Quanta conoscenza dopo sessant’anni?
Feste, compleanni e ricorrenze in genere fanno sempre parlare di sé, nel bene e nel male.
C’è chi vede nel Natale una provvidenziale interruzione del lavoro o dello studio, chi invece sbuffando vi riconosce un’odiosa costrizione allo shopping forzato per ottemperare freneticamente e all’ultimo momento all’usanza dello scambio dei doni: non è la maggioranza quella che nel Natale vede in primis la festa religiosa, quindi la nascita di Gesù e l’inizio della lieta novella che tanto ha permeato la nostra civiltà.
Un compleanno è l’occasione di una chiassosa festa a sorpresa tra amici, oppure una festa comandata con regali obbligatori, quasi mai un giorno di lieto raccoglimento in cui l’interessato si soffermi a riflettere sul significato del suo anno in più.
E le ricorrenze? Beh, quelle seguono regole solo apparentemente matematiche, perché in realtà chi pensa a una ricorrenza spesso lo fa anche per creare l’evento, specie in tempi come questi in cui si sente la loro penuria. Rispetto al momento di creatività che ebbe luogo per esempio sessanta anni fa, il momento di celebrazione brilla solo di luce riflessa se non è accompagnato da una solida riflessione su ciò che nel frattempo è cambiato.
Il K2 dal Campo Base
Ma se è un po’ tipico del nostro tempo confondere luce propria con luce riflessa, tanto per dare ragione a qualcuno che disse che si innalzano i monumenti solo per dimenticare più in fretta, ciò non vuol dire che una ricorrenza non possa davvero essere importante.
Il 2004 è stato l’anno del cinquantenario della conquista italiana del K2 e, per le ragioni sopraddette, alcuni osservarono le iniziative con viva perplessità. Le vedevano più o meno commerciali, s’infastivano per la magniloquenza, criticavano il progetto di spargere sul Baltoro e sui fianchi della montagna imponenti numeri di visitatori e di alpinisti. Un simile modo di pensare poteva solo far concludere che la miglior cosa per il K2 sarebbe stato il lasciarlo solo e in pace per un anno!
Altri invece, per qualche recondito motivo, si lasciarono prendere dall’eccitazione del momento e si unirono in coro glorifico: purtroppo nei discorsi e nei comunicati stampa non ci fu vera e propria sostanza, e non poteva certo essere la forma retorica a poterla fornire. Il vuoto d’idee fasciato di retorica è vuoto ancora più desolato, dove le idee di 50 anni prima echeggiavano in un cacofonico e ripetitivo rimbalzo senza senso.
Dunque il CAI ci pensò. Erano passati 50 anni da quando il K2 era stato salito la prima volta da due uomini, quindi dalla spedizione e dunque dal sodalizio intero. Quello storico evento fu tra i più importanti dell’intero cammino del CAI, sicuramente quello più noto all’estero. Giustamente fu osservato che l’Italia, dopo il ventennio e la triste guerra civile a conclusione, con la conquista del K2 aveva riconquistato non solo la simpatia del mondo ma l’autostima degli italiani stessi: era stato cioè il momento culminante di un grande processo di ricostruzione civile, economica e morale.
50 anni dopo (e, oggi, a maggior ragione 60) non sarebbe stata proponibile la medesima filosofia, ribadire conquista ed eroismo non avrebbe costituito più ricetta valida per i nostri mali odierni. La gloria non fu sufficiente neppure per sopire alcune polemiche il cui eco sinistro si ode ancora, per stemperare i toni di un mistero che a giusto titolo fa parte del codice etico della zona della morte, un codice che chi è stato là dovrebbe riconoscere come diverso, se possibile ancora più fluttuante e contraddittorio di quello che già difficoltosamente riusciamo a osservare in pianura.
Dunque il CAI ci pensò e propose “Dalla conquista alla conoscenza”, un motto semplice ma assai incisivo, per significare che il cinquantenario era sì l’occasione per visitare una regione così cara a noi italiani ma era pure obbligo morale di sapere, di conoscere, dunque di amare.
Nell’implicita accettazione che solo con quel nuovo atteggiamento nei confronti della montagna, del Baltoro, delle sue genti e in definitiva di noi stessi, il Cinquantenario potesse avere senso e brillare di luce propria, le iniziative che il CAI e gli italiani promossero per il 2004 nel bacino del Baltoro avrebbero dovuto essere giudicate in base ai risultati, ma non per quante centinaia di persone avrebbero raggiunto il Campo Base o per quante decine di alpinisti avrebbero salito la cima.
La sfida si giocava su quanta “conoscenza” avremmo riportato indietro. Tanto più pallido fosse stato il ricordo di gloria, tanto colori più vivi avrebbe avuto la nostra esperienza collettiva.
Oggi è la ricorrenza dei sessanta anni. Oltre ad Ardito Desio, oggi siamo rimasti senza Achille Compagnoni, Lino Lacedelli, Walter Bonatti. Sarebbe stato bello avere la sensazione di una crescita culturale, sessant’anni è un’età cospicua… Invece, come ha dimostrato questa primavera il tragico incidente dei sedici sherpa morti sull’Ice Fall dell’Everest, l’atteggiamento generale verso la montagna non è mutato, non abbiamo ancora perso il gusto della conquista a tutti i costi. Se non ci possiamo permettere quella vera, ci accontentiamo di quella finta, di quella rimasticata, di quella comprata. Siamo sempre i soliti colonialisti indefessi, ma adesso la conquista l’acquistiamo al supermercato oppure la sottoponiamo al lifting, la travestiamo sui marciapiede dei viali.
postato il 31 luglio 2014
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Non mi sembra proprio che ci siamo “sorbiti” i 60 anni del K2. Anzi tutti, il Cai per primo, si sono ben guardati dal celebrare la ricorrenza, vedi mai che qualcuno debba mettere in discussione la “storia finita” dei tre saggi.
Molto caustico ed apprezzato il finale.
Dopo la ricorrenza dei 150 anni del CAI nel 2013, quest’anno ci siamo sorbiti i 60 anni del K2.
E l’anno prossimo?
Spero che non ci siano altre ricorrenze così auliche ed autocelebrative.
Molto meglio altre ricorrenze quali ad esempio i 50 anni della Domenico Bellenzier sulla Torre D’Alleghe.