Gian Piero Motti pubblica nel 1977 la sua Storia dell’alpinismo, in due volumi. Nell’introduzione illustra il nodo cruciale e irrisolto che contraddistingue il momento storico in cui vive, tratteggiando i diversi tentativi di dare una risposta e prefigurando in maniera profetica quella che sarà l’evoluzione successiva del movimento.
Se dovessi tentare di condensare in un singolo intervento tutte le problematiche e le suggestioni che l’andar per rocce offre all’essere umano, sceglierei questo brano.
Eccolo qui di seguito (Andrea Corradi si è limitato a inserire foto e video).
Un’introduzione alla Storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti (RE 018)
a cura di Andrea Corradi
(pubblicato su Climbing pills il 21 novembre 2011)
Lettura: spessore-weight(4), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(4)
Le emozioni della scalata e la delusione della vetta
Anche l’alpinista insegue un’illusione. Lascia la pianura dove sovente non si sente inserito nella vita di tutti e di tutti i giorni. Lo attrae l’immagine di una vetta che sembra portarlo molto in alto, una meta che alla luce infuocata del tramonto, quando risplende incendiata dal sole della sera, sembra garantirgli finalmente non solo gloria e vittoria, ma anche quella libertà sconfinata, quella pace e quella beatitudine che ansiosamente e vanamente va cercando in pianura. Egli sa che la via di salita forse sarà dura e difficile, che dovrà soffrire, ma per ora rigetta da sé queste immagini di dolore ed invece pensa a ciò che la salita e la vetta sapranno offrirgli durante la lotta. E già emotivamente vive ancor prima dell’azione le sensazioni forti che poi vivrà durante la scalata. Quelle stesse emozioni uniche e irripetibili ed esclusivamente “sue” che poi, una volta tornato, non riuscirà a comunicare, malgrado il suo sforzo, a nessuno.
A mano a mano che la salita procede l’alpinista si ritrova sempre più solo e molto lontano dal mondo che egli ha lasciato in pianura. Egli comincia ad assaporare lo strano piacere della lotta individuale addentrandosi nei labirinti un po’ magici e arcani della separazione della propria personalità. Raggiungendo una condizione psichica assai affine alla schizofrenia, egli a poco a poco scopre un altro in se stesso, ben vivo e presente, a volte un amico, ma più spesso un vero e proprio nemico che si fa sentire con la voce della paura. È una voce costante ed insistente che sembra dirgli nei momenti più difficili: «Cadi! Cadi!» Certo l’alpinista non percepisce il messaggio inconscio così formulato, ma gli giunge invece sotto forma di ansia, di angoscia e di paura di cadere che insorge nei momenti di più forte tensione durante la salita, ed è una paura che l’alpinista o cerca di reprimere o di dominare, o meglio, di mediare e tenere sotto controllo durante tutta la fase di salita necessaria per raggiungere la vetta. Sovente la fase più nevrotica della lotta lo porta a invertire completamente i valori del piano che ha lasciato: il dolore diviene piacere, la sofferenza è accettata, anzi il più delle volte cercata e goduta con gusto raffinato. Le emozioni e le sensazioni provate vengono accomunate in un’unica parola giustificante: l’avventura. Il più delle volte l’alpinista non si sente di osare da solo, in quanto i rischi sono enormi; ogni minimo errore potrebbe essere fatale ed egli ci tiene troppo a raggiungere la vetta. Allora per precauzione ecco che escogita il meccanismo della cordata e si lega a un compagno. Per far sì che il legame non sembri troppo arido ed utilitaristico, egli cerca di “vestire” questa unione in modo umano e sentimentale, parlando di amicizia e di legame fraterno ed unito nella vita e nella morte. In realtà molti di questi legami “di corda” sono solo ed esclusivamente utili ai fini della riuscita dell’impresa, in quanto ciascuno conduce la salita chiuso nel proprio microcosmo individuale, senza alcuna comunicazione che non sia la sicurezza garantita dalla corda. Non per nulla ci si lega alla base della parete e ci si slega appena giunti in vetta. E non per nulla il più delle volte i legami intrecciati in parete non hanno alcuna ragione di esistere in pianura.
Comunque, da soli o in cordata, la scalata procede verso la vetta che sovente viene raggiunta come si era sognato nel sole del tramonto, dominando spazi sconfinati sottostanti, con la breve illusione di essere al di sopra di tutte le cose mortali. Ma non sempre e così, anzi il più delle volte accade il contrario:
«… Ecco la cima. Per questo momento ho lottato e vissuto, ne valeva la pena?
Mai come ora mi rendo conto che nessuna montagna vale una vita. Mi prende schifo per questa cima. Che schifo questo vento, le foto scattate, le firme depositate.
No, non ne vale la pena… Andiamo via… In mille sogni ho visto le nostre bandiere sventolare al sole sulla cima. Ed ora rimango indifferente. Abbrutito dalla fatica, con i nervi a pezzi, mi preparo a consumare il sacrificio alla più stupida manifestazione umana: la vanità… [Cesare Maestri, Arrampicare è il mio mestiere, Garzanti 1961]».
Così si esprime Cesare Maestri parlando delle sue emozioni in vetta al Cerro Torre, al termine della prima difficilissima ascensione con Toni Egger.
Ed anche Walter Bonatti, forse il più grande esponente dell’alpinismo di tutti i tempi, non si rivela più entusiasta, se si pensa che dopo sette giorni passati da solo sul pilastro del Petit Dru (Monte Bianco), al termine di una scalata solitaria quasi incredibile per la sua audacia, giunto in vetta e coronando la sua fatica titanica, disse:
«… Alle 16.37 esatte sono in vetta al Dru. Uno sguardo veloce tutt’intorno e quasi di corsa, con lo zaino sulle spalle, incomincio a discendere per la via normale [Walter Bonatti, Le mie montagne, Zanichelli, 1961]».
Per una specie di gioco un po’ maligno, sembra che vi sia una proporzione inversa tra difficoltà della salita e soddisfazione che si prova in vetta. Al termine di una facile escursione che non ha richiesto un ingente tributo fisico e psichico, il più delle volte la vetta appaga in pieno: si può godere il panorama a lungo, osservare attentamente le valli sottostanti, dormicchiare al sole, restarsene un po’ di tempo in cima senza l’assillo di dover subito scendere per evitare il maltempo od un bivacco penoso per le condizioni fisiche e psichiche ormai esaurite. Comunque, in ogni caso, ci si troverà costretti a scendere a valle. Invece se l’impegno per raggiungere la vetta è stato importante, certamente quest’ultima sarà piuttosto deludente, rivelandosi come scontata, una sorta di noioso passaggio obbligato per poi subito ridiscendere in tutta fretta verso i ristori e gli agi del fondo valle, che in quella situazione appariranno molto gradevoli.
Possiamo quindi formulare una curiosa equazione di questa genere: scalata lunga e difficile = sofferenza, ma anche grande soddisfazione durante l’azione. Però poca o nessuna soddisfazione in vetta, anzi immediato desiderio di fuga e di ritorno a valle.
Invece salita facile e breve = poca sofferenza durante l’ascensione e quindi (per quanto questa considerazione di stampo masochista a molti risulti inaccettabile ed amara) anche scarsa soddisfazione e poca avventura. Però la vetta sarà assai soddisfacente ed appagatrice, generando desiderio di restarvi a lungo, contemplazione e rammarico per il pensiero del ritorno a valle.
Come sempre, appare più che mai chiara la drammaticità della condizione umana, dove le contraddizioni non riescono a trovare una sintesi soddisfacente: pure in questo caso, anche se il paragone e un po’ banale, non è possibile salvare contemporaneamente la capra e i cavoli del famoso proverbio.
Ma in fin dei conti, perché mai la vetta delude? Perché la si era vissuta come meta finale e liberatoria, quasi assoluta nella sua purezza. Per raggiungerla si è dato tutto, si è lottato allo spasimo, sacrificandosi e sottoponendosi a rinunzie di ogni genere. Invece una volta giunti in vetta si comprende purtroppo che era solo un sogno, un fantastico sogno che si è cercato di materializzare nell’immagine della scalata: in vetta però non vi è nulla, vi sono pochi metri quadrati di roccia o di neve, sovente ci si sta anche scomodi, fa freddo, tira vento e forse non si vede alcun panorama. Il più delle volte non si ha certo il tempo per perdersi in contemplazioni, ma inesorabilmente bisogna pensare a scendere e a ritornare a valle, anche perché la discesa non sempre sarà facile. In ogni caso la discesa il più delle volte sarà uno squallido rito da consumare, uno stanco e mesto ritorno verso usi e abitudini di un mondo mediocre ed insoddisfacente dal quale si era creduto di fuggire con la scalata. E invece bisognerà riadattarsi a questo mondo, reinserirsi a fatica per poi ancora sognare e sperare. Ancora si tornerà sulla “parete” e ancora si tornerà a portare una propria croce, nell’illusione di poter finalmente raggiungere una vetta dove si sarà paghi e felici.
«… Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci stendiamo al sole, fa caldo ed abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria.
La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno divenuto realtà… Sceso a valle cercherò subito un’altra meta. Se non esiste la creerò… Ed ogni meta raggiunta scompare per lasciare il posto ad un’altra più ardua e più lontana [Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, Società Editrice Internazionale, 1961]».
Queste le riflessioni di Giusto Gervasutti, forse il più “eroico” e romantico alpinista italiano: sulla vetta delle Grande Jorasses (Monte Bianco) dopo aver ottenuto la sua più folgorante vittoria sulla parete Est della montagna. Si comprende allora che anche una volta tornati in pianura fallirà il tentativo di comunicare le proprie sensazioni ad altri, in quanto, con amarezza, ci si accorgerà che esse sono esclusivamente personali ed incomunicabili. Esse appartengono ad un vissuto troppo eccezionale e troppo lontano dal vissuto quotidiano di chi alpinista non è. Ed allora una volta di più ci si troverà costretti, come diceva Gervasutti in un suo scritto, a lasciare le piccole brune a raccogliere da sole le more ed i lamponi nei boschi, perché la nave volge la prua al vento delle bufere…
I giovani alpinisti di fronte al problema dell’insoddisfazione e della sofferenza
Oggi [l’oggi di Motti è il 1977, NdR] molti giovani alpinisti hanno capito di trovarsi bloccati in una “impasse” non troppo simpatica e cercano, anche un po’ affannosamente, dei tentativi di soluzione. Si delineano quindi alcune correnti di pensiero e d’azione ben definite, sulle quali ritorneremo in seguito con un’analisi molto più profonda. Per ora è sufficiente sintetizzare queste correnti in modo da inquadrare già sin dal discorso introduttivo quello che sarà il “taglio” filosofico dato alla parte storico-evolutiva, fornendo così al lettore una buona chiave interpretativa.
1.
Vi è dunque una corrente contestatrice ed anti-individualista, che vorrebbe proporre un modello rinnovato e differente di alpinismo. Un alpinismo privo di sofferenze volute, privo di sacrifici accettati sullo stampo cristiano, vissuto lontano dai pericoli oggettivi, all’insegna quindi della sicurezza cercata sotto tutti gli aspetti tecnici e soprattutto assai meno conservatore “serio” e drammatico dell’alpinismo tradizionale. Chiaramente non è che il ribaltamento dialettico dell’alpinismo cosiddetto “eroico”, simpaticamente sintetizzato da alcuni giovani arrampicatori emiliani (tra i promotori di questa corrente) dal motto «La pace con l’Alpe», antitesi scherzosa del famigerato «Lotta con l’Alpe» di Guido Rey.
In questa corrente appare chiaro il fine di smitizzare l’alpinismo e di umanizzarlo rendendolo un fatto sociale e non più individuale (sempre se tutti siamo d’accordo che l’uomo sia individualista o socievole per necessità e costrizione), portandolo alle masse come sana attività creativa e sportiva non alienante: soprattutto non asservita alle strumentalizzazioni del sistema (sul che si possono nutrire dubbi molto fondati… ). Qualche esempio del caso si è cercato di realizzare nei Paesi dell’Est europeo, ma purtroppo si è completamente soppressa la libera scelta dell’individuo, creando classifiche di valore cui si giunge attraverso le discusse “gare d’arrampicata” compiute in sicurezza totale ed estremamente competitive.
Forse l’intento è buono ed onesto, per lo meno compiuto in buona fede, ma un’attività del genere non può essere chiamata alpinismo: la si potrà chiamare forse sport dell’arrampicata o qualcosa di simile. Ed anche sulle soddisfazioni che un alpinista può trarre da un’attività del genere, non si può essere del tutto convinti. Chi è stato alpinista ed ha capito che nel suo agire esiste una forte ritmica ossessiva che genera in lui insoddisfazione ed alienazione può anche dire basta e rinunciare ad una attività ripetitiva ed un po’ masochista. Tuttavia la rinuncia non sarà per nulla facile e piacevole (vedi l’articolo “I Falliti” di Gian Piero Motti su Rivista Mensile del CAI anno 1972). Certo, in montagna si soffre, ma si è anche ripagati da sensazioni e da situazioni ambientali che non hanno pari altrove. È solo e sempre un fattore di scelta personale, una volta che si sia attuata una lucida presa di coscienza dei pro e dei contro esistenti nell’alpinismo.
2.
Ma se poi uno accetta il gioco con tutte le sue regole, resta un suo fatto individuale. Reinhold Messner, forse il migliore alpinista vivente, segue appunto la corrente tradizionalista, portandola alle sue più estreme conseguenze individualiste e trascendentali. Sovente viene criticato perché il suo alpinismo non segue un filone umanizzante e collettivista e nella critica vengono anche coinvolte le sue imprese. È un errore: si può criticare la scelta filosofica di Messner, ma bisogna onestamente ammettere che le imprese da lui realizzate sono straordinarie. Ancora i critici dicono: ma che prezzo paga Messner per realizzare queste imprese? Paga evidentemente il prezzo che si sente di pagare e soprattutto paga con denaro suo e non preso a prestito da altri. Altri ancora dicono: è vero, ma il suo esempio è negativo, in quanto spinge i giovani verso modelli filosofici superati dalla storia attuale (le teorie del superuomo di Nietzsche), verso un idealismo antiquato e sconfitto dalla critica materialista. Può anche essere vero, ma in ogni caso se Si parla di libertà, bisogna accettare un pluralismo che ammetta la libera espressione individuale, altrimenti sorge il sospetto più che legittimo che la critica muova più che altro da invidie feroci e gelosie corrosive, con forte desiderio di decapitare e ridurre al livello “normale” chi è riuscito a trascendere questo livello. Comunque se vi sarà rinunzia, come si è già detto, sarà certamente sofferente, con strascichi di melanconia e nostalgie (a questo proposito si veda il libro di Walter Bonatti I giorni grandi, Mondadori, 1971). Si può anche fare «La pace con l’Alpe» ma forse, anche se il paragone non è molto efficace, è come passare nello stesso giorno da una rappresentazione del teatro shakespeariano ad un film musicale hollywoodiano. Il proverbio dice anche che «chi si accontenta gode», cosa di cui si può essere più o meno convinti, soprattutto perché si è occidentali, quindi educati e cresciuti in una cultura occidentale, che ripone soddisfazione e felicità nella conquista di una meta. Se si fosse nati in Ladakh (Kashmir) e cresciuti nella cultura buddista, forse il proverbio avrebbe anche ragione. Ma certamente non si sentirebbe il bisogno di scalare le montagne e di misurarsi con noi stessi sulle pareti: l’alpinismo è un classico derivato della società occidentale e della sua cultura, impostata gerarchicamente nel rapporto uomo-Natura.
Accanto a questa corrente “pacifista”, esiste il filone tradizionalista e conservatore, che propone un alpinismo forse non più romantico ed eroico come un tempo, ma comunque estremamente serio e severo nelle sue regole, anche se l’accettazione del gioco risulta meno istintiva ed emotiva, più razionale ed analitica. L’alpinista che si inserisce in questa corrente, sa molto bene che per la conquista della meta vi è un tributo di angoscia, di fatica e di sofferenza da pagare, ma evidentemente accetta il gioco in quanto si sente ampiamente ripagato da ciò che la scalata gli può offrire. I rappresentanti di quest’alpinismo proseguono, come se fossero investiti di una missione, nel portare avanti un discorso culturale tipicamente occidentale, inserito in una mentalità evolutiva tesa a spostare sempre più avanti il limite dell’impossibile (quindi a estreme conseguenze, anche a vincere la morte) o con mezzi molto severi e leali (ideologia di cui Messner si fa paladino), oppure con mezzi assai compromessi con la tecnologia ed ambiguamente in simbiosi con interessi finanziari e commerciali.
3.
Vi è poi una terza corrente di pensiero che cerca di realizzare una difficile sintesi tra le due correnti ma che opera invece una proiezione dal concreto all’astratto, trasferendo l’ideologia della vetta e della meta nella difficoltà pura. Costoro hanno rigettato il cosiddetto alpinismo eroico e non accettano i sacri canoni di unità di tempo e d’azione che invece sono regola nelle imprese dell’alpinismo tradizionale. Per essi arrampicare è (o per lo meno dovrebbe essere) un gioco, dove non esiste una meta da raggiungere (generatrice di insoddisfazioni a catena), ma semplicemente la gioia si trae dall’arrampicare stesso, senza pressioni finalistiche interne od esterne, assaporando a lungo la stessa permanenza e “vita” in parete e quasi dimenticando la fretta di riuscire ed il tempo.
È certo una proposta interessante, che però richiede una grossa rinunzia: quella dell’alta montagna, dove esistono pericoli oggettivi e dove l’ambiente è particolarmente ostile e severo (Alpi, Himalaya, Ande). È un gioco che può essere magnificamente condotto sulle solari muraglie granitiche della Yosemite Valley (California) o sulle fantastiche scogliere delle Calanques (Provenza, Francia), dove anche un cambiamento del tempo non presenta alcun rischio data la bassa quota e le possibilità di ritirata.
Particolare curioso: le scalate di questa genere sfociano quasi tutte su altopiani boscosi e prativi, assai lontani quindi dalla tensione drammatica della vetta simbolica. Su questi altopiani tutto finisce come per incanto: cessa l’ansia della salita e non esiste preoccupazione per la discesa in quanto inesistente, è la fine delle linee verticali. Come se si giungesse al termine di una salita mitica che porta ad un Eden ritrovato; qui finalmente ci si slega, si godono il sole, l’acqua fresca, il verde, i fiori e gli animali. In perfetta armonia con la Natura orizzontale ritrovata, senza ansia per il dono, ci si assopisce con la corda sotto il capo e poi scalzi, camminando sull’erba o nel sottobosco, ci si incammina senza meta e senza fretta.
La proposta piace parecchio ai giovani, soprattutto perché la “vita in parete” assume un po’ il significato di disciplina di conoscenza di se stessi, riportando alla ribalta filosofie orientali introspettive oggi assai di moda (yoga, buddismo-Zen). Il distacco infatti è molto più lento e graduale, vissuto più dolcemente. Il dialogo tra sé e sé, seppur raggiungendo dei livelli schizofrenici di separazione della personalità, non è combattuto e represso, anzi è cercato ed usato dialetticamente come strumento di conoscenza di sé stessi. Vi è però un grande pericolo che si cela nella pratica di questo tipo d’alpinismo: si può correre il rischio di mantenere la stessa ideologia dell’alpinismo tradizionale, trasferendo il simbolo della vetta nella difficoltà del singolo passaggio. La meta da raggiungere e superare non è più la vetta, ma la lunghezza di corda o il passaggio difficile e sempre più difficile, instaurando il concetto di limite delle possibilità umane. La scalata allora diviene come una serie di tante piccole vette da raggiungere, rappresentate da una sequenza di passaggi a se stanti, dalla base alla cima. Così si genera una competitività con se stessi e un’angoscia di caduta ancora peggiore, sfociando quasi sempre nel tecnicismo più esasperato e nell’arido atletismo. E poi, anche in questo caso, la rinunzia alla “grande montagna” costa sicuramente sacrificio, in quanto questi ambienti di alta montagna creano un eccezionale palcoscenico naturale, in cui l’azione acquista un fascino ed un sapore ineguagliabili.
Non vi è dunque possibilità di sintesi? Per ora pare di no. Anzi senza tema di smentita si può asserire che un alpinismo ideale, completo e felice, soddisfacente e privo di rischi e sofferenza, non possa esistere. D’altronde l’alpinismo non è che lo specchio della vita: per ora la morte, per quanto combattuta, è limite invalicabile. Morte equivale a dolore, combattuto da sempre, almeno nella cultura occidentale, dagli uomini, sviluppando civiltà e scienza.
Ma allora che fare? Cercare forse di riconoscersi in uno di questi modelli o non riconoscersi affatto in essi e negare il valore dell’analisi? Un grande drammaturgo disse: «A ciascuno il suo». In questa analisi del fenomeno alpinistico si cercherà di scoprirne cause e moventi seguendone poi l’evoluzione e la cronaca dei fatti fino ai giorni nostri, tenendo sempre presente la chiave interpretativa che si è esposta, sottoposta alla critica e quindi più o meno accettabile.
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Sapete che la fotografia aerea che compare in apertura sopra il titolo ritrae la mia amata Pietra di Bismantova?
Lí mossi i primi passi. Lí mi legai in cordata per la prima volta. Lí vissi le prime ansie e i primi sogni d’alpinismo.
… … …
Gianni Vattimo, il filosofo del “pensiero debole”, in gioventú fu alpinista. Nel corso di un’intervista raccontò che ebbe la ventura, trasognato, di passare una giornata arrampicando con Walter Bonatti. Narrò anche, se ben ricordo, di una sua memorabile ascensione al Monte Bianco dal Col du Midi, per lo spallone del Tacul e il Col du Mont Maudit. Menzionò pure altri episodi di montagna, che ora non rammento.
Preso dalla nostalgia, confessò infine: “Potessi ritornare indietro a quei tempi, poche storie, darei via tutto il pensiero debole”.
Grazie Marcello, per le tue interessanti segnalazioni. Potremmo aggiungere anche il nostro grande Francesco nazionale “Ho visto gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente…”ma smettiamola qui, altrimenti rischia di scapparci la lacrimuccia , cosa che succede agli anziani quando cala il testosterone. È bello che persone di altre generazioni tornino a rileggere con interesse Motti e a cercare ispirazione nei personaggi di quell’epoca. Vorrei solo ricordare a questi, senza per carità fare alcun confronto (onore a tutti i caduti) che appartiene alla storia di quegli anni, anche se più anziano, Guido Rossa. Non era un intellettuale ma un operaio, un sindacalista e un bravo alpinista che ha fatto cose importanti. È stato ucciso come un cane sulla sua utilitaria da quelli che qualcuno chiamava i “compagni che sbagliano”. Non dimenticatevi di lui. Non ha scritto nulla ma esistono bei libri sulla sua figura, a partire da quello della figlia. Il suo esempio tragico è stato una guida per molti che magari in quegli anni si erano persi per strada, non solo per andare in montagna, ma per condurre la propria vita.
Scusate, la canzone a cui mi riferivo nel post precedente è questa: https://www.google.com/search?q=can%27t+find+my+way+home&oq=can%27t+find+&aqs=chrome.0.69i59j69i57j35i39j0l3.12362j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8
interpretata da un grandissimo Steve Winwood.
Una canzone che, secondo me, può aiutare o, se non altro, fare da bella colonna sonora.
Chi non l’avesse ancora visto, si guardi il magnifico film di Ramiro Calvo (premiato anche a Trento nel 2007): RITMO LATINO EN LA CARA OESTE che narra di una cordata che sale la via dei Ragni sulla Ovest del Cerro Torre. Vi si percepisce un modo sublime di fare alpinismo che nulla ha a che vedere con i nostri (i miei no) schemi alpini assai retorici, ma che è di livello umano e tecnico molto elevato.
Per chi se la cava con lo spagnolo (argentino) qui trovate una versione: https://www.documaniatv.com/deporte/cerro-torre-ritmo-latino-en-la-cara-oeste-video_97ab02b65.html
Cominetti ha ragione sulle differenze tra l’andar per monti di cittadini e residenti in montagna. Forse in passato era più forte. Oggi mi sembra che con il turismo di massa le differenze si siano un po’ attenuate: storpiando il titolo di un vecchio libro sulla resistenza è la città che è salita sul Monte Rosa e non viceversa, influenzando anche i residenti, almeno nelle località più frequentate. Meno siamo è schiacciati dal bisogno di sopravvivere e di soddisfare le necessità elementari, più noi umani sentiamo il bisogno di dare un significato a ciò che vediamo e facciamo, elaborando delle “narrazioni” più o meno complesse, come si direbbe oggi, è questo è successo anche per l’andar per monti, almeno da Settecento in poi. In questa selva di pensieri ogni tanto qualcuno smarrisce la via. Venirne fuori non è semplice. Spesso non basta il richiamo ai valori di base, passati in secondo piano nell’oscurità del bosco : la “Vita è bella” del nostro Benigni appare un richiamo troppo semplice. La scalata solitaria come terapia, come fece Bonatti sul Cervino, cosa dichiarata da lui stesso, non è cosa per tutti. Bisogna trovare una guida alpina, un Virgilio, un compagno/compagna, che ci accompagni nel viaggio, possibilmente competente ed equilibrato. Questo forse non è successo per Motti. Non lo sappiamo, ma la sua vicenda resta comunque un monito anche nell’epoca del GPS che ci induce a pensare che ritrovare la strada non sia un gran problema, almeno finché non si scarica la batteria e la powerbank che i più prudenti si portano nello zaino.
Mi ha sempre meravigliato la visione urbanocentrica dell’alpinismo. Certo, i cittadini hanno sempre scritto mentre i montanari hanno sovente solo agito per poi tornare alle loro faccende, ma di tempo ne è passato per dare a questa situazione una simil soluzione che rispecchi i tempi di oggi. Sinceramente non mi sono mai visto nella prima parte dell’articolo che descrive l’alpinismo nel suo perché.
Fondamentalmente la mia unica fuga è stata quella dalla città anche per me, ma l’ho fatta una sola volta, ovvero quando decisi (quasi quarant’anni fa) di vivere in montagna semplicemente perché amavo la tranquillità e l’alpinismo praticato appena fuori dalla porta di casa. Non mi andava di andare avanti e indietro nei fine settimana come facevano i miei amici che si immergevano per 5 giorni la settimana in altre cose. A me non bastava e questo ha fatto si che vivessi la parete, la vetta e la discesa come un fatto naturale e non liberatorio. Il posto dove sto meglio è casa mia e quando arrivo su una cima il primo pensiero è rivolto a quanto tempo passerà prima che possa ritornarvi. Se sono a scalare sul Civetta, sulla Marmolada o sul Sella, casa mia la vedo dalla vetta ed è il primo punto che guardo con soddisfazione. Spesso sono con persone che invece vogliono attardarsi per prolungare quei momenti, perché al loro ritorno non trovano una cosa bella. Non credo alla poesia dell’ambiente e cose così… L’aveva detto anche Messner che l’alpinista che vive in montagna ha decisamente delle marce in più di quello che la frequenta partendo ogni volta dalla pianura. Senza volere sminuire nessuno lo penso anch’io perché l’ho scoperto capendo che nella marcia in più è contenuta una maggiore possibilità di comprensione dell’Alpe tutta e quindi di portare più facilmente la pelle a casa, in pratica. Gli istinti si allenano tanto come i muscoli delle dita e come non ho mai sopportato di fare una scalata senza l’allenamento necessario, non mi cimenterei con una parete se non ne conoscessi la metamorfosi.
Comprendo di più l’analisi di Motti. Un po’ perché quei tempi li ho in parte vissuti e perché guardandomi intorno oggi posso vedere che è andata un po’ diversamente da come lui stesso pronosticava. Non esiste più quella tensione tra alpinismo e arrampicata perché il bivio è superato da decenni. Gli uni non sdegnano né invidiano gli altri, anche se tutto ciò ha richiesto conflitti interiori ed esteriori e sofferenze (la fine di Motti, per esempio) di vario genere. Per me l’unica sofferenza è rappresentata da uno zaino pesante, ma mentre lo porto e fatico penso ai portatori himalayani e allora il mio sacco si alleggerisce e fatico molto meno. Vivere è trovare sempre una soluzione. Solo il cancro non ne ha ancora una certa.
Un’ultima cosa: a parte quando faccio la guida che i compagni non me li posso sempre scegliere, non ho mai scalato con qualcuno solo perché serviva un compagno per farsi sicura. Ho sempre e solo scalato con i miei amici. Con persone care e con cui sto bene. Mi è successo moltissime volte di rinunciare persino a qualche tiro di corda in falesia perché non mi andava di condividere il mio tempo con persone con cui non c’era armonia. Quando ero più giovane andavo a scalare da solo, ma oggi ho risolto la cosa dandomi al bouldering. Questo per dire che nella nostra vita non mancano le occasioni per soffrire e quindi vale la pena praticare un alpinismo che sia gioia e voglia di vivere. Finché si può.
Gp Motti era un filosofo particolarmente arguto in grado di anticipare i tempi e con grandi quantità sintetiche ci ha scritto più di quaranta anni fa come si sarebbe evoluta la società. Personalmente lo adoro er il freddo cinismo e per la lucida razionalità dei suoi scritti
Grazie Paolo.
Mi ero dispiaciuto molto per la sua scelta, perché era una persona che ragionava in un ambiente di gente molto superba, anche se di solito alpinisticamente mediocre (non voglio offendere, vivevano sugli allori di altri e restavano “indietro”: purtroppo ho dovuto già spiegare altrove).
Gallese, sono anni che mi sforzo di capire Gian e ogni tanto lo scrivo per avere indicazioni, o magari conforto, ma leggo sempre solo professioni di fede, o peggio difese a spada tratta: spesso mi sembra per tutti una ricerca di spiegazione del proprio fallimento alpinistico: che pensino di essere dei falliti.
Non capisco questo bisogno, che sia di immortalità?
Pensare, ragionare, sognare, discutere, confrontarsi e poi scalare, ma sopratutto vivere: non capisco…. tanto prima o poi si muore: è l’unica certezza che abbiamo nella nostra vita.
Gallese, magari se ci incontrassimo anche a scalare …..
A distanza di 40 anni e senza conoscere fatti e persone sarebbe bene comunque limitarsi ad esercitare la pietà e il ricordo e concentrarsi sull’opera più che sulla vicenda umana. Possiamo solo ricordare che c’è un disturbo chiamato depressione che alcuni individui di ogni generazione si trovano ad affrontare nelle diverse fasi del ciclo di vita. Purtroppo è in crescita nelle fasce giovanili. Ogni anno in Italia ci sono circa 130 suicidi nella fascia 15/25 anni e sono al 90% maschi. Non si affronta andando in montagna ma con un serio approccio clinico. Aggiungo che all’inizio degli anni 80 non era disponibile la maggior parte dei farmaci che si usano oggi. Forse tutto questo non c’entra con Motti r. e lasciamolo riposare in pace, rileggendo con affetto e interesse le sue opere, ma è bene comunque ricordarlo a scopo preventivo per noi stessi o per altri con i quali può capitare di entrare in relazione.
.
Paolo, la morte potrebbe anche essere vista come l’unica “via d’uscita” ad una situazione irrisolvibile.
Vista come l’unica soluzione, una liberazione…almeno così vista e vissuta da colui che decide di porre fine alla propria vita.
Non so se per Motti è stato così.
Forse no.
Perché dici questo Paolo? Puoi spiegarti meglio?
Ho letto ancora, ma continuo a non capire, e son quasi 50 anni, perchè Motti non abbia scalato di più per spiegarsi le “cose”.
I suoi amici forti erano tutti morti, bastava provare a scalare con gente straniera e avrebbe trovato una strada di vita da seguire, anzichè finirla.
Ogni tanto penso che i suoi “amici” l’abbiano abbandonato, ma non ci credo molto.
Forse non aveva compreso il gioco della vita.
Però lui almeno mi dà sempre da pensare alla negatività del vivere.
Il quadro delineato da Motti del panorama alpinistico nella seconda metà degli anni ‘70 era molto acuto ed esaustivo. Sono passati 40 anni. Un’epoca storica. Mi ha colpito rileggendo le sue parole, come anche le forme linguistiche siano cambiate. Io stesso, che ho vissuto quell’epoca sento che è cambiato anche il nostro modo di esprimerci. La sua lingua sa di antico, anche se in fondo non è passato tanto tempo. Molte cose nel 1977 non c’erano. Non c’era internet, non c’erano gli smartphone, meno donne praticavano gli sport alpini, non c’erano le palestre di arrampicata e le gare ultra in montagna e così via. Sarebbe bello che qualcuno riuscisse a descrivere la situazione attuale con la stessa acutezza. Potrebbe essere uno stimolo per i vari intellettuali / alpinisti che partecipano a questa piccola comunità. Qualcuno potrebbe provarci. Sarebbe molto bello. Penso dovrebbe però essere un “contemporaneo” , come lo era all’epoca Motti ma comunque andrebbe bene lo stesso anche uno “stagionato”. Qualcuno ci provi. Gli saremmo tutti grati.
Perdonate il gioco.
Potete anche non leggere. Era solo per dire che c’è anche chi va in montagna da mentecatto. Come il sottoscritto 🙂
Ero riuscito a portare la maledetta nave fino a terra. Un propulsore in fiamme, i discensori impazziti. Ma roteando come una giostra rotta, uno stretto canale scosceso, mi era apparso all’improvviso, tra pareti granitiche che a quel punto non avrei superato.
In uno stridore metallico mi ritrovai a terra, inclinato, miracolosamente salvo. E scappati fuori, afferrando lo zaino di sopravvivenza, prima che si verificasse un’esplosione.
Corsi a perdifiato in salita, non so per quanto. Poi, nascosto ansimante dietro una roccia fredda e bagnata, cominciai ad afferrare la situazione.
Intorno un dedalo di cime, creste, ghiacci, nevi, rocce scure dalle forme più strane. Pochi radi cespugli di piante sconosciute, un’atmosfera rarefatta ma frizzante.
Un luogo bellissimo ma tonante di silenziosa minaccia. La base di raccordo distava almeno 300 km da dove ero precipitato. Di fronte a me giorni, settimane di ignoto, di morte.
Che diceva il manuale? L’atmosfera in questa parte di emisfero dava vita ai grandi venti orientali, OK, ma in che stagione ero arrivato?
Scommettici! Sei arrivato certamente nel momento sbagliato. Sei fottuto. È aggiornata questa mappa? Il computer della nave è andato. Ho solo una veloce foto aerea scattata in automatico mentre cercavo di non fracassarmi.
E da quello che vedo, per raggiungere la valle di accesso a questo fiume che poi sfiora la base, devo svalicare quel crinale laggiù. Togliermi da qui prima che si scateni una delle tempeste di cui parlava il manuale. Ho viveri, ma non molti e in questo ambiente non credo troverò cibo, sempre sia commestibile. Perlomeno non manca l’acqua.
Vedo nubi, cumuli. Devo togliermi da qui. Come lo passo quel cazzo di crinale? Quella cresta, di là. Ho i brividi, c’è brezza, c’è silenzio. Troppo.
Devo sbrigarmi, non mi piacciono quelle nubi, troppo silenziose e so che non è così.
E se risalgo la cresta, oltre il crinale ci sarà una via comoda per il fiume?
È un sordo brontolio che riempie il cielo a farmi muovere. “Base Echo mi sentite?” la radio crepita ma tace. Non ti sente nessuno, ma sai che i fulmini ci vedono benissimo.
C’è ghiaccio, tiro fuori gli attrezzi dello zaino di sopravvivenza e dopo aver bloccato i ramponi, infilò la piccozza telescopica in un ghiaccio vetrato e instabile.
Ora tuona. I due soli gemelli sono oscurati da nubi che sembrano quelle di Giove. Hai 12 ore.
Se esco da qui, il problema più grosso saranno le paludi. Tuona, più forte…
Muoviti imbecille, devi arrivarci prima, sono ad almeno 20km da qui. Devo uscire dalla cresta, devo passare oltre.
Nevischia.
Rimpiangerò questo freddo tra gli orrori e i miasmi delle paludi, che però ora mi appaiono come una salvezza lontana.
Pensi troppo imbecille, pensi troppo. Quella costina di ghiaccio a momenti ti trascina fino a quegli sfasciumi.
Non ti fidare. Non ti fidare di niente. La base, pensa la base, calda, caffè, donne. Da quanto cazzo non vedi una donna, a fare l’esploratore su mondi che stanno in culo all’universo?
Che fai? Nemmeno uno straccio di sicura? Stavi andando giù!!
Tuona. Non pensare. Un passo per volta, piccozza, un passo. Non ti fidare, non pensare. Non ti viene a prendere nessuno.
La base. La base…
Sta nevicando.