La chiave a stella

Pubblichiamo un brano di Primo Levi, tratto dal suo libro La chiave a stella (1978), sul tema uomo e lavoro. Segue la recensione che ne fece Corrado Stajano e una breve nota dello stesso Levi.

La chiave a stella
di Primo Levi

«[…] Il primo lavoro da fare è stato quello di piazzare i martinetti idraulici; sono come dei cric d’auto ma più grossi. Non era un lavoro difficile, andava giusto bene per vedere cosa poteva combinare quella squadra che le ho detto, l’ortodosso, Di Staso, il pellerossa e il regolare. Può immaginare che, oltre a capire male quello che io gli dicevo, si capivano anche poco fra di loro; ma insomma montatori erano, e lei deve sapere che fra noi la maniera di capirsi la troviamo sempre, magari anche solo coi gesti: ci intendiamo a volo, e se uno è più in gamba, l’altro stia pure sicuro che gli dà ascolto, anche se non ha il grado. È così in tutto il mondo, e tutte le volte che mi ricordo di mio padre, perché adesso è morto, penso che se le cose andassero così anche negli eserciti certe cose non capiterebbero, per esempio di prendere un battilastra del Canavese e sbatterlo in Russia con le scarpe di cartone a sparare schioppettate ai battilastra della Russia. E se le cose andassero così anche nei governi, allora degli eserciti non ce ne sarebbe neanche più bisogno perché non ci sarebbe da fare la guerra e ci si metterebbe d’accordo fra persone di buon senso».

Cosa va a pensare la gente quando ardisce trinciare giudizi al di fuori del proprio particolare! Ho cercato cautamente di renderlo consapevole della carica sovversiva, anzi eversiva, che si annidava dietro questo suo discorso. Attribuire le responsabilità in proporzione delle competenze? Ma scherziamo? È da vedere se il sistema può essere tollerato per i montatori: figuriamoci poi per altre attività ben più sottili e complesse. Ma non ho incontrato difficoltà nel ricondurlo alla sua carreggiata. […]

Il lavoro e la sua qualità
di Corrado Stajano
(da Il Messaggero, 11 dicembre 1978)

Il lavoro e la sua qualità, le ragioni dell’austerità, il conflitto politico e morale tra società dei garantiti e società degli emarginati, i motivi del lavoro e i motivi del rifiuto e dell’assenteismo in un mondo capitalistico sono temi centrali della discussione sulla crisi. Alberto Asor Rosa nel suo saggio Le due società l’ha intuito anzitempo e ha reso drammaticamente palpabile la violenza dello scontro tra la società che ha come cardine la classe operaia organizzata e la società dei giovani all’avventura, dei disoccupati, dei protagonisti della disgregazione che può essere sfruttata da chi vuole conservare il vecchio sistema di potere.

E’ uscito ora un libro molto bello e insolito che mette il dito sulla piaga di questi problemi e che dovrebbe contribuire ad alimentare la discussione, a porre interrogativi e a chiedere risposte, a far chiarezza, insomma, per l’onestà intellettuale di chi l’ha scritto e per la trattazione limpida di questioni che ci toccano cosi da vicino. Il libro, che ha la forma di narrazione, è di Primo Levi, l’ha appena pubblicato Einaudi ed ha come titolo La chiave a stella. Autore di Se questo è un uomo e della Tregua – le terribili testimonianze sull’universo dei lager nazisti – Levi racconta ora le avventure di un tecnico che va in tutto il mondo a montare gru, ponti sospesi, strutture metalliche, impianti petroliferi. Il libro è una sorta di Odissea contemporanea e il protagonista, il torinese Faussone, è una specie di Ulisse che dall’India all’Unione Sovietica, dall’Alaska all’Africa gira con la sua chiave a stella ad alzare, con i suoi tralicci, un altro monumento, quello della moralità del lavoro.

La chiave a stella rivela mestieri e modi di pensare e di vivere di cui si sa poco, ma al di là della curiosità e dell’originalità del tema, il libro è di grande interesse perché affronta dall’interno il problema del rapporto tra l’uomo, le modalità del lavoro e l’oggetto del lavoro. Faussone racconta le sue vicende allo scrittore e chimico di professione Primo Levi e dal continuo dialogo esce non tanto una mitizzazione dell’aristocrazia operaia, ma un racconto su chi seguita a lavorare bene, su chi crede profondamente in ciò che fa, moralista senza incertezze che per il suo lavoro usa rigore e intelligenza. Il racconto della fatica quotidiana, il continuo esame da sostenere, le battaglie vinte e quelle perse e soprattutto il gusto dell’opera finita e ben fatta sono dunque la filosofia dell’opera.

E subito affiorano le domande. Per quale società lavora il tecnico Faussone? Il suo rigore moralistico non offre alibi e prestigio proprio a quella società del profitto e del privilegio che deve essere abbattuta? Non è riduttiva – nel crollo generale delle certezze, nel fallimento dei miti politici e morali, nel trionfo dell’imperialismo, nel ripristino della schiavitù sotto forme diverse – la tesi che all’uomo resta solo questa forma di pacificazione della coscienza che è 0 lavoro fatto bene? E poi: il tecnico Faussone alza le sue torri quasi come un artista-creatore nutrito di scienza esatta, ha fede in ciò che fa e ne riceve anche soddisfazione e prestigio. Ma come si possono dimenticare i milioni di uomini che fanno un lavoro alienante, privi di ogni interesse e di volontà – lavorano per vivere, vivono per lavorare e basta – legati in una catena di montaggio a compiere gesti ripetitivi, privati di ogni soddisfazione e di ogni segno distintivo? E come si può condannare la disaffezione e l’assenteismo in una società che ha solo l’affezione del non fare, dei problemi irrisolti e del non governo e sapendo poi che i giudici più severi sono proprio coloro che hanno lavori gratificanti e ricevono prebende privilegiate?

Ma Levi sa tutto questo e forse più di tutti perché nei lager nazisti è stato schiavo, ne ha avuto coscienza ed è stato uno dei pochi a porre il problema della deportazione di massa anche come problema della forza lavoro nell’industria pesante tedesca. Obiettivo delle fabbriche-lager non era infatti soltanto lo sterminio degli avversari politici, ma la costituzione di un gigantesco esercito di lavoratori indispensabili per produrre al minimo costo, con la camera a gas al posto del licenziamento e della cassa integrazione.

Primo Levi

Il pacato raccontare le avventure del tecnico Faussone, trent’anni dopo Auschwitz, significa che la risposta di Primo Levi è morale, ma è anche politica. La moralità del lavoro vale in assoluto ed è soprattutto un onere per chi vuole il cambiamento, il progresso, la rivoluzione liberatrice. È proprio la classe operaia a doversi fare carico dei disastri di una borghesia incapace, velleitaria o corrotta e a dover porre modelli nuovi che compensino i valori lasciati cadere o traditi da quella stessa borghesia che è ancora oggi al centro della realtà sociale italiana. È la classe operaia che si deve battere per una nuova organizzazione del lavoro capace di trasformare la ripetitività della fatica, di fare in modo che il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo esegue, di offrire a chi lavora delle motivazioni, di combattere con i fatti e con una partecipazione politica effettiva il distacco, la rassegnazione, la non affezione.

Scrive Primo Levi: «Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero».

Anche se le speranze sono fragili e se saranno necessarie generazioni per abbattere la catena dello sfruttamento, il lavoro ben fatto, la competenza e la coscienza della sua moralità sono i presupposti della capacità di portare a buon fine ogni lavoro politico riformista o rivoluzionario sapendo come può essere duro e sfibrante l’esercizio della pazienza per arrivare a un esito forse lontano.

Ex chimico
Nota di Primo Levi

Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l’esilio o l’emigrazione nel caso del paese d’origine, con il pensionamento nel caso del mestiere. Ho abbandonato il mestiere chimico ormai da qualche anno, ma solo adesso mi sento in possesso del distacco necessario per vederlo nella sua interezza, e per comprendere quanto mi è compenetrato e quanto gli debbo.

Non intendo alludere al fatto che, durante la mia prigionia ad Auschwitz, mi ha salvato la vita, né al ragionevole guadagno che ne ho ricavato per trent’anni, né alla pensione a cui mi ha dato diritto. Vorrei invece descrivere altri benefici che mi pare di averne tratto, e che tutti si riferiscono al nuovo mestiere a cui sono passato, cioè al mestiere di scrivere. Si impone subito una precisazione: scrivere non è propriamente un mestiere, o almeno, a mio parere, non lo dovrebbe essere: è un’attività creativa, e perciò sopporta male gli orari e le scadenze, gli impegni con i clienti e i superiori. Tuttavia, scrivere è un «produrre», anzi una trasformazione: chi scrive trasforma le proprie esperienze in una forma tale da essere accessibile e gradita al «cliente» che leggerà. Le esperienze (nel senso vasto: le esperienze di vita) sono dunque una materia prima: lo scrittore che ne manca lavora a vuoto, crede di scrivere ma scrive pagine vuote.

Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti. Quest’ultima è un’esperienza dolorosa ma salutare, senza la quale non si diventa adulti e responsabili. Credo che ogni mio collega chimico lo potrà confermare: si impara più dai propri errori che dai propri successi. Ad esempio: formulare un’ipotesi esplicativa, crederci, affezionarcisi, controllarla (oh, la tentazione di falsare i dati, di dar loro un piccolo colpo di pollice!) ed infine trovarla errata, è un ciclo che nel mestiere del chimico si incontra anche troppo spesso «allo stato puro», ma che è facile riconoscere in infiniti altri itinerari umani. Chi lo percorre con onestà ne esce maturato.

Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L’abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuole dire filtrare, cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la «passione impressa», ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l’ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: «nero come…»; «amaro come…»; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare. Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto, se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia.

Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.

8
La chiave a stella ultima modifica: 2019-10-03T04:02:09+02:00 da Totem&Tabù

2 pensieri su “La chiave a stella”

  1. 2

    Primo Levi si esprimeva con linguaggio chiaro, preciso e conciso. Rispettava il significato delle parole e non utilizzava oscure allegorie. Si faceva capire in maniera esemplare. Il suo italiano non consentiva equivoci né lasciava possibilità di manipolazioni interpretative.
    I suoi libri, di cui il primo (“Se questo è un uomo”) costituisce anche testimonianza dell’orrore dei lager, si leggono con grande piacere e interesse, e dovrebbero essere parte della formazione culturale di ogni giovane.

  2. 1
    Carlo Crovella says:

    N’tla vita a venta rusche’ (dialetto piemontese: nella vita bisogna lavorare, ma il verbo rusche’ ingloba un sottofondo di fatica, implicita nel lavoro fatto con impegno, costanza e dedizione). La chiave a stella è l’elogio del rusche’

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