In scacco, l’Everest interrotto
di Tashi Sherpa
tradotto da Alpinist n. 47, per gentile concessione di www.Alpinist.com
All’alba di una giornata di primavera sedici scalatori sono morti sulla Khumbu Icefall dell’Everest. In alto, un seracco gigante era collassato dalla Spalla Ovest, causando una valanga che ha travolto e trascinato tutto ciò che incontrava. Rallentati dai carichi pesanti, avanzando precari tra crepacci e torrioni di ghiaccio, gli uomini non avevano alcuna possibilità di scamparla. In pochi secondi, i corpi di tredici sherpa e di tre altri nepalesi giacevano sotto una colossale massa di detriti di ghiaccio, assieme all’armamentario. È stata la peggiore giornata della storia della montagna.
Il versante nepalese dell’Everest con la via di salita. Al centro della foto e in basso è l’Icefall
I sopravvissuti erano paralizzati dallo shock e dal dolore. Qualcuno era arrabbiato con le autorità delle quali già s’immaginavano le dichiarazioni irrispettose delle loro perdite. Alla fine, tutti gli sherpa fecero i bagagli e se ne andarono. Molti non avevano il coraggio di insistere in un anno così nero (Lo Nag).
L’approssimativo percorso del crollo di seracchi dalla Spalla Ovest dell’Everest
Maggio racchiude la breve possibilità di salire in cima. Subito dopo arrivano le pesanti piogge del monsone. Già le nubi arrivavano e si concentravano, infauste, creando i primi cicloni sul subcontinente himalayano. Giunge notizia di elicotteri che portano al Campo 2 due clienti “indipendenti”, uno dei quali è anche andato in vetta. A prescindere se quest’azione è da considerare irriverente e fuori dal codice alpinistico, rimane il fatto che il perseguimento individuale di gloria spesso scavalca brutalmente la ragione e il rispetto.
I riflessi del teatro crudele di questa stagione hanno scosso profondamente la percezione di ciò che una volta consideravamo un’attività onorevole. Tra rabbia e paura, i vulnerabili hanno trovato nuova voce. C’è unanime condanna del modo in cui le spedizioni commerciali hanno ignorato il valore di un coefficiente così importante in ogni tentativo: quello dato dai lavoratori delle montagne. I francesi hanno un termine, enfants perdus, per i soldati che vengono assegnati ai posti più pericolosi. Questo termine è perfetto per coloro che, coraggiosamente, sono morti questa primavera e sono ancora lassù sepolti nel ghiaccio.
La nostra coscienza collettiva indietreggia di fronte all’idea del ricavo economico o della vanagloria che hanno precedenza sulla vita umana. Ogni primavera all’Everest sherpa capaci e altri lavoratori fronteggiano la prima minaccia della montagna sull’Icefall, con carichi pesanti si trascinano in posti da brivido, piazzando scale e corde tra torri in bilico nei momenti più freddi della giornata, perciò i meno pericolosi, in un freddo siderale. Dov’è la moralità in questo matrimonio di profitto e prezzo, in uno spietato mercato che riserva così poco a coloro che rischiano di più? Come abbiamo potuto permettere per così tanto tempo questa situazione?
Sono più triste che furioso, ma sono convinto che non possiamo far finta di niente di fronte a queste lezioni. Continuare così il prossimo anno e gli anni successivi sarebbe un tormento per chi invece ha a cuore le vittime e la loro memoria. Sull’Everest e su tutte le altre montagne dell’Himalaya non sarà mai più così.
La valanga che si è abbattuta sull’Icefall il 18 aprile 2014
Ora siamo a metà maggio, nella quarta delle sette settimane dello Shabden. Questo è un tempo assai impegnativo per i monasteri, dato che i monaci vanno di casa in casa a officiare il rito del passaggio. I suoni gutturali delle preghiere, il clarinetto requiem del Geling e ilo sordo battere dei tamburi del Nga orchestrano l’antico rituale di morte. Ciascuna famiglia in lutto deve essere presente alla cerimonia prpiziatoria per sette settimane. Lo chiamiamo Shipchu Shey gur, i quarantanove giorni di preghiera e di rinnovo.
I riflessi ambrati delle lampade a burro s’irraggiano sul ritratto del defunto. Nell’acre fumo del ginepro che brucia, i parenti cercano consolazione negli dei onnipresenti, ma spesso la trovano di più tra loro. Io non sono con loro adesso, ma so cosa succede in una casa in cui si è verificata una perdita insostituibile. Il quarantanovesimo giorno, dopo le offerte votive, a un’ora precisa, daranno l’addio definitivo al beneamato congiunto. Da quel momento il dolore, fino a ora così manifesto e udibile, sarà muto, privato. Qualcuno chiede se è stato dato da mangiare ai monaci, se è stato servito il tè agli ospiti, se c’è ancora abbastanza burro per le lampade. Vicini e parenti sono lì, un anziano dispensa qualche saggio consiglio. Tra i gemiti e i singhiozzi delle donne, si rollano i bead di thaynga nella continua invocazione om mane padme hum.
Ora il mondo è più cosciente di cosa siamo.
Un minimo di verità è finalmente apparsa. Ora non siamo più portatori o fantocci, né ci viene più attribuita la metafora del “sì, sahib-no, sahib”. Delle specie di Venerdì della montagna. I più sanno che siamo una comunità etnica di persone che una volta erano contadini, allevatori di yak o commercianti. Sei secoli fa, si dice, lasciammo il Tibet e ci stabilimmo nelle più remote montagne del Nepal nord-orientale. Grazie al nostro adattamento alla vita in quota capimmo la cultura dell’Everest e di quelli che vi cercavano gloria, nel bene e nel male, nel giubilo di una vetta o nella tragedia di un incidente.
Un sopravvissuto viene recuperato e soccorso in mezzo all’Icefall
Il mio cognome è un diritto accidentale di nascita. Non ho mai scalato alcuna grande cima.
In più, ho sempre lottato contro i vecchi stereotipi sulla mia gente. Siamo quelle perdute tribù tibetane che valicarono i passi più pericolosi tanto tempo fa? O quei martiri che si prodigano e si sacrificano per i loro clienti? Per tanto tempo i racconti di chi era stato qui contribuirono ad alimentare un’immagine utopistica del nobile montanaro. Non posso negare che a volte mi fa piacere sentire quanto eravamo considerati eroi invitti e senza macchia.
Ma non ne posso più di subire domande ingenue come quella “Oddio, dove hai imparato un inglese così fluente?”. Molti di noi sono scalatori o guide di trekking. Ma gli altri hanno le teahouse, hanno soldi in banca, sono scrittori, piloti, maestri, dottori e imprenditori. Devo appoggiarmi al mio senso dell’umorismo quando qualche non-sherpa dubita che io possa intraprendere qualcosa anche senza l’aiuto di qualche guru occidentale. Dobbiamo essere sempre visti come gli eterni secondi, con ai piedi i ramponi e sulla schiena un carico?
Nella storia abbiamo dato spazio agli altri, ma questo non vuole dire che non abbiamo dignità. In Touching my father’s soul l’autore Jamling Tenzing Norgay (assieme al co-autore Broughton Coburn) tratteggia scene eloquenti della spedizione del 1953 cui suo padre partecipò. Quando il team arrivò a Kathmandu, un ufficiale invitò i partecipanti occidentali a stare all’ambasciata britannica, e gli sherpa furono mandati a dormire in un garage senza servizi igienici. Al mattino, il capo spedizione biasimò gli sherpa per aver urinato fuori. Non sembrava proprio al comando di dover riservare ai loro partner un trattamento, se non paritetico, almeno decente. È evidente che il giudizio generale sugli sherpa li vedeva più che altro come animali da soma.
L’abituale fila di scalatori che si avviano al Colle Sud per scalare l’Everest
È stato scritto molto sulle liti infami tra europei e sherpa, la scorsa primavera del 2013 all’Everest. Come spesso succede nell’iperbole internet, le voci che hanno parlato più forte sono state quelle poi credute. E improvvisamente il piedistallo su cui i Mikaru (gli occidentali) avevano messo gli sherpa cominciò a vacillare. Prendere a pugni e a calci qualcuno è un atto che ripugna a tutti i buddisti, ma né la violenza né la non-violenza sono attributi che appartengono a una sola cultura religiosa o nazionale. Non sono sicuro che uno stimato cittadino occidentale l’avrebbe presa bene, fossi io entrato nel suo cortile e avessi accusato i suoi genitori di qualche depravazione sessuale. Solo parecchi mesi dopo, passata l’ira e lo scalpore, uno di noi fornì una versione sherpa dei fatti.
Non chiediamo di essere trattati come cavalieri senza macchia, perciò non è giusto, all’occasione, condannarci perché non ci comportiamo secondo stereotipi costruiti da voi.
Come bambino degli anni ’50, ho una visione piuttosto completa di quella che alcuni vedono come l’età d’oro dell’alpinismo himalayano. Osservai gli ultimi sprazzi di luce dell’impero britannico che davano luogo a una nuova sensibilità nelle comunità di scalatori sherpa dell’India post-coloniale. Nel 1954 fu fondato a Darjeeling l’Himalayan Mountaineering Institute. Il direttore operativo e la maggior parte degli istruttori era sherpa. Passai notti intere ad ascoltare storie che mai sarebbero state pubblicate. I nostri vecchi non avevano scritto alcun libro, ma i racconti che i miei zii facevano ai miei cugini e a me mi sono ancora oggi chiari come i colori seppia del loro album di foto.
È stato 61 anni fa che una personalità carismatica dal semplice nome di Tenzing Sherpa e un neozelandese di nome Edmund Hillary fecero la prima ascensione dell’Everest. Nella foto di vetta, l’eroe sherpa è simbolicamente stagliato nel cielo, con la sua maschera, trionfante sulla cima del Chomolungma, la più sacra delle montagne. Fu in quell’istante che si creò l’icona dello sherpa nel mondo.
Tenzing era indomabilmente avvenente, aveva tentato sette volte le barriere eccelse della montagna. Un leader naturale, esigeva rispetto da coloro che si affidavano ai suoi servizi e da coloro che ne seguivano il predicato. Egli fu sempre sincero, talvolta a dispetto dei suoi “padroni” britannici. Aveva una personalità ben più grande della sua vita e un sorriso così spontaneo da incantare testate e personalità di tutto il mondo. Ho letto e riletto la sua autobiografia e naturalmente mi vantavo in modo egoistico dell’amicizia tra le nostre famiglie. Nel karma post-bellico di un mondo disperato, Mr. Tenzing era il meraviglioso eroe dei fumetti. Era esclusivamente nostro, e lo contrapponevamo ai supereroi di carta o di celluloide.
La sempre più abituale ressa di alpinisti sull’Hillary’s Step, apoche decine di metri dalla vetta dell’Everest
M’interessai e seppi tutto anche dei miei altri zii, le Tigri delle Nevi, figure che nei libri degli scalatori stranieri davano sempre prova di “forza, quieto carattere e impeccabile sincerità”, “intelligenza arguta”, “tremenda tenacia” e “grande tecnica di scalata”. Per qualche autore tutto ciò era forse abbastanza , esprimere la loro gratitudine citando e menzionando onorevolmente quei “tizi meravigliosi”, quando in realtà il legame che si era creato tra di loro dipendeva esclusivamente dalle situazioni estreme in cui si erano trovati. Per Ang Tharkay e i suoi coetanei, comunque, non era così importante cosa veniva scritto. La loro propria conoscenza del contributo che avevano dato li inorgogliva. Le figure meno visibili della narrativa himalayana si erano scoperti uguali ai protagonisti, anche se i nomi di questi uomini leggendari (Da Namgyal, Gyalzen Mikchen, Ngawang Gombu) sono sembrano oscuri come monete rare.
Hillary fu quello che io mi rifiutai di accettare per lungo tempo, questo spilungone che torreggiava su chiunque, anche su Tenzing. Sapevo poco dell’influenza che Hillary avrebbe avuto sulla valle del Khumbu. La scuoladal tetto di lamiera che lui riuscì a mettere insieme a Khumjung avrebbe aiutato centinaia di bambini sherpa ad avere un’educazione e ad allargare gli occhi per guardare il mondo. Ma quando lui si fermò davanti a casa nostra per un tè, lo evitai. Era troppo per uno scolaro di otto anni. Il meglio che potei fare in seguito per rimediare alla mia timidezza fu di scrivere un tributo a questo kiwi che era diventato uno dei più grandi sherpa.
Negli anni ’70 e ’80 gli scalatori occidentali proseguirono nello spirito esplorativo e tradizionale, cercando appassionatamente vie nuove sull’Everest, facendo scalate invernali e in stile alpino. Come leggende cresciute rapidamente, molti nepalesi erano interessati ai racconti di Chris Bonington e Pertemba Sherpa al riguardo della prima ascensione della parete sud-ovest o della salita solitaria di Reinhold Messner da nord. Se c’era una qualche spavalderia in quelle imprese, di certo era meritata, non erano tanti quelli che facevano cose del genere.
Gli anni ’80 furono anche l’inizio dell’era dei Super Sherpa, che continuò anche la decade dopo. In Nepal, le notizie della sera tenevano conti di chi era salito e quante volte. C’era un bel po’ di gente che gareggiava amichevolmente a suon di numeri sul Sagarmatha. Ang Rita, Sundare, Babu Chhiri e quell’ometto di Apa, ciascuno faceva sempre meglio dell’altro. Gli si faceva gran festa sul momento poi nelle racconti di qualcun altro gli si dava uno spazio marginale. Forse non eravamo capaci di metterci in mostra. Sebbene il senso dell’avventura rimanesse intatto c’era la sensazione generalizzata che, ad ogni conquista in più, la regale corona di neve della vetta perdesse sempre di più fascino.
La vetta più sognata del mondo
E poi arrivò il diluvio. Qualcuno sembrava aver scoperto un filone nascosto di cacciatori di trofei con tanto danaro a disposizione. Fu lì che gli scalatori divennero consulenti di avventura e vendettero il sogno Everest. L’avvicendarsi delle spedizioni portò persone di mondo in cerca di gloria, ricconi in pensione, magnati del software e rampolli di nobile schiatta: era permesso a tutti di compiacere l’alpinista che era in loro sulla vetta più alta del mondo. Il Campo Base dell’Everest divenne raduno chiassoso di spedizioni d’alto profilo con clienti adeguati, morbosamente curiosi delle altezze. Non è richiesta esperienza precedente, solo un po’ di allenamento alla quota, porta la tua carta di credito e noi faremo il resto. Abbiamo i migliori scalatori del mondo che si prendono cura di te. Il richiamo della montagna si prestava all’incanto del commercio, e in un attimo quelli del business seppero cosa chiedere ai clienti e cosa spartire con i partner nepalesi.
Gli scalatori sherpa, quelli che avrebbero dovuto “prendersi cura”, stavano a guardare stupiti. E, secondo l’usanza buddista dell’accettazione di ciò che la vita dà, si organizzarono tra di loro, contenti di aver più lavoro per la stagione. Pochi si chiesero che cosa avrebbe comportato il “noleggio” di gente meno avvantaggiata in uno dei lavori più pericolosi del mondo.
Perché, mi chiedo, e non sono il solo, c’è voluta una tragedia così grande come questa per riesaminare il nostro comportamento? Dal 1922 al 2013, 252 nepalesi sono morti in spedizione. Non malediciamo nessuno per i movimenti delle montagne o per ciò che succede naturalmente su di esse: questo è il rischio inerente all’avventura. Ma non è necessario alcun complesso algoritmo per essere d’accordo sull’incongruenza amorale di un sistema di valori che riserva compensi così bassi ai lavoratori con i rischi più alti. Quelli che sono morti il mese scorso avevano un’assicurazione di 10.000 dollari (un milione di rupie). Oggi, i funerali di medio livello costano più della metà di quella somma. Un normale cliente alla fine paga più di 65.000 dollari per il privilegio dell’Everest, e il governo nepalese rastrella milioni di dollari con i permessi: ma pochi finora hanno provato a sostenere con misure consapevoli, efficienti e durevoli gli interessi dei lavoratori delle spedizioni e delle loro famiglie. La pratica di chiedere molto e pagare poco, l’approccio permissivo al business della scalata sono alla radice di questa situazione.
In un recente articolo del Wall Street Journal, il proprietario di un’agenzia straniera di scalate ha affermato che i salari degli sherpa li rendono multimilionari nel nostro paese. La maggior parte delle guide sherpa guadagna in media tra i 2.500 e i 6.000 dollari a stagione. Le guide occidentali ci ricavano il quadruplo, se non di più. Ma se uno sherpa guadagna una media di 5.000 dollari nel giro di dodici mesi, vuole dire che ne guadagna 420 al mese. L’affitto per un modesto appartamento a due letti nel suburbio di Kathmandu ne richiede 150. Mandare un figlio a una scuola decente costa 150 dollari al mese: per cibo, trasporti e servizi ne rimangono dunque solo 120, e c’è tutta la famiglia che ne ha bisogno! C’è un arcaico elemento di imperialismo nel pensare che ogni protesta sherpa equivalga all’uccisione della gallina d’oro, come se fosse insito il nostro dovere di essere sempre grati al nostro datore di lavoro per la generosità di darcelo e di mai chiedere qualcosa di più equo.
Il delegato governativo nepalese è al campo base dell’Everest per convincere gli sherpa a non interrompere la stagione. Non ci è riuscito.
Tutti quelli cui tutto ciò importa cercano risposte e soluzioni valide, non balsami lenitivi. Nella buona volontà dell’immediato post-tragedia, la raccolta frettolosa di offerte alle famiglie colpite non ha fatto che scontrarsi con il nostro dolore pieno di sensi di colpa. Questa generosità nobile è commisurata con un senso profondo di giustizia e compassione. Sono contento che i bambini e i familiari delle vittime abbiamo questo concreto sostegno. Non lenisce la loro pena immensa, ma alleggerirà l’incertezza del loro futuro.
Già, e il futuro?
La sfida imminente è che noi riusciamo a tenere ben alti i decibel del rumore che facciamo sulle nostre questioni e che non ci facciamo mettere sotto dai vari interessi economici e politici. Non è nostro obiettivo avere la condanna di qualcuno. Ciò che vogliamo è fare un po’ di chiarezza nella confusione caotica, trovare soluzioni fuori della retorica e del casino. Attraverso la raccolta dei dati, la ricerca e l’analisi, dobbiamo fare un audit pubblico su ciò che l’industria della scalata è diventata.
Primo, dobbiamo avere una visione chiara di ciò che vogliano sia l’Everest oggi e domani. Il saccheggio del monte deve terminare subito. Questa montagna delle montagne è un prezioso simbolo di grandezza per tutti i nepalesi. Ma dare il permesso indiscriminato praticamente a chiunque abbia il desiderio di comprare un biglietto per la cima non fa che dissacrare l’altare. Ci sono troppa folla e rifiuti sui suoi versanti. Coloro che vogliono provarci per avere il permesso devono fornire adeguata prova di essere stati all’altezza su altre montagne. Al governo direi: alza il fee d’ingresso, assicura adeguata ed equa distribuzione dei guadagni e smettila di ascoltare quei profittatori che vogliono solo un’autostrada per i propri lauti guadagni.
In un’editoriale di Republica Pema Sherpa ha espresso uno dei più immediati bisogni: dare una propria voce ai lavoratori di spedizione, “una forte rappresentanza in Kathmandu per riuscire ad avere condizioni per un lavoro più sicuro, vita adeguata, assicurazione medica e opportunità d’istruzione tecnica… queste rappresentanze dovrebbero essere del tutto autonome dalle agenzie nazionali ed estere di turismo montano e trekking”. Lei ha ripetuto la domanda delle guide locali per fare sì che i contributi ai bambini che hanno perso i genitori vengano direttamente dagli incassi per i permessi. E ha anche precisato il diritto degli sherpa di dar voce alle loro opinioni su tutte le questioni che la comunità deve affrontare. Stando ai fatti e seminando solo verità troveremo certamente risposte.
La figlia di Ang Kaji Sherpa, una delle vittime del 18 aprile, sviene durante la cerimonia funebre celebrata a Syambhunath, Kathmandu
In memoria dei nostri sedici martiri che morirono nell’aprile 2014 e per le migliaia di lavoratori di spedizione che si troveranno ad assumere rischi in Himalaya, non possiamo stare in silenzio.
L’estate sta andando, ma oggi soffia freddino dalla montagna. Il freddo che sentiamo non viene dai blocchi di ghiaccio dell’Icefall ma dalla desolazione delle famiglie che hanno perso per sempre mariti, padri, fratelli. Come buddista, prego che il prossimo regno gli porti più fortuna, e come sherpa chiedo alla Dea Madre del Chomolungma di essere comprensiva e di perdonare.
Om mane padme hum
postato il 21 settembre 2014
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Questo articolo ha una conclusione sconcertante che si riassume nel consiglio “alza il fee di ingresso”. Se si vuole limitare l’affluenza (facendo una selezione) basterebbe che il governo nepalese stabilisca che non si può usare ossigeno sopra il campo base. L’affluenza calerebbe del 90% o forse più. Quale selezione di merito si avrebbe con “alza il fee di ingresso”? Si otterrebbe esattamente lo scopo opposto di quello proposto dall’estensore dell’articolo. All’Everest andrebbero i più ricchi e impreparati e resterebbero esclusi gli alpinisti più bravi che di solito non hanno molti soldi. Però vietare l’ossigeno vorrebbe dire non fare più soldi. Quindi non capisco quale sarebbe la soluzione proposta. Alzare il fee di ingresso per fare gli stessi soldi con meno alpinisti? E chi non ha soldi cosa fa? E questo renderebbe più sicuro l’Ice Fall? Nell’articolo si parla di “incongruenza morale” ma poi si legge che il problema è che gli Sherpa rischiano la vita per pochi soldi. Quindi? Se guadagnassero di più sarebbe moralmente più accettabile che rischiassero la vita? Mi sembra che ci sia una grande confusione nel filo conduttore di questo articolo. Il problema di base è che l’Everest e l’Ice Fall sono pericolosi (e questo gli Sherpa lo sanno meglio di chiunque altro). Se tu entri in quel mondo di ghiaccio rischi la pelle, sempre e comunque. Allora diciamo chiaramente che va tutto bene tranne che gli Sherpa guadagnano poco e bisogna pagarli di più per rischiare la vita e quindi ridistribuiamo in maniera diversa i proventi dei permessi. Parliamo, senza tanti fronzoli, di stipendio, di rappresentanza sindacale, di sicurezza sul lavoro, di assicurazioni, di pensione e di gestione dei soldi in genere. Come in qualsiasi altro lavoro pericoloso e usurante. Ma lasciamo stare la Dea Madre della Terra, la morale e il “saccheggio del monte”. Perché altrimenti suona tutto molto ipocrita. Se l’Everest è un santuario (come l’ho sempre considerato, e infatti quando Christian Kuntner ed io lo abbiamo scalato non avevamo ossigeno né portatori d’alta quota e per poterlo vivere in quel modo ci eravamo preparati entrambi durante 15 anni di duro alpinismo) facciamo in modo che lo possano avvicinare solo quegli alpinisti che sono veramente all’altezza e che lo scalano con pochissimo materiale e senza inquinarlo. La soluzione c’è, è molto semplice e l’ho appena elencata. Niente ossigeno sopra il campo base (il non usare ossigeno comporterebbe anche tutta un’altra serie di vantaggi che riguardano, tra l’altro, una eccezionale riduzione dell’inquinamento in generale. Ma qui non c’è spazio per parlarne diffusamente). Poi capisco che “businnes is businnes” e questo non si può fare ma almeno, per piacere, lasciamo stare gli dei e il buddhismo e teniamoci pure questo assurdo e allucinante circo d’alta quota che però sfama migliaia di persone. Ma senza ipocrisie. Qui, come spesso nella vita, è solo un semplice, e si potrebbe anche aggiungere senza problema un “del tutto legittimo”, discorso di Pecunia. Purtroppo la botte piena e la moglie ubriaca non è possibile averli neppure sull’Everest.