In attesa di nulla
(scritto nel 1995)
Tardo pomeriggio di un giorno di marzo. Gli ultimi fondisti si avviano al tepore dei loro alberghi prima che il freddo geli loro la schiena umida. I grandi laghi dell’Alta Engadina sono ghiacciati, superfici apparenti del fondo valle. Una piccola lingua di vegetazione avanza per poco nell’orizzontale bianco. Nelle altre stagioni la piana e boscosa penisola di Chastè timidamente si protende nelle acque del Lej da Segl; era questo il luogo prediletto di meditazione di Friedrich Nietzsche durante i suoi lunghi soggiorni in Engadina. “Qui sedevo in attesa – ma di nulla. / Di là dal bene e dal male, ora la luce / godendo e ora l’ombra, un solo gioco / tutto lago meriggio, tempo immoto: / quand’ecco, amica! Uno si fece due / e Zarathustra mi passò davanti“.
Numerosi musicisti, artisti, romanzieri non hanno mancato la visita a questa terra d’Engadina, traendone ispirazione per le loro composizioni e opere. Richard Wagner riportò sul suo taccuino “Di nuovo e ancora più forte ho avuto l’impressione trascendentale della sacralità della solitudine, del silenzio che tranquillizza quasi con violenza“.
Ai primi dell’800 soggiornare in Engadina era lusso riservato ai pochi della grande nobiltà e della grande cultura. Già a quei tempi il turismo era elitario e mirava alla qualità, non alla quantità. A rischio di apparire esosi, gli engadinesi avevano capito che i turisti bastava attenderli nella maniera giusta. Ugo Foscolo, anch’egli convinto estimatore di questa terra e della sua ospitalità, confidava sorridendo che “gli ottimi svizzeri guardano il forestiero come fosse cacciagione“.
Il villaggio si sta appena svegliando, sono le otto quando apriamo la porta dell’albergo in una nuvola di vapore. La neve sembra accostarsi ai comignoli per proteggerli dal freddo gelido. Un odore pungente di legna fa solletico alle narici mentre siamo intenti a coprirci il viso con il passamontagna. I brividi ci costringono ad un’affannosa partenza per la Haute Route dell’Engadina, prima di ritrovare il giusto ritmo in sintonia con cuore, polmoni e il grande silenzio. Quel silenzio che “tranquillizza quasi con violenza” ci circonderà totalmente nella Val d’Agnel. Per qualche giorno non scapperemo più ad un isolamento che oggi appare sempre più difficile.
Meditare non è più di moda, ma quelli che una volta erano luoghi di raccoglimento oggi sono in stato d’assedio: anzi, sono diventati luoghi di pellegrinaggio laico. Una delle cartoline più vendute raffigura Nietzsche meditabondo, la casa dove morì Giovanni Segantini è meta frequentata in estate e in inverno.
C’è un filo unico che collega l’élite della grande cultura a quella del grande denaro: e alla fine questo filo d’Arianna ci conduce all’élite dei grandi silenzi, sulle tracce del trentenne Zarathustra che per dieci anni “godette del suo spirito e della sua solitudine”.
Al primo rifugio, la Chamanna Jenatsch, il guardiano ci accoglie con un sorriso e organizza il nostro soggiorno con fermezza gentile. Con grande semplicità si compiono le cose di fine giornata, il tempo di preparare una cena essenziale e di consumarla mentre la stufa ronfa in un angolo. Pochi sono gli ospiti e poco dopo salgono a coricarsi. Per le guide è il momento del bicchiere in cucina con il custode: in genere si ritrovano tra amici, come ai posti tappa delle carovaniere. Sembrano sempre gli stessi discorsi, ma non è importante quello che si dicono perché è importante il calore con cui si comunicano le proprie speranze che in fondo la vita rimanga sempre uguale a questa, “in attesa di nulla”.
Ma Zarathustra non abita più qui e l’uno rimane uno. Chi declama ancora “E colui che conosce deve imparare a costruire con le montagne! Smuovere le montagne non è molto per lo spirito“? C’è più fede in un esercito di ruspe che nel corteggiare la vaghezza dello spirito, e da tempo abbiamo imparato a costruire non “con” ma “contro” le montagne.
La traversata è un piccolo progetto per piccoli uomini: quasi certamente andrà a buon fine. Non altrettanta è la sicurezza per i grandi progetti dove interviene lo spirito. C’è un limite di certezza alle proprie visioni: Nietzsche andò forse oltre, però la sua base di partenza era lucida: “Ma una cosa credono tutti i poeti: che cioè tutti quelli che, salendo sull’erba e su pendii solitari, tendendo le orecchie, possano apprendere qualcosa di ciò che sta fra la terra e il cielo“. E questa era anche l’intima convinzione di Segantini, quando maturò il concepimento di un progetto spettacolare che non vide mai attuazione, il Panorama dell’Engadina: “Pensai di comporre un’opera grandiosa, dove potessi chiudere, come in una sintesi, tutto il grande sentimento delle armonie alpine e scelsi per tema l’Alta Engadina, come quella che io maggiormente studiai e che è la più varia e ricca di bellezze che io conosca“.
Il Trittico della Natura raccolse buona parte dell’idea che aveva nutrito il Panorama: mattino, pomeriggio e sera, accostati alle stagioni, sono i simboli di Vita, Natura e Morte. Segantini non ultimò quella rivelazione delle sue conoscenze interiori, non fece a tempo a regalarci intera la sua immensità. Morì alle pendici del Munt de la Bescha, sopra Pontresina, in una piccola baita isolata da una tempesta di neve. E pensare che Nietsche aveva pur dato un avvertimento: “Allora tu portavi la tua cenere sui monti; oggi vuoi forse portare il tuo fuoco nelle vallate? Non temi di essere punito come incendiario?“.
I grandi panorami sul Piz d’Err o sul Piz Kesch allargano il nostro cuore come un’ondata di luce, ma dopo un così rarefatto stupore ci prende la malinconia dell’inverno; e il senso di profonda inutilità di quello che stiamo facendo emerge chiaro quando una tempesta di neve pare fermarci: la traversata è messa in forse, è compromessa prima di tutto dalla nostra volontà che si oppone al rischio di non raggiungere il rifugio più vicino, la Chamanna digl Kesch. Ed è ancora l’impietoso Nietzsche a dirci, per bocca di Zarathustra, “E non vi è ancora mai stato concesso di gettare il vostro spirito in una buca di neve: non siete abbastanza caldi per far questo! Così non conoscete il senso di beatitudine che dà il suo gelo“.
La traversata nella neve verso l’invisibile meta del ritorno si colora di visioni di sconforto e di dolore, nella luce siderale che aleggia sinistra sulle livide lande ghiacciate delle Cattive Madri di Segantini: luoghi dove la vita ha ceduto il posto all’impotenza dell’imprecazione e della bestemmia. Perché anche in quella rassegnata e tragica dimensione la montagna suggerirebbe di non attendere nulla.
Infatti, inatteso, torna il sole a scaldarci. Rincuorati, scendiamo al paese più vicino, ormai immerso nell’ombra del crepuscolo. Anche per oggi non c’è più nulla da attendere.
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Se qualcuno di voi fosse interessato ai divisionisti lombardi e piemontesi di fine ‘800 al Castello di Novara sino al 5 aprile c’è una mostra in cui sono esposte anche opere di Segantini ed in generale anche dipinti con oggetto la montagna.
Saluti.
Massimo Silvestri
Bel racconto, evocativo di riflessioni e bellezza, la stessa che ha estasiato Segantini e che il grande artista ha fissato su tante tele.
Si, molto bello, e ti immerge in quei luoghi, in quei silenzi e in quell’immensità. Pare quasi di esserci.
bello, intenso