La via di Gian Piero Motti

La via di Gian Piero Motti (RE 012)

Il 15 gennaio 1967 Paolo Armando ed io (che nelle vacanze di Natale avevamo salito in seconda invernale la via Ottoz-Viotto al Dente del Gigante) avevamo pernottato in una malga sotto l’Uja di Mondrone (Val di Lanzo). Mentre stavamo per partire, ecco che arrivano direttamente dal paese tre alpinisti torinesi: Ilio Pivano, Sergio Sacco e Gian Piero Motti. Io conoscevo solo Motti, presente una sera del dicembre precedente al rifugio SEM Resinelli e il 26 dicembre al rifugio Torino). Paolo invece, torinese, li conosceva bene tutti e, come al solito, ne diffidava. Ma quella volta accettò di buon grado la loro compagnia, perché naturalmente, la meta era la stessa, la via di Guido Rossa alla parete nord dell’Uja di Mondrone. Dopo un’oretta eravamo all’attacco, e io iniziai per primo. Faceva un freddo siderale, ricordo alla fine della prima lunghezza, una “bollita” alle mani storica davvero. Ma poi prendemmo il ritmo e salimmo tutti e cinque fino in cima, arrivando al paese verso le otto di sera. All’osteria ci ripromettemmo di rivederci, cosa che avvenne solo il 2 luglio 1967, quando scalammo assieme sulla Parete dei Militi (Valle Stretta), la via Gervasutti di destra. Qualche giorno dopo ci fu lo storico tentativo di ripetizione della via Gervasutti alla parete est delle Grandes Jorasses (12 luglio 1967): tornammo indietro battuti da ripetute e pericolose scariche di sassi. Per rifarci scalammo, il 17, la via Ratti-Vitali alla Ovest dell’Aiguille Noire.

Gian Piero Motti sulla Rocca Nera di Caprie (Valle di Susa), via dei Tempi Antichi, 3 novembre 1982

Era anche tempo di grandi discorsi, chiacchierate infinite. Ovviamente parlavamo di alpinismo, e sarebbe troppo lungo riferirne, anche perché dovrei riportare le lettere che ci scrivevamo. Parlavamo soprattutto delle salite in programma, ma anche ci complimentavamo l’un l’altro per le ascensioni che intanto facevamo con altri. Poi volevamo scrivere la monografia sulla Torre Castello (Rocca Provenzale), cosa che poi in effetti facemmo. Come maschietti eravamo anche abbastanza arrapati, perciò i discorsi, specie in compagnia di altre persone, spesso avevano un senso decisamente unico… Naturalmente, passando gli anni, crescevamo e quindi tono e argomenti di discorso subirono grandi evoluzioni.

Che cosa rappresentava per noi una salita? Nei primi anni, prima dei Falliti, una salita per lui era l’azione, era il suo modo di realizzare la sua passione per la montagna, per la natura e per l’avventura. Più o meno allo stesso modo di tanti. In seguito, da una posizione di assoluto rifiuto dell’alpinismo, come di chi non ne vedesse più l’utilità, passò ad una graduale rivalutazione (e quindi a un forte riavvicinamento all’attività alpinistica) dell’idea di salire sportivamente e con difficoltà sulle montagne. Fu uno dei principali promotori del mito californiano, considerato un prezioso alleato per movimentare l’establishment del tempo. Qualunque cosa fosse «diversa» serviva per rompere il quadro precostituito in cui vedeva agitarsi la maggior parte degli alpinisti.

Negli anni Settanta questo volle dire il Nuovo Mattino. Gian Piero, affascinato dal pensiero californiano, ma anche dal più sperimentato real climbing inglese, fu uno dei principali interpreti della nuova Weltanschauung, più o meno in contemporanea con Patrick Cordier, con Ivan Guerini, con i Sassisti di Sondrio. In seguito, nel 1980, m’incoraggiò a dare corpo a queste nuove acquisizioni culturali e comportamentali tramite la stesura dei 100 Nuovi Mattini, una visione tutta italiana dei libri di Ken Wilson. Si parlava di free climbing e non sapevamo che questo fenomeno a noi così caro sarebbe andato a finire sul patibolo dell’arrampicata sportiva, come del resto ebbe il tempo di vedere anche Gian Piero. Tutto Arrampicare a Caprie verte su questo tema, la morte del Nuovo Mattino.

In definitiva l’alpinismo era per Motti un mezzo che ciascuno interpretava: per raggiungere l’illuminazione e la verità per alcuni, per altri un gioco al massacro, per altri un divertimento tipo hobby, per altri ancora una vera e propria dannazione. A ciascuno il suo alpinismo, ecco il suo ideale. Anche il suo ideale di vita era semplice: ciascuno doveva trovare il suo. E lo dimostrò intraprendendo la sua strada, con grande impegno, senza farsi distogliere dagli ideali degli altri o dai controlli della società. Così per lui stesso un’ascensione divenne il riproporsi cadenzato e metodico di un simbolo a tinte fortemente religiose, anche se non nel senso tradizionale del termine «religione». Era l’ascesi dell’anima verso Dio (ove per Dio s’intenda qualcosa di ben diverso dal Dio tradizionale, non solo cristiano).
Non ricordo quali fossero le sue letture preferite. Era però di sicuro abbastanza onnivoro: una cosa di cui sono certo è che aveva letto più di un libro di Sigmund Freud, cosa che secondo me, forse per inconscia contraddizione, lo spinse a intraprendere un cammino personale e psicologico molto simile a quello di Carl Gustav Jung.

Lavorava sui suoi scritti, oppure leggeva, sempre di pomeriggio, talvolta di sera, mai al mattino. Al mattino dormiva sempre fino alle 11 o anche oltre, perché diceva che i sogni «forti» vengono sempre e solo al mattino.

Gian Piero Motti in Sbarua (Pinerolo), 1a lunghezza della via Gervasutti, 19 marzo 1972
Sbarua (Pinerolo), via Gervasutti, 1a L, G.P.Motti, 19.3.1972
L’aver letto una quantità smisurata di scritti d’alpinismo, non solo in italiano, è un riflesso del suo desiderio di indagine storica. L’indagine, più che storica, era semplicemente un’indagine. Gli storici (o meglio i cronisti) fino ad allora avevano registrato degli avvenimenti, magari polemizzando sulle performances (Rudatis, Preuss, ecc.), ma nessuno aveva mai scritto una «storia» dell’alpinismo tentando di attribuire agli avvenimenti un fine, un disegno, o magari semplicemente di definire delle espressioni di comportamento. Ecco perché indagine. Duecento anni di alpinismo la ponevano qualche domanda sul perché. Non bastava più Mallory a spiegarci che si va sui monti perché «sono là».

Passava da una profonda ammirazione per alcuni alpinisti, Giusto Gervasutti in particolare, alla dovuta considerazione per altri, in una scala assai variegata e complessa. Credo che leggere attentamente la sua Storia dell’Alpinismo c’insegni quanto lui leggesse per amore e quanto i suoi giudizi, a volte un po’ duri e controcorrente, fossero sinceri. In ogni caso non si soffermava mai solo sulle imprese, voleva sempre conoscere le motivazioni e le inseriva nel contesto storico. Come del resto fa qualunque vero storico che non sia proprio nella tradizione di Tacito. La Storia dell’Alpinismo non bisogna leggerla solo in chiave psicoanalitica: ci sono ricerche e annotazioni culturali e di ambientazione che esulano totalmente dall’ambito psicologico. Quello della chiave psicoanalitica risultò per molti il primo vero ostacolo alla lettura, a volte un rifiuto. I detrattori sbuffavano e urlavano al falso profeta maledetto e bugiardo; i sostenitori leggevano beati capendo il 50%; c’erano anche quelli che non capivano niente, facevano spallucce e giravano pagina.

postato il 5 maggio 2014

Gian Piero Motti sui massi delle Courbassere (Valle di Lanzo), 2 marzo 1980
Courbassere (Valle di Lanzo), 2.3.1980, G.P.Motti

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La via di Gian Piero Motti ultima modifica: 2014-05-05T08:00:46+02:00 da GognaBlog

7 pensieri su “La via di Gian Piero Motti”

  1. Ottimo libro:noi siamo stati una generazione fortunata ( non senza dolori e battaglie ) , perche’ abbiamo potuto permetterci di sognare l’utopia,mentre ai giovani d’oggi presi dai problemi economici non e’ concesso,quindi evitiamo lezioni moralistiche ed essere piuttosto determinati sull’etica , es. : basta con gli spit, con l’eliski, nuove ferrate e tutto cio’ che sta banalizzando la montagna e l’alpinismo .Rispettando le nostre scelte passate e le nuove generazioni forse non interrompiamo il nostro “Dream”( e non solo sull’Alpinismo )

  2. Beh…
    Rispondendo al Sandro DOC…

    In effetti Tacito era uomo di potere. Quindi il suo accennare all’oscuro è nel paraverbale, nello stile…
    Il linguaggio esplicito è – appunto – di chi dall’alto giudica una storia incomprensibile, in disfacimento [l’enantiodromico precipitare verso il basso dopo i fasti – l’alto – dei primi anni dell’Impero].
    E poi i romani erano conquistatori e giuristi e non esploratori delle penombre di Ade.

    Grazie a te per questo continuo richiamo alle domande importanti: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”. E soprattutto: “Ma è meglio la birra o il vino?”.

    😀

    Scherzo, eh?
    È per sdrammatizzare…
    Una risatina qua e là attenua un pochino questo sconcerto infinito di fronte al mondo.

    “Che ci faccio qui?”

    Bye

  3. Credo che Storia dell’Alpinismo di Motti debba essere una tra le principali letture per un giovane che si avvicina alla Montagna. non necessariamente è sempre così, c’è anche chi va a scalare e non gli interessa altro,. si perde sicuramente molto ma è solo il mio pensiero, l’approccio che io ho scelto e che cerco di condividere, il libro è tutto tranne che noioso.

  4. Anche Rock Story era pieno di riferimenti oscuri. I miei compagni di cordata mi prendevano in giro perché a me era piaciuto molto. Dicevano, ricordo, che non si capiva niente (a parte le relazioni). 🙂 Potrebbe essere perché anche io nel tempo libero leggevo Freud e Jung? Scherzi a parte la storia dell’alpinismo di Motti e’ stata una delle cose meno noiose che abbia letto

  5. Caro Sandro, non sai quanto piacere mi faccia leggere e rileggere il tuo commento. Mi sembra di trovare un interlocutore nel deserto, uno con cui condividere la mia sete. Francamente non ci speravo.
    Ciò che riguarda Tacito è una mia interpretazione, mai ebbi discussione in proposito con GPM. Ciò che vorrei dire è che lo stile di Tacito è uno stile, come giustamente dici tu, sincopato, secco, duro. Direi un modo di fare cronaca all’inglese, tipo Mountain, ricordi?
    Credi che io non ammiri Tacito? Certo che lo ammiro. E, nel mio piccolo, cerco di condurre questo blog con quello stile. Dando spazio al pensiero, alle emozioni di tutti. Ma non sono pronto a condividere con te il giudizio che Tacito sapesse vedere il richiamo dell’oscuro al fondo della tensione verso l’alto. Jung e GPM certamente sì.
    Detto questo, ti prometto che rifletterò a lungo su quanto hai voluto dirci.

  6. Beh, dai…
    Io ho un debole per Jung…
    Ma anche per Tacito…
    In che senso Motti non scrisse storia taciti more?
    Tacito visse in tempi drammatici. E il suo stile – sincopato, secco, duro – lo esprime…
    Anche GPM visse tempi simili.
    Sì, la sua scrittura è più fluida…
    Però…
    Saper vedere il richiamo dell’oscuro al fondo della tensione verso l’alto…
    Non è da tutti.
    E’ da Jung.
    E’ da Tacito.
    E’ da GPM…

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