Il dibattito sull’uso di mezzi artificiali in arrampicata e in alpinismo è vecchio quasi quanto le due attività stesse, probabilmente inizia con Albert Frederick Mummery quando il grande alpinista inglese cominciò a parlare di scalare le montagne “by fair means”. Dunque una “rivoluzione” tutta britannica, che seguiva del resto l’invenzione (sempre britannica…) dell’alpinismo.
Il dibattito arrivò poi alla forma assoluta ed estrema di Paul Preuss, quindi si stemperò nel tempo del Sesto Grado in un ventaglio di forme intermedie.
Una sosta trad
Si riaccese nella seconda metà degli anni Sessanta, prima in America (Royal Robbins), poi in Europa (Reinhold Messner, Enzo Cozzolino, ecc.). Venne il Nuovo Mattino e con lui il dibattito trovò corpo: l’alpinismo si divise, si creò il free climbing che per certi versi si contrappone all’alpinismo padre.
Con il Nuovo Mattino non si pretese più di fare salite che potessero essere comprese in un’etica che si voleva Una (che una però non era), ma ci si accontentò di farle in modo che appartenesse fisicamente a una delle Etiche.
Sempre del mondo anglosassone è l’invenzione dello «stile alpino», che esprime in modo perfetto, con il suo ridotto uso di materiali, ossigeno, uomini e corde fisse, la contrapposizione alla conquista con mezzi illimitati.
Nell’ambito del free climbing, e mentre a esso si contrapponeva l’arrampicata sportiva con la sua filosofia del gesto atletico in piena sicurezza, dunque assicurato da protezioni fisse, ecco nascere già negli anni ’70 altre varianti, come il real climbing, clean climbing… e negli anni del Duemila ecco il trad climbing e perfino il new trad.
Sulla possibile confusione tra clean e trad abbiamo già dedicato un post (vedi qui), ma è indubbio che si senta che il dibattito deve essere ulteriormente approfondito.
Caroline Ciavaldini e il suo equipaggiamento trad
Il 27 aprile 2014, nell’ambito del Festival di Trento e nella sala conferenze della Fondazione Kessler, il CAAI e Mountain Wilderness hanno ritenuto di grande attualità organizzare il convegno Trad climbing: una nuova etica in alpinismo?, sia per sgombrare il campo da equivoci banali sia per tratteggiare quello che potrebbe essere un futuro.
Moderato da Alessandro Gogna, che ha curato un’introduzione al problema, il convegno si è trovato d’accordo subito su due punti fondamentali. Primo, si sta parlando di etiche, dando quindi per scontata la libertà di seguirne una, due, tutte o nessuna. Le etiche sono come dei codici di gioco, si può giocare con quelle regole (senza barare quindi), oppure dire chiaramente di aver adottato altre regole, seguendo quindi un’altra etica, oppure inventandone una nuova. Secondo, con il termine “trad”, cioè tradizionale non si vuole corrispondere affatto a un semplicistico «ritorno al passato», si vuole semplicemente aggregare quegli arrampicatori che, condividendo i valori tradizionali, praticano un’arrampicata moderna per molti versi originale.
La sala della Fondazione Kessler a Trento, 27 aprile 2014
L’arrampicata trad non evita i chiodi, ma il loro uso è limitato alle situazioni in cui non sono sostituibili, vengono preferiti i mezzi di protezione a incastro senza che il gioco vada a scapito della sicurezza. L’obiettivo dello scalatore trad è quadruplice: “fare” la salita (“chiuderla”), non sfruttare le protezioni per la progressione (RP), sistemarle personalmente e dedicare uguali sforzi (di tempo e di capacità) alla serie di movimenti in arrampicata libera e alla strategia di protezione (a volte davvero elaboratissima). L’arrampicatore trad rifiuta in genere la filosofia del “o la va o la spacca”, e sta magari delle ore a studiare come proteggersi. Ecco perché, al momento, il trad si esprime soprattutto sui monotiri.
Riguardo alle condizioni per cui ci possa essere un trad, l’impressione è che quelle vissute sulle pareti e le falesie del Regno Unito non siano esperienze trasferibili “tout court” sulle verticalità nostrane. Tuttavia, il movimento trad c’è ed è vivo anche da noi: non dimentichiamo che il CAAI è alla terza organizzazione (2010, 2012 e settembre 2014) del Trad climbing meeting in Valle dell’Orco (Parco del Gran Paradiso), istruttiva occasione d’incontro internazionale.
Nel 2010 si era anche tenuto, in quell’ambito, il convegno Arrampicata trad(izionale), quale futuro? E a questo proposito, assai valide sono le conclusioni del dolomitista Manrico Dell’Agnola, quando commentò che “nomi fra i più autorevoli dell’alpinismo mondiale credono che l’arrampicata dovrebbe fare un passo indietro, non tecnicamente, ma tecnologicamente e questo reputo sarebbe un bene per l’alpinismo e per la montagna”.
Convegno sul Trad a Trento (27 aprile 2014): Maurizio Giordani, Ivo Rabanser, Alessandro Gogna, Maurizio Oviglia e Alberto Rampini
I protagonisti del convegno di Trento sono stati scalatori che non hanno bisogno di presentazioni: Maurizio Oviglia, Maurizio Giordani, Ivo Rabanser, Alberto Rampini. Di essi, solo il primo ha praticato esperienza trad e clean in senso stretto.
«Il Traditional climbing va anzitutto spiegato – ha argomentato il moderatore Gogna – perché non è un ritorno al passato e, se è facile da praticare sul granito dove si possono usare dadi, friend, cordini, è più difficile sulle Dolomiti e su certi calcari. Qui è necessario spesso usare il chiodo il quale, messo e levato, col tempo spacca le fessure. Lasciato o non lasciato, ma comunque usato, non può essere “clean”.
Ci sono rocce diverse, storie diverse e arrampicatori diversi, parliamo di codici che uno accetta di usare se vuole giocare a questo gioco. Io sono però uno strenuo difensore della libertà individuale di interpretare, negare o fare delle cose intermedie o diverse: ci sono tanti alpinismi diversi e parlarne può essere utile per sapersi muovere e distinguere culturalmente. Non credo che occorra dare troppa importanza a questi nomi, anche perché c’è chi dà più importanza all’impresa in generale. È la codificazione di un gioco, poi sta a noi valutarlo».
Maurizio Oviglia, aiutato da alcune immagini e un breve film, ha illustrato come lui stesso ha fondalmente contribuito alla nascita del trad in Italia, soprattutto in Sardegna, con la scoperta di alcune aree dove questo può essere praticato senza troppe difficoltà. Oviglia, in questa ricerca, era partito dalla constatazione del forte sbilanciamento presente a fine secolo XX: in Italia non c’era quasi falesia che non fosse chiodata a spit, i vecchi itinerari schiodati che si prestavano al trad praticamente tutti richiodati in modo definitivo. Ecco dunque l’esigenza di trovare alcune cosiddette “aree clean”, autonome e di principio non violabili dalla filosofia sportiva, anche per “un’alternativa di arrampicata più gustosa ai giovani alpinisti”. Oggi la situazione non è molto diversa, ma qualcosa si comincia a vedere (Valle dell’Orco, Valle di Mello, Cadarese, Capo Testa, Carloforte, ecc.).
Maurizio Oviglia arrampica trad in Valle dell’Orco
Maurizio Giordani ha espresso il suo parere rievocando quella che è stata la sua storia personale, soprattutto la sua scelta di eleggere la parete sud della Marmolada come terreno privilegiato in cui cercare di progredire e di eccellere. Il percorso gli divenne sempre più chiaro dopo lo Specchio di Sara e i pochi spit usati in quell’occasione: aprire un itinerario di difficoltà equivalenti, ma senza l’uso di neppure uno spit. Giordani ci ha detto di esserci riuscito quando aprì Andromeda e che per questo la sua soddisfazione fu immensa, come a sottolineare la gioia che si può provare ad aver agito “clean”, pulito: una gioia che si affianca a quella della conquista, almeno a pari merito.
Aver ottemperato all’intenzione di non appropriarsi totalmente dello spazio in parete, ma di lasciarlo intatto a beneficio degli alpinisti che saliranno dopo.
Anche Ivo Rabanser si serve di un po’ di esposizione autobiografica per sottolineare come per lui ciò che conta è l’autonomia e l’estetica di un itinerario, in altre parole il risultato di un impegno, di una performance. Senza nulla togliere al valore dei vari codici, Rabanser afferma con decisione di essersi trovato a sottometterli alla via, vista in modo globale. Inoltre, per Rabanser, «una via aperta con protezioni mobili implica una difficoltà più alta per i ripetitori, la via non si semplifica con il passare del tempo. Quindi questa tecnica consente agli alpinisti di restare più autonomi e farebbe riacquistare capacità che si stanno un po’ perdendo, come quella di piantare i chiodi».
Infine Alberto Rampini ha spiegato in modo sintetico e magistrale l’etica in vigore in Gran Bretagna, in particolare in Cornovaglia: no chiodi, no soste, no discese attrezzate, nessun nome all’inizio della via, no “gardening”… perfino, su certi terreni, no alle suole Vibram per l’approccio!
Alberto Rampini su William’s Chimney, Trewevas Head, Cornwall
E questa pratica, là diffusa a livello popolare, è stata trasportata in altri terreni, questa volta di vera montagna, come sulla catena dell’AntiAtlante, in Marocco. E proprio nell’audiovisivo che Rampini ci ha mostrato sul Marocco si è potuto avere una vaga idea di come potrebbe essere il “trad” del futuro. Tra quelli che sono stati là, qualcuno è tornato spaventato: ma l’opinione prevalente è che sia soprattutto una questione psicologica, da assuefazione allo spit.
Il convegno si è chiuso con la consegna dei premi del Concorso Clean Climbing 2013.
Premiazione Concorso Clean Climbing 2013: Carlo Alberto Pinelli, Arturo Castagna, Alessandro Beber, Stefano Michelazzi, Giovanni Nico, Tomas e Silvestro Franchini
L’intervista di Mountainblog a Carlo Alberto Pinelli
http://youtu.be/5DC-fS5MV78
L’intervista di Mountainblog ad Alessandro Gogna
http://youtu.be/3dX7OIUWODk
postato il 16 maggio 2014
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potevate farci uno squillo… visto che abbiamo aperto le 2 falesie trad più grosse d’europa (e una quindicina di tiri in sardegna a capo testa e altrettanti dietro quirra!)
😉
grazie!