Metadiario– 93 – Cento Nuovi Mattini – 5 (AG 1980-005)
E’ raro che io abbia dimenticato di riportare sul mio diario delle giornate passate ad arrampicare, ma qualche volta è successo. Pertanto non ricordo nulla della Palestra di Grosio (un tentativo a Sauna Massage) il 25 luglio 1980. Con chi, perché tentativo? Un po’ più grave che non ricordi del giorno dopo, con chi sia andato a fare un assaggio alla via del 7 Aprile sul Pappagallo, in Val di Mello. Anche perché il giorno dopo ancora, il 27, è stata la volta buona della via indubbiamente più difficile di tutto il libro che avevo in mente. La via del 7 Aprile non era mai stata ripetuta e la sua fama era assai sinistra. Dopo vari tentativi, cui parteciparono anche Guido Merizzi e Federico Madonna, salirono la via Paolo Masa e Antonio Boscacci, il 6 luglio 1979. “Sette Aprile” è una precisa presa di posizione per i fatti politici del 7 aprile 1979.
Sulla sinistra (destra idrografica) della val di Mello, oltre la cascata del Ferro, si evidenzia un’enorme struttura di granito ghiandone, articolata in più forme, che costituisce il divisorio tra la val del Ferro e la stretta val Livincina. A destra della val Livincina s’innalza il grandioso Precipizio degli Asteroidi 1918 m. Questo blocco divisorio è articolato come segue da sinistra a destra: dapprima, a destra della sponda destra del Ferro, si nota una bella parete ricurva, il Pollice 1400 m; poi un enorme becco strapiombante si chiama il Pappagallo (oppure il Totem), dietro il quale s’innalza lo Specchio 2196 m, una liscia parete che costituisce la sponda di sinistra della val Livincina. Il Pappagallo, esposto a sud-est, deve il suo nome al caratteristico becco roccioso: al di sopra altre rocce più informi fanno culminare la struttura a 1756 m.
L’enorme becco roccioso è inclinato a destra e forma con la parete un camino che però non arriva in basso. Il punto chiave della via è il collegamento tra il diedro iniziale e il camino-direttiva.
Ero con Gabriele Beuchod e Marco Marantonio, ci demmo il cambio in testa più volte. Salito il primo diedro, tetro e repulsivo, fino al tetto che lo chiude, traversai a destra sotto al tetto e proseguii nel diedro seguente fino al termine. Dalla sosta salii una fessura in piena parete, invasa da ciuffi erbosi fino a un piccolo tetto con chiodo e moschettone. Mi calai circa 12 metri e pendolai a destra fino a uno spigolo arrotondato. Piantato e moschettonato un chiodo, continuai a calarmi un’altra decina di metri per poi, pendolando a destra, raggiungere una bella cengetta con albero. Da lì salimmo una fessura con ciuffi, a una diramazione salimmo il ramo destro fino a uno strapiombo superato il quale fummo ad una macchia d’alberi. Ci spostammo a sinistra nella macchia fino alla base del camino-direttiva della via. A quella quarta sosta i primi salitori erano arrivati diversamente: nel secondo tiro, oltrepassato il chiodo con moschettone, erano ancora saliti fin dove la fessura muore. Da lì avevano pendolato a destra, doppiato lo spigolo (chiodo a pressione) e raggiunto una cengia erbosa e la Sosta 4. Proseguimmo per una bella lama, entrammo nel camino e strisciammo sul fondo con media difficoltà, perché asciutto. Quando credevamo proprio di non poter più proseguire, salimmo ancora… E quando ogni movimento fu precluso dalla morsa delle due pareti, lanciammo una fettuccia con moschettone al di là di un sasso incastrato. Gabriele, dopo essersi assicurato, scese due metri, si spostò all’esterno e salì con difficoltà fino a oltre l’altezza del sasso incastrato, proseguendo ancora in camino fino alla Sosta 5. Seguimmo ancora il camino che lì diventava diedro a risalti, fino a un buon terrazzino. Sosta 6. Con un’altra lunghezza per diedri e camini uscimmo dalle difficoltà. Con un’ultima lunghezza decisamente più facile arrivammo a un canale boschivo e quindi alla sommità. Anche la discesa fu molto complicata…
Alla fine la via si è confermata essere uno degli itinerari più impegnativi presentati nel volume, con chiodatura assai scarsa.
Il giorno dopo, ancora provato dalla troppa adrenalina del Pappagallo, mi ritrovai a seguire altri invasati che a tutti i costi volevano percorrere in libera una meravigliosa fessura fortemente strapiombante. Gente come Ivan Guerini, Guido Merizzi e Popi Miotti si sono sbucciati mani e polsi (le bende erano di là da venire) sulla Signora del Tempo al Tempio dell’Eden. La val Qualido, che ha origine dal Pizzo del Ferro Orientale 3200 m e dal Torrione di Zocca 3080 m, ha un andamento nord-nord-ovest/sud-sud-est ed è racchiusa da due crestoni. Nella parte bassa, quello di sinistra è costituito dal Precipizio degli Asteroidi 1918 m e dallo Sperone Mark 1363 m, mentre quello di destra è dato dalla sovrapposizione dello Scoglio delle Metamorfosi 1971 m alla Bastionata dei Dinosauri. Ma l’impluvio della val Qualido nella parte bassa è doppio, non unico. A ovest è la val Qualido, a est la Gola del Qualido. I due corsi d’acqua sono divisi da cospicue strutture: il primo livello da sinistra a destra è costituito dal Tempio dell’Eden 1340 m, Trapezio d’Argento, Sperone degli Gnomi 1250 m e Sperone del Sarcofago 1250 m. Al secondo livello ci sono lo Sperone del Fischio, la Formica e lo Scarabeo. Più in alto è la Barriera del Qualido 1765 m. Questo insieme di strutture era stato erroneamente chiamato da Antonio Boscacci, nella sua guida Val di Mello, la Bastionata dei Dinosauri. Il Tempio dell’Eden è una struttura magnifica che si protende da sinistra a destra a dominare il Trapezio d’Argento. Ha la forma di una punta di lancia, ma è assai complesso. Dapprima si nota una parete quasi verticale e obliqua a destra, su di essa strapiomba una parete giallastra che sostiene una stretta e arrotondata costola di placche che si restringe sempre più fino alla sommità. Mentre la costola a placche è la direttiva di Lucido da Scarpe, il diedro obliquo (la Falce di Pietra) che divide la parete inferiore dalla parete giallastra è la direttiva dell’Alba del Nirvana. L’esposizione è a est-sud-est, con un dislivello di 160 m.
La parete giallastra e obliqua che caratterizza il Tempio dell’Eden è assai strapiombante. È solcata da due fessure parallele che sbucano a poca distanza una dall’altra sulla costola arrotondata di placche in corrispondenza di una cengia con cespugli che taglia orizzontalmente detta costola oltre la sua metà. La via si svolge nella fessura di destra. Per raggiungere questa si segue l’itinerario dell’Alba del Nirvana per due lunghezze, poi si segue l’originale Signora del Tempo fino alla base della fessura, tiro-chiave.
Questo era stato salito dai primi salitori (Antonio Boscacci e Graziano Milani, 15 agosto 1978) completamente in arrampicata artificiale.
La proterva fessura, tanto regolare e geometrica quanto scoraggiante e repulsiva, aveva sempre inibito ogni sogno di arrampicata libera.
Capimmo subito che, se il quinto tiro fosse stato salito in arrampicata libera, l’itinerario sarebbe stato uno dei più difficili, forse il più difficile. Le protezioni si mettono facilmente, ma nessuno di noi poté evitare i resting. Questa stupenda fessura, che avvicina la val di Mello ai più progrediti centri d’arrampicata d’Europa e d’America, fu pochi giorni dopo salita da Jean-François Hagenmüller e compagni con l’uso di un solo chiodo iniziale in A0, ribattezzandola Plumes d’Ange. E alla fine fu salita in libera da Marco Pedrini, che ne sfatò la leggendola ribattezzandola Signora del Tampax.
E venne la volta, il giorno dopo 29 luglio 1980, mio compleanno, della salita principe, quella che storicamente aveva dato il “la” all’intera evoluzione dell’arrampicata in Valle, la via dell’Oceano Irrazionale al Precipizio degli Asteroidi. Con Gabriele Beuchod e Marco Marantonio eravamo giustamente apprensivi, anche se comunque le capacità di Gabriele su quel genere di terreno erano tali da confortare anche il più pavido.
Magnifico pilastro a placche verticali, il Precipizio lo si vede già salendo dalla val Masino e s’impone all’attenzione per le sue linee nobili, in contrasto con le montagne innevate che lo circondano dall’alto. Posto dove è e fatto com’è, è una vera sfida. Che si tratti di sfida al proprio coraggio o di magnetica attrazione inconscia, sempre di sfida si tratta e dev’essere raccolta. Geograficamente divide la val Qualido (est) dalla val Livincina (ovest). È costituito da due enormi risalti, il Cerchio di Gesso in basso e il Precipizio in alto, divisi da una bella cengia di ontani. La sommità è a 1918 m, la base a 1240 m. Esposizione a sud. Il Precipizio s’inabissa in val Qualido con una parete molto larga, alta dai 300 ai 400 metri, sulla quale molto restava ancora da fare. Per arrivare all’attacco ci vuole una bella ora e mezza. Oceano Irrazionale risale le fessure a destra del pilastro roccioso a forma di proboscide: in alto, dove queste piegano a destra, le segue per uscire sulle placche terminali. Anche la discesa non è affatto semplice. Probabilmente rimane ancora oggi la più bella salita della val di Mello, d’importanza storica per l’inizio del VII grado.
Feci parecche foto, le più belle di certo a Marco che, strisciando umilmente, si avvicinava al «settimo» della Tromba, il quinto tiro della più grande intuizione di Ivan Guerini.
Il 30 luglio con Gabriele Beuchod e Guido Merizzi andiamo alla carica della via dell’Assiolo sull’Alkekengi. Neppure il tempo di riprenderci dalle bevute della sera, ogni mattina eravamo pronti alla pugna. Questa era la quarta giornata di seguito, e non è che avessimo fatto cose da poco…
L’Alkekengi (chiamato anche Parete Fluida) è una grossa placcatura posta alla sinistra della val di Zocca, dove questa sbocca nella val di Mello. Accostato all’Alkekengi è il Muro delle Vacche (chiamato anche Piastra del Rettangolo), un po’ più in alto e a sinistra. Una rampa boschiva e obliqua a destra li divide. L’intero complesso può essere considerato la continuazione a est della Bastionata dei Dinosauri e di Stella Marina, sebbene di queste ultime non raggiunga certo la potenza (massimo 90 metri). Più in alto troneggiano le enormi pareti verticali del Baratro di Zocca. L’esposizione delle pareti è sempre a sud. La salita della via dell’Assiolo è alquanto consigliabile, leggermente meno impegnativa di Nuova Dimensione. Essenzialmente una scalata su placca, anche la salita della fessurina del secondo tiro richiede che i piedi siano in aderenza.
Nello stesso giorno, ancora con Guido ma senza Gabriele che evidentemente aveva dato forfait, andammo a un famoso monotiro, Giallo Ocra allo Sperone Mark. La via era stata aperta da Vittorio Neri nel giugno 1978. Con noi era anche Marco Marantonio, cui era bastato il riposo della mattina. Data la sua brevità, pensavo di unire in un solo capitolo Giallo Ocra, la via del Soccorso al Sasso Remenno e Alien allo Sperone degli Gnomi (anche chiamato la Pulce).
Con questo avevo considerata terminata la campagna in Val di Mello. Dopo altri festeggiamenti serali, la mattina dopo imbarcai Marco e Gabriele e ci trasferimmo al Buco del Piombo, vicino a Erba, per salire il mitico Diedro Scarabelli. Il Buco del Piombo, ben visibile dalla Brianza, è una falesia di notevoli proporzioni di roccia calcarea. In generale la falesia è esposta a est, ma subito a destra di un enorme antro a caverna (inizio della cavità del Buco del Piombo 695 m) la parete è esposta a sud-est. La falesia ha sommità a 800 m, il dislivello è di 120 m. Sebbene molti itinerari fossero in artificiale, il diedro Scarabelli seguendo una linea logica nella parete prometteva di essere un bell’itinerario in arrampicata libera.
L’ambiente del Buco del Piombo è un po’ tetro, quasi lugubre in una giornata un po’ nuvolosa. Ciò nonostante il diedro (aperto da Elio Scarabelli ed Enrico Galante nell’ottobre del 1957) si rivelò un itinerario di classe, specie se percorso completamente in libera.
Il giorno dopo, 1 agosto, guidai il mio glorioso van Volkswagen fino a Domodossola e oltre il confine delle Gole di Gondo. Con Gabriele e Marco salimmo l’Avancorpo del Picco del Monumento per la via della Fessura del Secondo Tornante.
Il Picco del Monumento è quella parete chiara che si vede a destra (sinistra idrografica) della strada del Sempione all’altezza di due tornanti 1 km dopo Gondo. Sul piazzale del secondo tornante è fissato un cippo, a memoria della guida Gratien Volluz. Da qui il nome. Il Picco del Monumento consiste in una parete vera e propria e in un avancorpo. Di fronte, dall’altra parte delle Gole di Gondo, si erge la tetra e magnifica parete della Pala di Gondo (400 m di dislivello). In fondo alle gole, proprio sopra Gondo, si vede la Sentinella (220 m di dislivello). Altre pareti sono dappertutto e costituiscono quello che oggi è uno dei centri d’arrampicata più avanzati.
Le sette lunghezze di questa via (aperta da Alberto Paleari e Luigi Montani il 16 aprile 1978) sono tutte stupende, alcune richiedono una fantastica arrampicata d’incastro, come ad esempio la fessura della seconda lunghezza in cui occorre letteralmente “avvitarsi”.Mi attaccai a soli due ancoraggi, non ricordo se chiodi, blocchetti o friend.L’ambiente delle Gole di Gondo è decisamente particolare. Il traffico delle automobili dopo un tiro di corda non si «sente» più e si è completamente fuori dal mondo. Il panorama selvaggio dal quale si è circondati è veramente unico nel suo genere. Tra l’altro quel giorno il tempo era stupendo: in seguito sarei tornato con colori più grigi, tali da far apparire terribile quella gorgia, regno di Mauro Rossi, Alberto Paleari.
Continuava la serie dei dannati della Cayenna. Il giorno dopo, 2 agosto, altra impresa massacrante per via della bassa quota. Fu la volta infatti della Pala del Cammello, per la via Annamaria, con gli stessi “eroici” compagni. La torrida giornata d’agosto, da me imposta, mise a dura prova la loro pazienza.
La Pala del Cammello non ha una vetta vera e propria, è solo una parete che muore in un bosco ripido che va ad esaurirsi nei pressi del Passo del Cammello, sotto la frazione di Erna. Si può considerare un avancorpo nord-occidentale del Pizzo d’Erna 1375 m, proprio sopra Lecco. La parete è calcarea, di dolomia ladinica, esposta a sud-ovest, di colore giallastro. Il dislivello varia dai 150 ai 200 metri.
Dopo le otto lunghezze, davvero impegnative, di questa bella salita (ci attaccammo a soli 4 chiodi) traversammo nel bosco a destra (sud-est), poi scendere leggermente fino ad affacciarsi sul bordo boscoso dell’orrido canalone che delimita a destra (sud-est) la Pala del Cammello. Fortuna che lì c’ero già stato quando avevo salito la via del Caminetto e per la prima volta la via Annamaria: si scende un po’ per lo sperone boscoso, poi si traversa per cengia ripidissima ed erbosa verso l’interno del canalone. Da un albero si fa una doppia da 10 m a un altro albero, molto grosso. Da qui con una calata di 45 m si arriva sul fondo del canalone.
Dedicata ad Annamaria Panzeri, la via era stata aperta da Sergio Panzeri e Aldo Anghileri, il 19 aprile 1973.
Dopo un’altra trasferta serale, ci ritrovammo sempre gli stessi tre in Valle del Lys, luogo ben conosciuto da Gabriele che mi aveva fatto una capa tanta per andare a salire una sua creazione, la via della Risposta alla Parete del Pentimento, opera di Gabriele Beuchod, Claudio Bernardi ed Enrico Barbero, il 28 agosto 1978. «Risposta» in quanto poco tempo prima il capocordata aveva salito la voie de la Demande del Verdon.
Da Gaby si nota la parete, sul versante sud del Taille Spitz 2527 m, enorme rilievo erboso e roccioso a nord di Gaby, che divide la valle del Lys dal vallone di Loo. Il versante in questione è abbastanza informe ma ben dirupato. A circa 1500 m si erge una muraglia di gneiss rossastra e verticale che dopo 100 m è tagliata da una cengia. Al di sopra, altra muraglia di 100 m più delineata: è questa la Parete del Pentimento, esposta a sud, solcata da diedri e fessure verticali e alta 100 metri. Lo zoccolo inferiore è solcato da alcuni diedri strapiombanti e giallastri.
La salita è estremamente bella e divertente, molto fuori mano. L’accesso non è eccessivo (1 ora) e una visita è quindi assai consigliata. Sulla prima lunghezza è una fessura che termina sotto un tetto e che si deve risalire in off-width, lunga otto o nove metri. Geometria ed estetica ideali.
Assurde sono le scritte che sconvolgono l’equilibrio estetico della parete. Il responsabile (lo stesso Gabriele) si è pentito, tanto da partorire il nome Parete del Pentimento. Dove si posteggia c’è un enorme blocco, il masso di Gabriele: è molto interessante. S’affonda a monte della carreggiata della strada carrozzabile e all’interno è spaccato. Ci sono delle belle fessure, specialmente quella che si vede dalla strada, sulla sinistra.
A quel punto ci fu un piacevole intermezzo: mentre Nella ed io ci rilassavamo alle Fate Nere di Champoluc, mio padre accettò l’invito di passare qualche giorno con noi. Era Ferragosto, lo andai a prendere a Genova, e furono alcune giornate di piacevole riposo e passeggiate.
A fine mese, il 29, ebbi finalmente l’occasione di esercitare il mio “mestiere” di aspirante guida. Il figlio di Maria Luisa Cornale, Guido, un simpatico studente di medicina con grandi speranza, voleva salire il Monte Bianco per lo Sperone della Brenva. Raggiungemmo il rifugio Ghiglione al Col du Trident, ma già in serata il tempo aveva virato al brutto. La mattina dopo ce ne tornammo con la coda tra le gambe. Peccato, il ragazzo saliva molto bene e avrebbe potuto essere una bellissima salita…
Secondo la mia pianificazione, per arrivare alla mitica centesima tappa, mi occorrevano ancora quattro uscite, tutte per fortuna in Grignetta: avevo lasciato per ultima la chiusura di questa zona perché comunque era la più vicina a casa mia e perché ne avevo avuto abbastanza delle nebbie che spesso imperversano sui versanti di quella montagna. Speravo che d’autunno le cose andassero un po’ meglio, ma mi sbagliavo.
L’11 settembre con gli amici Ettore Pagani e Luciano Tenderini andammo a fare il classico “giro del Fungo”, quindi la via Corti alla Torre, lo Spigolo Boga al Fungo e la Accademici al Lancia. Anche se non ottima, la visibilità fu buona. Mi fece particolare piacere arrampicare con Luciano ed Ettore, mi riportava ai tempi della Grignetta con Paolo Armando. Ed è con tristezza che oggi realizzo che quella fu l’ultima volta che scalai con Luciano.
Il famoso spigolo sud del Fungo è un altro classico itinerario della Grignetta che non si poteva ignorare. Lo avevano salito per primi Mario Boga Dell’Oro, Mary Varale e Giuseppe Comi il 20 agosto 1932. L’elegantissimo profilo dello spigolo su quell’esilissima e caratteristica guglia che giustamente si chiama Fungo 1713 m è situato su un versante dirupato e selvaggio che accresce il senso di isolamento e di vuoto. Sebbene lo spigolo Boga possa essere una salita a se stante, di solito viene percorso abbinato alle salite della parete est della Torre 1728 m e della cresta sud della Lancia 1730 m. Queste tre guglie sono riunite in un esiguo spazio e separate tra di loro da angusti intagli e canaloni. La parete est della Torre è sui 70 metri di dislivello, lo spigolo sud del Fungo è sui 100 metri, mentre la cresta sud della Lancia è poco più di una lunghezza. Un circuito decisamente interessante, dagli scorci assai vari su roccia sempre dolomitica: una delle più belle combinazioni di tutte le Prealpi lombarde.
Il 25 settembre il Torrione del Cinquantenario accolse me, Marco Marantonio e Luca Mozzati con un nebbione storico… Avevo già fatto la via Gandini, ma non avevo foto, né brutte né belle.
Bel torrione slanciato ma dalle forme arrotondate e dalle pareti lisce, il Torrione del Cinquantenario 1743 m è collegato alla cresta sud-ovest della Torre Cecilia 1800 m di cui è una singolare appendice. Specialmente dal Sentiero dei Morti assume il suo migliore aspetto, ma anche dal rifugio Rosalba offre una bella veduta. La via Gandini (aperta da Giovanni Gandin Gandini, Renzo Galbiati e Vittorio Gerli il 27 giugno 1932) si svolge per dieci lunghezze sulla parete sud ed è alta sui 100 metri. Se si continua per la via Marimonti al Torrione Cecilia si attua una stupenda combinazione, su roccia incredibilmente solida e remunerativa, con bel panorama sul Grignone e sulla Grignetta..
Nella stessa nebbiosissima giornata andammo anche al Torrione Casati per salire la bella e allora poco nota via Magni. Alla nostra cordata si aggiunse Ettore Pagani.
La Piramide Casati 1928 m è la struttura, dopo i Torrioni Magnaghi, più poderosa di tutta la Grignetta. Sorge sullo spartiacque della cresta ovest della Grigna Meridionale, che nell’ordine presenta Cresta Segantini, Colle Valsecchi 1898 m, Torri Moraschini 1920 m, Torrione Palma 1940 m, Civetta 1920 m circa, Piramide Casati, Colle Garibaldi 1824 m, Colle Rosalba 1830 m circa, Torre Rosalba 1800 m, rifugio Rosalba 1730 m. La Piramide Casati presenta due belle pareti, la orientale e la Nord-ovest, divise dallo spigolo sud-ovest. La via Magni (aperta da Giuliano Occhiali e Vittorio Meles il 25 settembre 1969) si svolge sulla ombrosa parete nord-ovest, di circa 120 metri di dislivello, su roccia splendida e dolomitica. E’ una via stupenda, offre una lunghezza (la seconda) tra le più sostenute della Grignetta: per la continuità di passaggi e per la quasi studiata lontananza tra di loro dei chiodi di assicurazione questa lunghezza si può paragonare a una lunghezza degli itinerari del Verdon anche se l’esposizione è certamente inferiore. Nel libro illustrai quell’itinerario che una foto che ritraeva Luca Mozzati sulla seconda lunghezza, commentando in didascalia quella giornata nebbiosa e triste “che esprimeva l’impossibile ritorno a quella felicità che si vuol credere sepolta nel passato o presente al di sopra delle nebbie”.
Il 5 ottobre convinsi Ettore Pagani ad accompagnarmi sulla Gogna-Cerruti alla Corna di Medale: l’autore (assieme a Tiziano Nardella) della contigua via Milano ’68 temeva di non “essere all’altezza”…
Era la terza volta che la salivo. La Corna di Medale 1029 m affonda la verticale e calcarea parete est-sud-est per circa 370 m ed è collegata con il massiccio del Monte Coltignone 1479 m tramite l’esile Bocchetta della Medale 1010 m circa. La parete si presenta come un’enorme pala convessa, senza apparenti cenge e fessure, ma solo con vaghe forme a pilastri appena accennati, ogni tanto solcati da poderosi tetti e strapiombi.
Nel libro definii la mia via “magnifica salita, forse la più bella del Medale (anche se oggi non è più vero, almeno con i nuovi standard)”. E aggiunsi “con soli 16 chiodi di progressione, una delle più difficili delle Prealpi lombarde”.
Purtroppo allora (1969) non era di moda trovare nomi per le vie nuove e così non mi è più possibile dare un nome a una via che fu una delle prime a essere aperte con criteri moderni.
Il 12 ottobre con Marco Marantonio feci la sesta ascensione dell’Integrale della Rocca dei Banditi, nell’entroterra di Genova-Pegli. Poi ci trasferimmo a Finale dove il giorno dopo, assieme a Gianni Calcagno e Claudio Bove, salimmo la via Grimonett al Bric Pianarella, che finalmente riuscii a fare RP.
Il 26 ottobre di giornata di relax a Rocca di Corno con Ettore Pagani: via Ypsilon, Prima Fessura con variante, Terza Fessura (con aggiunta di Nella); quindi ci lanciammo sulla via del Topo, questa sì di difficoltà ben diversa, dove me la cavai con 1 solo chiodo di aid.
In una bellissima giornata autunnale (28 ottobre) con Ivan Guerini andammo in Grignetta al Torrione di Pertusio per salire la via Renata, con variante Santo Domingo.
Il 29 ottobre mi avviai con Nella a mete molto più umane: Zucco dell’Angelone, Sperone Mescal (via Accadimenti Mentali).
La Valsassina è strozzata nel suo regolare estendersi verso nord da due tozzi rilievi calcareo-ladinici che si avvicinano fino a formare la Chiusa. A ovest la Rocca di Baiedo e a est lo Zucco dell’Angelone 1165 m. Molto più complesso è quest’ultimo, a forma vagamente triangolare costituita da almeno cinque pilastri rocciosi che, emergenti dalla rigogliosa vegetazione, vanno a riunirsi sulla vetta, marcata da un colossale traliccio. Il più possente dei pilastri è il quarto (numerazione da destra a sinistra), quello che presenta le maggiori possibilità di arrampicata e il maggiore sviluppo complessivo. Altri contrafforti e rilievi secondari emergono dalla boscaglia, con una roccia chiara e assai «carsica», molto caratteristica e di piacevole arrampicata. Lo Zucco dell’Angelone si abbassa fino alla Chiusa sul torrente Pioverna ove forma, con l’ultimo risalto, il Sasso d’Introbio. Dislivello massimo delle vie, 300 metri. Esposizione sud-sud-ovest.
Difficile è l’individuazione dei vari itinerari, soprattutto a causa della foltissima vegetazione e della mancanza di punti di riferimento. Da lontano, prima di Barzio, si possono vedere i pilastri che costituiscono l’ossatura dello Zucco, ma è consigliabile, alla prima visita, essere accompagnati da qualcuno che la sa lunga. Il secondo pilastro è composto da un primo contrafforte (lo Sperone Mescal) seguito da una parete liscia e incassata in una specie di canalone (Lumaca di Vetro).
Arrampicata è sempre elegante ed estremamente caratteristica, mai faticosa. Purtroppo allora la vegetazione spesso era troppa, ma oggi il ripetuto passaggio ha favorito la pulizia, per lo meno dei rovi.
Quel giorno non proseguimmo per la Lumaca di Vetro.
Il 1° novembre cominciavo a sentirmi libero, perché il grosso del programma era completato: con Nella, Ettore Pagani, Nino Cirani e Luca Mozzati ripetei Solitudine alla Rocca di Bajedo; e subito dopo (senza Nella) salimmo la via del Tuono con variante iniziale Necropolis. Mi sembrava di rivivere, libero dall’incubo della produzione. Mi permisi di andare a Finale con Umberto Villotta a scalare su vie che non avevo alcun bisogno di fare, come la Oddonet, la Luisella e la via Nicora a Rocca di Perti (15 novembre). E il giorno dopo stesso relax, a Rocca di Corno con Umberto, Giulia Mortara e Maria Luisa Cornale e poi ancora la Prima Fessura con Umberto.
Dopo un periodo di sosta andai con Nella ed Ettore Pagani (22 novembre) allo Zucco dell’Angelone a completare la proposta: perciò salimmo Lumaca di Vetro, una via di Guerini dove si sale accarezzando la roccia calcarea e «crepitante», specie sulla seconda lunghezza: una placca per nulla verticale ma assai liscia.
Lo Zucco dell’Angelone era davvero molto comodo e vicino a Milano, le nostre visite s’intensificarono. Le vie non erano attrezzate come oggi, alcune perciò presentavano problemi di tutt’altro che facile soluzione. Come Coma Etilico, che feci il 23 novembre con Paola Bonomi, Valerio Burò, Cesare e Cristina Cesabianchi. Con gli stessi ripetemmo anche Verniciati il cervello, condor maledetto! Ma lì eravamo ancora più numerosi, si era sottratta Paola, ma si erano aggiunti infatti Monica Mazzucchi, Delia Colombo, Monica e Andrea Savonitto, Massimo Sala e Umberto Villotta. Il nome era di chiara “matrice Savonitto”. Il Gigante infatti non sopportava che i primi esploratori dello Zucco dell’Angelone, i Condor capitanati da don Agostino Butturini, avessero quella grande facilità a verniciare ogni sasso che potesse indicare un percorso. Era un’usanza di quei tempi, per fortuna in seguito abbandonata: ma di danni ce ne furono abbastanza. Ancora in giornata, con Andrea, Monica Savonitto, Monica Mazzucchi, Delia Colombo e Umberto, salimmo il Terzo Pilastro per una via nuova, la Foto di Gruppo con Signorine, collage di brevi placche erose nel settore sinistro dello sperone.
La settimana dopo, 29 novembre eccoci ancora allo Zucco dell’Angelone, questa volta per salire un’altra via nuova sulla Placca del Pistolino, Ma cotonati i capelli! Reduci da un bellissimo concerto a Milano dei B-52s, e soprattutto affascinati dal volume color avorio dei capelli della cantante Cindy Wilson, avevamo salito quella via con quel tormentone… Protagonisti, assieme a me, Giovanni Galli, Umberto Villotta, Roberto Silvestri e Andrea Savonitto. Subito dopo salii la Placca di Sherwood, con Nella, Roberto e Umberto.
A termine volume scrissi questa postfazione, allora un documento, oggi un reperto che documenta il neppure troppo graduale passaggio dall’obbligo della vetta al piacere della salita.
L’arrampicata degli anni ‘80
Lo sport dell’arrampicare è l’unico che consenta ed esiga l’uso di ogni posizione possibile al corpo umano, in una consecuzione che mai può essere la medesima, per un movimento che mai può essere effettuato allo stesso modo. In quest’infinità di posizioni sono nate decine di tecniche per approssimazione razionale di qualche esempio di campione umano naturale. Sono stati dati dei nomi a movimenti e posizioni che si cerca fedelmente di ripetere pur interpretandoli nelle di volta in volta diverse esigenze del passaggio, della roccia, della verticalità, in una continua ri-creazione che è poi gusto e gioia dell’arrampicata.
Essenzialmente l’arrampicata moderna si divide in esterna e interna. Nella prima categoria rientrano la parete, lo spigolo, il diedro aperto, la placca; nella seconda rientrano le fessure, i camini. Va da sé che non si contano le situazioni in cui le due categorie si fondono (diedro fessurato sul fondo, placca con fessura, ecc.).
L’uso della scarpetta morbida ha rivoluzionato l’arrampicata classica. Se prima si assumeva che lo scarpone rigido doveva essere il prolungamento artificiale dell’appoggio, il che vuol dire arrampicare sulle punte dei piedi con il bacino ben staccato dalla parete, oggi al contrario la scarpetta impone l’uso dei piedi messi di traverso (posizione a rana), con conseguente immediato ravvicinamento del bacino alla roccia, scarico di peso sui piedi, alleggerimento sulle braccia. Da ciò deriva un’arrampicata più “strisciata” (sia esterna che interna) che ha però il pregio di non gravare troppo sulle braccia e sulle dita, costringendo pure (dato che il corpo è vicino alla roccia) a un più accentuato lavoro di spalla; mentre il piegamento laterale del busto viene assorbito sul piede corrispondente alla direzione del piegamento, si ottiene così, nella ricerca dell’appiglio, un maggiore innalzamento della spalla.
Nella scalata interna, il discorso è il medesimo, ma si aggiunge tutta la tecnica a incastro. Questa è stata di recente importata da paesi anglo-sassoni e conta molte ingegnose soluzioni per le mani e i piedi a incastro: non è la sede questa per diffondersi molto nei particolari, ma chi fosse interessato può consultare la monografia L’arrampicata in fessura con tecnica di incastro di Dale Bard, traduzione italiana a mia cura, inviabile su richiesta. Basterà osservare quanto per l’incastro sia necessario tenere le braccia distese, senza far mai lavorare più del necessario i muscoli. Il sostegno del busto e il sollevamento devono affidarsi all’incastro dell’arto, e cioè dell’osso, senza far affidamento sulla contrazione dei muscoli. Per esempio, la classica, secondo questo nuovo concetto, dovrebbe essere effettuata il più possibile a braccia distese, affidando l’avanzamento al ritmico ed alternato sollevarsi delle spalle accompagnato dai piegamenti laterali del busto in senso equilibrante.
Vediamo ora alcuni esempi, in base alle fotografie che documentano questo volume. Esempi ben riusciti di Dülfer sono a pag. 45 e a pag. 119, in cui si nota quanto le braccia siano perfettamente distese. Non si può dire la stessa cosa per l’esempio a pag. 161, in cui lo scalatore fa forse più sforzo del necessario per progredire. Altri esempi di braccia ben distese in una combinazione di Dülfer e di spaccata con i piedi sono a pag. 53 e pag. 58. A pag. 47, su parete aperta, si può notare una magnifica posizione di corpo ravvicinato alla roccia, con grande lavoro della spalla destra e contemporaneo piegamento del busto verso sinistra, assorbito completamente dal piede sinistro. Si può intuire facilmente che il braccio sinistro sta facendo pochissimo sforzo. La stessa cosa si può dire, in camino però, per la foto piccola a pag. 65. E ancora un altro bell’esempio in parete è a pag. 229. Alle pagg. 80/81 il tetto orizzontale viene superato con un incastro assai raffinato: la mano è infilata nella fessura e, con la rotazione del busto alla protesa ricerca di avanzare, automaticamente si pratica una torsione del polso che è quella che permette alla mano di non fuoriuscire e di non fare una dannosa pressione sulle dita all’interno alla ricerca di un inutile attrito. Il gioco di piede (questo è un tetto orizzontale!) è comunque qui determinante.
A pag. 149 c’è un buon esempio di off-width, che si usa in quelle fessure in cui non si riesce a entrare completamente con il corpo. Uguale cosa, ma più difficile, a pag. 153: in realtà non si cerca di far penetrare il corpo nella fessura come sembrerebbe, bensì con complicata torsione del busto si cerca di “avvitarlo” in essa. A pag. 83 l’esemplare posizione di busto ravvicinato alla parete permette alla mano sinistra una sistematica esplorazione alla ricerca di “qualcosa”: su un passaggio che non permette nessun’altra posizione in equilibrio e che a prima vista non sembrerebbe così difficile. Un cenno particolare infine merita la foto alle pagg. 38/39 in cui c’è il miglior esempio di spaccata. Per realizzare una spaccata come questa ai più sono necessari mesi e anni di preparazione atletica e yoga.
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Indeciso nella scelta tra ;
Cosa resterà di questi anni ’80?
e
I migliori anni della nostra vita…propendo per la seconda.
In pillole: siamo passati dal Patchouli a Tigotà (belli puliti e profumati). Mavadavialcul, va…
Negli anni ottanta si sentiva ancora l’ondata sessuale dei vent’anni prima. Scemata con l’omologazione unilaterale dello spit ravvicinato a tappeto, non ci resta che ricordare le trombate su sentiero o in grottini improvvisati a scapito odierno del preservativo gigante che ci obnubila una nostalgia fatta di uniformi indossate e pullmini sterilizzati. Possibilmente con mascherina indossata al polso.
@Umberto … immagino tu apprezzeresti il libro politically incorrect, gossipparo, un dietro le quinte che probabilmente smorzerebbe l’immagine ancor mitica e venerata di chi fa le nostre attività avventurose e pericolose.Raccontare a lingua sciolta ciò che si racconta a tavola tra amici quando hai bevuto troppo … ma forse meglio aspettare un bel po’ d’anni prima di urtare le permalose sensibilità di quelli del nostro ambiente, non tutti invecchiando sarebbero capaci di farsi una risata.Ti do ragione, attualmente decine e decine di libri simili, tante autobiografie precoci che non vanno al di là del “preparazione-viaggio-scalata-vetta”, troppe (?) case editrici che puntano sulla quantità e sfornano a ripetizione libri su avventure ripetitive, già lette e rilette da anni. Aspetta e spera, intanto grazie della fiducia 😉 Politicamente correct, chiedo vènia per l’off-topic.
Grazie Rampik per la giusta precisazione relativa a Tempo e Tampax, ed anche per quelle informazioni di vita arrampicante del periodo. Quando è che scriverai un libro sull’arrampicata che ti ha circondato e ti circonda? Magari alla tua maniera: sarebbe un documento di bella importanza, viste la poca e spesso pedante letteratura a riguardo…
Certo negli anni 80di terreno vergine ce ne era tanto. Mcondivido il commento di Massimo Bursi, l’avventura esiste anche oggi. E’ l’approccio, lo stile, il modo di confrontarsi con la roccia che fa la differerenza. Certo che molti applicano e/o pretendono il principio della fruibilità e questo uccide l’avventura con minestre preconfezionate un pò tutte uguali. Ma non per tutti è così e l’importante è che ci sia sempre qualcuno che porta avanti un pensiero diverso anche se si scontra con il pensiero dominante.
Bello spaccato dei primi anni mellici … segnalo che Marco Pedrini non ribattezzò la Signora del Tempo come Tampax, si tratta invece di due fessure diverse. “La signora del tampax” si trova a sinistra, poco più lunga della sorellina, e quando Pedrini la salì nel 1985 divenne uno dei tiri in fessura più difficili del momento, 7c (IX/IX+) protetto da 5 spit che Pedrini piazzò calandosi. Attualmente viene (raramente) ripetuta anche totalmente trad, senza moschettonare gli spit che sono tuttora in loco dopo e hanno quasi 40 anni di vita. “La signora del tempo” invece è stata interamente liberata, compreso l’A0 iniziale del francese, da Norberto Riva, seguito da Tarcisio Fazzini che la salì a vista (7a+), primissimi anni ’90. Lo stesso Fazzini fu il primo a ripetere il Tampax.
Non sono d’accordo che con l’arrampicata odierna non ci sia più avventura: tutto dipende dallo spirito individuale con il quale si approccia la roccia. Io ho vissuto l’arrampicata anni 80 e sto vivendo l’arrampicata odierna, sempre ai margini della Storia, ma, pur essendo cambiata, sta a noi trovare lo spirito giusto e la nostra dimensione.
Se ancora qualcuno si illude che oggi ci possa essere avventura nell’arrampicata odierna ( almeno dalle nostre parti ) si illude. Ed è sufficiente leggere queste storie per capire l’immenso fermento, la fantasia, i campi di azione totalmente intonsi e selvaggi in una continua esplorazione gioiosa. Senza retoriche, sono molto affezionato a quei periodi che ho vissuto e amato e che ho raccontato nel mio libro ” Niente come allora”. 100 Nuovi Mattini hanno significato moltissimo perché di fatto ci diede la chiave per aprire porte chiuse da una ciecita’ e arroganza dettata da quella “Lotta con l’Alpe” tanto cara a molti montanari dei tempi. Leggendo il testo a cavallo tra narrazione e relazione non posso che sentirne i profumi, la paura e le frustrazioni, la passione e l’amore per quelle rocce. Amen