia. E dunque, non senti nostalgia di ciò che hai vissuto e che non sarà piú? non ti angoscia la vita ‐ la tua vita ‐ che ti scorre come sabbia tra le dita? non vorresti ritornare ai tuoi ventidue anni sullo Sperone Walker, quando affrontavi l’avvenire con determinazione e speranza?
    Se sí, come risolvi il problema?
    È molto semplice: il problema non si risolve. Al mondo siamo messi cosí.
     
    P.S. Alessandro, non è necessario che tu mi risponda. È solo un mio lamento; poi passa.

  4. Se non mi sbaglio, in quel tempo, c’eravamo incontrati sul traghetto rientrando dalla Sardegna. Guya l’ho vista li per la prima volta e c’erano anche Petra e Elena.
    Belle storie. 

  5. Questi “meditari” sono bellissimi. 
    Roba umana autentica. 

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