Intervista ad Alessandro Gogna

Intervista ad Alessandro Gogna
di Maurizio Oviglia
(ottobre 2002)

Leggendo le ultime imprese alpinistiche ho provato un po’ di amaro in bocca
per quell’alpinismo che era un tempo e che sembra oggi irrimediabilmente
perduto. Ho pensato che occorrerebbe parlare di più di quel che sta
succedendo, mentre invece nessuno lo fa, se non in termini adulatori verso i
protagonisti.
Io penso, e vengo subito al sodo, che in Italia ci siano poche persone in
grado di commentare seriamente di alpinismo. Tu sei, naturalmente, una di
queste. Ho letto in una tua recente intervista su
Lo Scarpone l’invito ai
lettori dei tuoi libri a valutare criticamente il tuo operato e a parlarne.
Forse la stessa cosa si dovrebbe fare verso l’alpinismo di oggi.
Alessandro, tu sei uno dei più grandi alpinisti italiani, e soprattutto
uno di quelli che non ha perso di vista le nuove tendenze, valutandole
spesso con la giusta dose di critica. Chi meglio di te può esprimere un
parere sull’alpinismo attuale?

Comincerei con il chiederti come valuti questo apparente ritorno
all’alpinismo tradizionale
.
Hai ragione a dire apparente. Nessuno e niente torna mai veramente indietro. Parlerei di un’evoluzione a onde, con dei picchi in alto e in basso. Per certi versi l’attività alpinistica di oggi, a livello estremo, assomiglia per alcune regole autoimposte all’alpinismo tradizionale, per altre all’arrampicata sportiva. Si è trasferito un nuovo codice su un vecchio mazzo di carte… Una volta veramente si credeva che il limite fosse in qualche punto, ci si poteva andare vicino oppure annullarlo con i mezzi artificiali. Oggi abbiamo compreso che questo limite non è oggettivo, possiamo spostarlo noi stessi. In parte variando alcune regole, in parte con un’effettiva evoluzione.

«Limitandoci alle Tre Cime di Lavaredo, come esempio, Bubu Bole ha liberato
la Couzy, poi Alex Huber ha salito
Bellavista, una nuova via d’artificiale, e l’ha
trasformata in una libera estrema (8c), rivendicando “il primo 8c in
montagna e su chiodi”. A te sembra un ritorno all’alpinismo dolomitico di
una volta o è piuttosto una strategia di marketing per un alpinismo che non
ha più strade per evolversi?
».
Mi sembra un comportamento già visto che varia in modo nuovo alcune vecchie regole. Quando Jacques “Pschitt” Perrier chiodò dall’alto Pichenibule si gridò allo scandalo. Oggi Pichenibule potrebbe dai migliori essere aperta dal basso e a vista. Siamo sicuri che questo risultato odierno sarebbe stato possibile senza l’esperienza provocatoria e dirompente di Pschitt? Nel suo caso poi non parlerei certo di marketing, la vita hippy del Verdon non poteva esserne più lontana. Nel caso di Huber, non so quanto sia importante per lui vendersi. Dal tipo di alpinismo che fa, non direi. Lo trovo un tipo piuttosto creativo, e la creatività non ha nulla a che fare con il marketing, che al contrario richiede ripetitività d’azione per avere una sicurezza di risultato. M’interesserebbero i fallimenti di Huber, per capire di più. Dove ha mai fallito, se è successo?

«Questo tipo di alpinismo, alti gradi in montagna, come se fossimo in
falesia, potrebbe dirsi “alpinismo sportivo” o è una definizione impropria,
adatta piuttosto per un alpinismo nato con i concatenamenti di Profit?
».
La stessa domanda se la facevano negli anni ’30 dopo le grandi conquiste dell’alpinismo dolomitico. Si può chiamare alpinismo sportivo, figlio cioè di arrampicata sportiva e alpinismo tradizionale. Del resto, nella tradizione ci sono sempre stati pochi elementi, e solo quelli: esplorazione, conquista, eroismo, spettacolo, sport, diporto domenicale.

«C’è ancora, secondo te, chi porta avanti un alpinismo tradizionale in
Dolomiti che possa dirsi evolutivo?
».
Per tradizionale intendi l’escludere le aperture in artificiale e le successive ripetizioni in libera? In questo caso le prestazioni saranno davvero limitate nel numero, anche perché oggi pochi, nell’attuale confusione, sono davvero in grado di capire cosa significhi aprire a vista e in libera, anche solo parziale. Sulla parete nord-ovest del Civetta è stato recentemente aperto un itinerario secondo le vecchie regole che aspetta solo di essere ripetuto…

«Che possibilità ci sarebbero, secondo te, per chi nelle Alpi vuole portare
avanti un alpinismo “intelligente” piuttosto che un alpinismo
“spettacolare”?
».
Non mi sento di escludere che, per definizione, l’alpinismo spettacolare debba essere per forza non intelligente. O, se vuoi, che l’alpinismo per essere intelligente debba escludere la spettacolarità. Se vai a vedere indietro c’è sempre stata la più grande mescolanza. Credo occorra fare distinzione tra spettacolarità indotta e ricercata. La prima è il risultato di un interesse pubblico e genuino per un’impresa, la seconda è davvero un’operazione di marketing che prima o poi necessariamente mette la montagna in secondo piano. E quando la montagna va sullo sfondo si ha un doppio risultato negativo, perché ne risulta danneggiato l’alpinismo e perché cresce il rischio di inflazione nell’Io dell’alpinista, con le gravi conseguenze che questo comporta.

«Sai che sono state aperte due vie sul Naso di Zmutt? Cosa ne pensi?».
Lo trovo nell’ordine delle cose. Quando ero io sul Naso di Zmutt, ricordo che pensavo: un giorno qualcuno salirà lì accanto, dove adesso a me sembra impossibile.

«E della Traversata delle Alpi di Berhault?».
Ciclopico, bravissimo. Spettacolare? Forse. Ma potrebbe non esserlo?

«Sempre a proposito di Bole: è venuto alla ribalta sull’onda del dry-tooling
più spettacolare, poi però è stato capace di una salita in stile
tradizionale in Pakistan, su cui tutti si sono soffermati piuttosto sul
grado della nuova via che sullo stile con cui è stata aperta (on sight su
protezioni tradizionali). Come valuti questo tipo di tendenza (libera in
Himalaya)?
».
Forse il dry-tooling avrà portato alla ribalta Bole presso il grosso pubblico, ma lui era già Bole ben prima. Il dry-tooling è una parola di cui ci si riempie la bocca né più né meno di quanto lo si faceva con la parola free climbing, come se si fosse scoperto chissà che di nuovo, quando tutti dovrebbero sapere che il dry-tooling l’avevano già inventato i disegnatori di barzellette della Settimana Enigmistica, con l’omino che si tirava su per le rocce con la piccozza. In seguito Bole ha portato avanti il discorso in maniera meno spettacolare ma più concreta, appunto in Perù, in Pakistan, ecc. La libera in Himalaya è la necessaria conseguenza dello stile alpino prima, poi del capsula-style.

«Tu hai fatto grandi solitarie. Secondo te è la stessa motivazione che ha
spinto a suo tempo Bonatti sul Pilastro al Dru, che spinge oggi un Huber
slegato sulla roccia mediocre della Brander-Hasse, pur avendola provata
diverse volte ed essendosi allenato per quell’impresa?
».
Sì, credo proprio di sì. Tra qualche tempo arriverà qualcuno che farà la stessa cosa a vista. Huber gli ha aperto la strada. Del resto la parola on sight è necessaria allorché qualcuno ti ha preceduto. Ai tempi di Preuss non era necessaria, anche se già lui faceva una ben chiara distinzione tra libera e non, tra essere legati e non.

«Oggi c’è chi si lancia su tiri di A4 cercando di liberarli, in cerca di un
posto nell’Olimpo dei media. Ma poi ci sono anche arrampicatori sportivi
dediti alle gare che improvvisamente provano questo tipo di arrampicata
tradizionale estrema (con le protezioni, seppur precarie, già piazzate) ed
hanno risultati eccellenti. Tutto questo non rischia di alimentare un po’ di
confusione?
».
A chi ti riferisci? Credo sempre a Bole, per esempio sulla Couzy della Cima Ovest di Lavaredo. Ma perché dici “in cerca di un posto nell’Olimpo dei media”? Così rischi di confondere le sue reali motivazioni con qualche cosa che comunque aleggia, la fame di gloria. Ma questa voglia di notorietà ha sempre colpito chiunque e bisogna imparare a difendersi. Quando tu, giovane giovane, ti aggiravi in valle dell’Orco e cercavi di liberare dei tiri di artificiale, per cosa lo facevi? Di sicuro per una motivazione interiore, anche se due righe sulla stampa non ti avrebbero fatto schifo. E allora la valle dell’Orco era davvero all’attenzione di tutti. Quanto agli arrampicatori sportivi che decidono di tralasciare per un momento gli appigli resinati delle competizioni per scalare in parete, ben vengano. Non ho mai fatto mistero di ritenere che il dedicarsi alle gare sia solo uno spreco di energia e di intelligenza. La confusione è grande, d’accordo, ma non bisogna averne paura. È dalla confusione che vengono partorite le grandi cose, come un bagliore di luce nell’oscurità.

«Secondo te, questo ritorno al bouldering, oltre a portare i giovani ad un
maggiore rispetto verso la roccia (appigli scavati) è in grado di ridare un
senso di libertà all’arrampicata?
».
Non lo so, ma non penso che il dedicarsi allo studio dei microrganismi sia più rispettoso della natura che l’interessarsi di macrorganismi o di astronomia. Ci può essere anche bouldering irrispettoso. E John Gill era certamente uno spirito libero.

«Negli anni ’80 tu hai fatto una famosa campagna esplorativa nel Mezzogiorno
italiano. Come vedi gli sviluppi della tua opera pioneristica e pensi ci
siano ancora possibilità interessanti in alcune zone che non hanno avuto
“sviluppo”?
».
Se parliamo di Mezzogiorno dobbiamo prima di tutto vederlo in un’ottica più generale che prenda in considerazione tutte le innumerevoli altre attività che certi territori possono permettere. Quanto alle possibilità di ulteriori esplorazioni, sì, credo siano possibili. E non siamo certo soltanto Marco Marrosu ed io a farlo. Tu stesso hai dato un grande contributo, al di là delle grandi vie che hai aperto non propriamente esplorative. Il problema è che con lo sviluppo, una zona come la Poltrona o tante altre sono diventate delle palestre. Il significato negativo della parola palestra è stato mascherato senza successo dalla parola falesia, ma rimane il dato di fatto che la magia non c’è più. C’è più magia in una palestra dimenticata che in un centro d’arrampicata ben attivo. Significa forse che la quantità di persone toglie magia? Credo di sì, ma limitando ai casi in cui è la gente stessa a non volere magia. La maggior parte vuole risultati, l’etica si confonde con i mezzucci e con gli additivi da ciclista. Perché il Mezzogiorno di Pietra non diventi di “pietra unta”, ma rimanga di “pietra magica”, occorre assegnare i posti limitati, dandoli in pasto ai chiodatori di professione e dilettanti, ingabbiandone il più possibile le ansietà di sviluppo.

«Ho sentito dire che fai parte di un progetto chiamato “Controscuola”. Che
cos’è, una sorta di carboneria?
».
Controscuola è un gruppo di lavoro che vorrebbe far riflettere sull’opportunità di riscoprire la nostra relazione con l’ambiente circostante piuttosto che continuare a privilegiare le sicurezze esterne e i mezzi di conoscenza della montagna che oggi ci sono offerti da ogni parte. Sicuro è ciò in cui mi muovo bene, indipendentemente dalla corda, dai chiodi, dalla bussola, dalle relazioni tecniche. E perché io mi muova bene è necessario che impari, per esempio, che pensare e sentire non sono la stessa cosa. Ma è un discorso lungo, tutto da fare e in cui confrontare opinioni e sentire diversi. Nel dire queste cose non ci vogliamo certo nascondere, perciò non ci sentiamo carbonari! Presto qualche nostro punto di vista sarà pubblicato.

«Stai lavorando al “Codice delle Montagne”. Mi puoi dire in poche parole di
cosa si tratta? Perché secondo te sui media se ne parla così poco?
».
Non sto lavorando ad alcun codice. Mi sono limitato a diffondere in rete un documento che è stato discusso in sede UIAA, precisamente a Innsbruck, il 7 e 8 settembre 2002. Volevo provocare una discussione, ma in realtà non ho nulla a che fare con quel documento. Se ne parla così poco perché è l’ultimo nato di una serie di codici, carte, tavole, ecc. che non hanno certo avuto l’importanza dei Dieci Comandamenti. E poi gli alpinisti in genere (figuriamoci se italiani) non amano le regole imposte dall’alto, peggio se a proporle sono stati altri alpinisti.

«Cosa ha voluto dire per te investirti nella collana Grandi Spazi delle Alpi? Mi puoi
dire qual’è l’idea di base che ti ha spinto a non parlare più di “alpinismo”
ma di “montagna”?
».
Credo che tu abbia già risposto nella domanda stessa! Bravo, parlare di montagna comprende il parlare di alpinismo. Il mio scopo è quello di operare al massimo delle mie possibilità per un miglioramento della nostra passione alpinistica. Con le parole e con i fatti. C’è tanto bisogno di spazi, di magia, di mistero. Parlare di montagna mi permette di dire come i miei occhi vedono questo mondo meraviglioso, che così spesso ti fa esclamare “aah” dal più profondo del cuore; parlare di alpinismo va sempre bene, ma spesso la gente è portata a credere che certe cose che davvero non mi interessano siano proprio quelle che la mia passata gioventù non mi permette più. E che dialogo è possibile allora? Non sono più il giovane spaccamontagne e non sono ancora il vecchio saggio, e forse non lo sarò mai.

«Secondo te gli alpinisti attuali (intendo quelli italiani) sono ancora in
grado di raccontare le loro imprese reggendo il confronto con la narrativa
classica?
».
No, perché pochi sono stati quelli che lo hanno fatto bene in passato e pochi continuano ad esserlo oggi. E l’immediatezza odierna del web non aiuta. In più, il professor Giorgio Bertone, ordinario di letteratura a Genova, dice che la lingua italiana è assai più retorica di altre, vedi per esempio l’inglese. Quindi è più facile per gli italiani, volontariamente o no, mascherare le vere emozioni sovrapponendo orpelli e rinunciare ad un racconto asciutto e oggettivo.

«C’è, secondo il tuo modo di vedere, uno scollamento tra il pubblico e gli
alpinisti di punta? E se sì, ti sembra che questo sia maggiore rispetto ai
tempi in cui hai scritto
Un alpinismo di ricerca?».
Lo scollamento c’è sempre stato, neanche il pubblico minimamente informato ha mai avuto l’idea reale di cosa fosse l’alpinismo di punta. Ma prima c’era l’ammirazione incondizionata per gli eroi, oggi c’è l’indifferenza generata da saturazione. Basta saper aspettare e vedrai che tornerà l’ammirazione, assieme ai suoi pregi e difetti.
Quando ho scritto Un Alpinismo di Ricerca eravamo già alla fine di un’epoca, iniziava il Nuovo Mattino.

«A proposito di questo tuo celebre titolo, ho notato che è diventata una
definizione abusata: molti alpinisti si fregiano infatti di fare “un
alpinismo di ricerca”. Secondo te è ancora possibile (ed ha ancora un senso)
un alpinismo di tipo esplorativo?
».
Alpinismo di ricerca non significava soltanto “esplorazione”, come di certo non ti è sfuggito. Significava anche ricerca dentro se stessi. Ma per rispondere alla tua domanda, l’alpinismo esplorativo è possibile nella misura in cui, dopo averle studiate e ristudiate, ci si dimentica delle esplorazioni altrui. Non voglio dire perciò che occorra fare un falò delle biblioteche o abbandonarsi ad un’iconoclastica furia distruttiva dei nomi e dei tracciati delle vecchie vie. Voglio dire esattamente il contrario: prima studiare, poi dimenticare agendo. Oggi invece si agisce dimenticando di studiare.

«Molti ragazzi di vent’anni hanno indicato come loro libro preferito Rock
Story. Come si spiega ciò nell’epoca delle palestre artificiali?».
Questo mi giunge nuovo. Ne sei sicuro? In effetti, in epoca di palestre artificiali, mi sembra impossibile. Se fosse così, sarebbe un aspetto di schizofrenia latente.

«Molti di questi ragazzi sognano ancora di andare al Capitan a fare la
Salathè o il Nose. Però nessuno sogna più di ripetere il Pilone Centrale.
Come spieghi che solo il mito americano sia sopravvissuto?
».
La formazione attuale in falesia o indoor lascia per fortuna qualche spazio d’immaginazione. Il Nose forse è più vicino alla spettacolarità cui siamo abituati. Ai tempi di Bonatti la spettacolarità era il Pilone Centrale, dove si moriva se non si era capaci di salire in fretta e bene. Può darsi che le grandi salite di tipo occidentale siano in “ricarica”, come le pile. Del resto anche le grandi salite dolomitiche soffrono dello stesso “male”. Anche la Chiesa patisce l’attuale crisi di vocazioni, ma non per questo temiamo che termini la sua parabola terrena…

«Infine una domanda personale: che fine ha fatto il Gogna alpinista? Ho
sentito che hai ricominciato ad esplorare con discrezione i graniti della
Gallura, in Sardegna. Che tipo di emozioni ti dà ancora il contatto con la
roccia vergine?
».
Ho avuto più emozioni a vedere, poi a capire se era già stata salita e come, e infine a ripetere Black Hole (Padru) che non arrampicare su qualcosa che sicuramente nessuno aveva mai toccato. Perché a me oggi interessano di più il mistero e la magia, di qualunque natura, umana, storica e geografica, che non alzare i veli su una via presumibilmente difficile. Quanto al Gogna alpinista, non sta a me giudicare il mio attuale operato, scarso o meno. Le recenti salite fatte in Sardegna mi hanno dato molto. Ho avuto più soddisfazione a fare queste ultime che tante altre, magari nella stessa grande isola. Di certo non voglio essere il tipo di alpinista che andrà a ripetere il Naso di Zmutt a 80 anni, solo per provare a se stesso d’essere ancora in gamba (e un po’ agli altri). A 80 anni mi piacerebbe trovare sempre emozioni belle, scoprendo di giorno in giorno che il mio sentiero non è ancora finito, che dietro l’angolo c’è sempre il mio amore, la montagna, pronta a darmi un bacio anche se mi vede con il bastone. E a 60 come a 80 continuerò quella via che ho incominciato tanti anni fa, l’unica veramente a vista che ci sia dato di compiere.

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Intervista ad Alessandro Gogna ultima modifica: 2024-11-19T05:44:00+01:00 da GognaBlog

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1 commento su “Intervista ad Alessandro Gogna”

  1. Mi è piaciuto molto quello che dici! Il mondo va avanti e poco per volta ci si ritrova in un mondo nuovo: è bello cercare di capirlo e godere delle novità. 

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