Giovanni Giustetto, classe 1980, di Villafranca Piemonte, appassionato alpinista da almeno 20 anni, socio del CAI di Cavour e autore di numerose immagini che trovate sui ‘social’ e sul sito del Parco, è l’autore del primo articolo qui sotto riportato, un “piccolo giallo, con l’appello che chi ne sa di più ci aiuti a ricomporre la storia di questa bicicletta arrivata in punta al Viso. Scrivete a didattica@parcomonviso.eu“.
L’appello non è caduto nel vuoto: la leggendaria guida alpina Clemente Berardo ha chiarito quasi del tutto il mistero. Potete leggere la sua intervista nel secondo articolo qui riportato.
In seguito ai due articoli potete leggere anche due considerazioni finali.
La bici sulla Est del Monviso
di Giovanni Giustetto
(pubblicato su parcomonviso.eu l’8 agosto 2020)
Sono le cinque in punto.
Andrea ed io partiamo dal Pian del Re diretti alla vetta del Monviso attraverso la Via Est. Il cielo è completamente stellato.
Indossate le pile frontali risaliamo il sentiero che porta al rifugio Quintino Sella.
Al lago Chiaretto evitiamo la frana passando per il sentiero che lo costeggia alla sua sinistra e riprendiamo quello che porta al rifugio più in alto… l’acqua luccica al bagliore della luna, il Monviso è di fronte a noi e si sentono solo i massi che cadono dalla Nord.
Alle sei e mezza siamo sul Colle di Viso, l’alba colora il cielo e la cresta est riceve i primi raggi di luce.
Ci dirigiamo alla base del conoide innevato, indossiamo imbrago, casco e attrezzatura necessaria. Sotto di noi uno stambecco ci osserva…
Indossiamo anche i ramponi per attraversare il nevaio. Alle sette comincia l’arrampicata, la via è impegnativa, ha un grado di difficoltà AD con passaggi dal II al III e IV grado.
Su un terrazzino facciamo una scoperta di cui avevamo sentito parlare. A quota 3500 metri ci troviamo davanti un telaio di bicicletta, cosa molto particolare e curiosa per il posto in cui si trova.
Indagheremo al ritorno, ora cerchiamo di non distrarci dalla meta.
Proseguiamo la via che diventa sempre più impegnativa, alle spalle il rifugio Quintino Sella e il Lago Grande diventano sempre più piccoli. Siamo alla base del Torrione di St-Robert, lo evitiamo passando a lato e risaliamo gli altri torrioni e vari salti di roccia impegnativi per le difficoltà.
Superiamo il bivio per il Passo della Lepre e rimaniamo in cresta, saliamo l’ultimo pilastro con difficoltà di IV grado e in breve giungiamo sulla via Normale.
Un ultimo sforzo e finalmente siamo in vetta abbracciati alla croce.
Sono le 12.15, siamo solo in due, uno spettacolo unico…
Ci concediamo una breve pausa e poi giù, si incomincia la lunga e faticosa discesa per la via Normale. La concentrazione è alta, il terreno è scivoloso e instabile. Il minimo errore può essere fatale.
Superiamo diverse cordate in discesa, alle 14 siamo sul nevaio Sella, la neve è morbida e non servono i ramponi. Passato il bivacco Andreotti ci dirigiamo verso il Passo delle Sagnette, percorrendo tutta la pietraia seguendo qualche ometto, sparso qua e la, e tacche rosse.
Continuiamo a mantenere la concentrazione nella discesa con le catene, superiamo altri alpinisti ormai stanchi della discesa.
Alle 15.45 ci riposiamo un attimo al rifugio Quintino Sella scambiando due parole con Alessandro, il gestore. Una buona birra ci aiuta a reintegrare i liquidi e sali minerali.
Facciamo un ultimo sforzo e in poco più di un’ora e quindici scendiamo al Pian del Re.
Ci giriamo spesso ad ammirare il Monviso, non sembra vero che poche ore prima eravamo lassù… la stanchezza dopo 14 ore si sente, ma la gioia, l’emozione è talmente grande che si pensa già alla prossima salita.
Rimane la curiosità di quel telaio arrugginito, i resti di quanto rimane di una bicicletta colorata d’arancio che abbiamo trovato lassù a 3500 metri.
Proviamo a saperne di più di quanto avevamo sentito raccontare.
Pare che negli anni Cinquanta un gruppo di giovani, dalla pianura saluzzese, risalì la valle Po con questa bicicletta fino al Pian del Re. Poi – forse per una scommessa o una goliardata – a spalle se la portarono su fino alla cima del Monviso. Seguirono la via Normale per la vetta e… la lasciarono lì, a 3841 metri.
Non si sa per quanto tempo rimase lassù. Sembra che qualcuno un giorno – evidentemente infastidito da quell’inutile trofeo che deturpava la vetta del Viso – l’abbia presa e buttata giù per la parete est, forse sperando di farla scomparire, nascosta da qualche pietra che col tempo sarebbe caduta e che pietosamente doveva coprirla.
Invece, il telaio, consumato dal tempo e dalle intemperie, si trova lì tutt’ora.
Quella bicicletta la portai io sul Viso
di Devis Rosso
(pubblicato su La Stampa, 22 agosto 2020)
Clemente Mente Berardo, guida alpina di Manta, ha 84 anni. È salito sul Monviso 407 volte, l’ultima (almeno finora), lo scorso anno. Conosce ogni passaggio e ogni segreto del Re di Pietra, ma non conosceva il luogo esatto del ritrovamento del telaio della bicicletta arancione, quello fotografato dall’alpinista Giovanni Giustetto di Villafranca lungo la parete est, a circa 3500 metri di quota. «Davvero si trova lì? – dice – E come ha fatto a finire in quel posto? Sono passato tante volte e non l’ho mai visto».
Tra lo stupore e la sorpresa Berardo svela che fu lui a portare quella bicicletta sul Monviso, nel lontano 1954. E non poteva essere altrimenti. Una storia a metà tra leggenda e mistero non poteva che avere come protagonista un’icona della montagna simbolo del Piemonte. «Avevamo appena finito il servizio militare – racconta – e volevamo diventare guide alpine. La montagna la conoscevamo bene e progettavamo una delle nostre tante imprese, un po’ folli e un po’ goliardiche. Eravamo in quattro: oltre a me, tre amici di cui non voglio rivelare i nomi, di Saluzzo, Verzuolo e Villanovetta. Eravamo indecisi se scalare il Monviso “a spirale”, toccando tutte e quattro le pareti, oppure salire in bicicletta. Optammo per la seconda».
La bici non fu scelta a caso, ne venne presa una già vecchia, arrugginita. Era già deciso che sarebbe rimasta là, in punta al Viso, a testimoniare l’impresa.
«Pedalammo a turno e spingemmo la bici fino a Pian del Re, poi la portammo a spalle verso il Sella e su, lungo la via Normale. Eravamo giovani e forti, arrivammo in vetta con il nostro trofeo, che appoggiammo alle rocce e lasciammo lì».
Berardo diventò guida e iniziò a scalare il Monviso decine di volte: «La bici rimase poco tempo ai 3841 metri della sommità. Qualche anno dopo, forse per una slavina, cadde lungo la Nord-est. Venne recuperata e riportata in cima, prima di finire giù dalla Est. Sparirono pedali, manubrio, ruote, restò solo il telaio. Poi, dagli anni ‘60 non la vidi più, ma ogni tanto qualche alpinista mi racconta di averla incontrata».
A metà anni ’60 venne usata come barella improvvisata per il trasporto a valle di una sfortunata alpinista verzuolese, deceduta per una caduta. «Sapevo questa storia – ammette l’anziana guida – per questo immaginavo che il telaio fosse finito molto più a valle. Invece è ancora lì. Ora chiederò a Giustetto il luogo esatto in cui si trova. È stata una bravata, oggi sono un po’ pentito di averlo fatto e di aver lasciato un rottame su quella montagna. Se mi verrà chiesto dal Parco, non esiterò a trovare qualche alpinista che provveda alla rimozione del pezzo di ferro. Il Monviso è montagna per pietre, aquile e camosci, non per vecchie biciclette».
Due considerazioni
1) Ci era subito sembrato impossibile che una bicicletta gettata giù dalla vetta 3841 m, con un Torrione di St-Robert 3569 m di mezzo, abbia potuto fare tutta quella strada… fino a quota 3500 m circa. Non siamo in vetta a una montagna con una parete così verticale che un oggetto buttato giù possa superare un dislivello di quasi 350 metri. Qui ci sono addirittura tratti quasi orizzontali di cresta, con gendarmi, tra la vetta del Torrione di St-Robert e la sommità del Monviso. Dunque la meccanica di questo giallo va indagata con altre ipotesi, come giustamente fa capire Clemente Berardo.
2) L’aver portato in vetta al Monviso una bicicletta e averla abbandonata lì è di certo (e lo ammette anche lo stesso protagonista) un’azione sciocca, “goliardica” e, se vogliamo, anche abbastanza tipica della mentalità degli anni Cinquanta, dunque perfino “perdonabile”. Ma chi avesse tentato di buttarla giù (in assenza di altre ipotesi o testimonianze più sensate) sperando di nascondere quella magagna avrebbe fatto anche peggio, perché sarebbe emersa prepotente quella finzione che preferisce uno sfregio nascosto a uno sfregio manifesto, dunque una bugia a una verità.
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Cavalcato ieri la bicicletta per una foto ricordo. Si trova sul filo di cresta Ca’ un centinaio di metri sotto il Saint Robert.
A “Mente” si può perdonare tutto, anche di essere stato un precursore della mountain bike.
Direi che Clemente si è fatto ampiamente perdonare dedicando la sua vita alla montagna. E poi ormai il reato è caduto in prescrizione…
Sotto il punto di vista tecnico,un oggetto come una bicicletta lasciata nella natura inquina a causa di alcuni materiali usati. La plastica ad esempio, le gomme, le vernici, eventuali pezzi di alluminio, invece il ferro, utilizzato per le biciclette di una volta, viene disgregato dall’ossigeno. Infatti l’ossidazione del ferro lo polverizza. Ma è tutto da vedere in quanto tempo, relativo a come è stato trattato e inoltre, come detto, se ci sono vernici e altre sostanze aggiuntive, possono essere inquinanti.
Non sono infervorato da una particolare vocazione religiosa, e me ne rammarico perché sono convinto che sia un limite esistenziale. Ciò nonostante a me non danno fastidio le croci e altri simboli analoghi in montagna. O, meglio, non mi suscitano fastidio quelli che sono lì da decenni e decenni (praticamente da “sempre” per chi ha la nostra età), perché ormai fanno parte della montagna e testimoniano le nostre tradizioni e i parametri della civiltà europea, un po’ come il crocifisso nelle aule scolastiche o negli uffici della pubblica amministrazione. Mentre ho una certa contrarietà sul fatto di metterne di nuovi, in montagna intendo. La penso così anche per i nuovi impianti o per i nuovi rifugi/bivacchi.
In seguito ad un post sulla posa di una nuova croce sulla Dufour, il tema dei simboli vari in cima alle montagne ha suscitato su Facebook un vivace dibattito aperto da due citazioni di Messner e Cognetti. chi fosse interessato può usare questo link. Chissà cosa ne pensano i lettori di questo blog?
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=801193313753880&id=361676917705524
Grande Matteo
Beh, d’accordo su tutto, ma è solo un telaio, 3 kg di ferro al massimo…
nelle foto si vede distintamente un brutto traliccio molto più grosso e impattante esattamente in vetta.
Storia curiosa che ci porta tutti sul mitico Re di Pietra. Condivido in pieno le considerazioni finali. L’atto originario (che appare deprecabile ai giorni nostri) va inquadrato nella mentalità storica degli anni ’50, mentre la “gestione” successiva è condannabile. Buona giornata a tutti.