Metadiario – 292 – La festa dei 70 anni (AG 2016-001)
Già a gennaio mi contattarono due giovani registi di Torino, Tiziano Gaia e Fabio Mancari, per coinvolgermi nella loro idea di fare un film su Gian Piero Motti.
Caspita, mi dissi, questa sì che è una grande sfida. Prima di accettare, mi persi in mille ragionamenti se era il caso di affrontare quel compito, anche se gradito. Ho sempre sostenuto che ci sono cose che non si possono dire e mi veniva in mente l’esempio delle cordate, come si creano, come finiscono.
Facciamo cordata con un’altra persona che, oltre alle caratteristiche fisiche e tecniche, ha tutta una sua vita interiore che può essere assimilabile alla nostra. Mettersi assieme può essere un felice esperimento come un cocktail pericolosissimo. Se succede che su cinque persone quattro muoiono e uno rimane vivo: perché proprio lui? Voi lo sapete? Io no. Però lasciatemi pensare che probabilmente non era il suo momento; ma non era il suo momento perché non era nella stessa situazione degli altri, lui doveva salvarsi. Questo è il campo in cui si può studiare e io l’ho studiato. E’ giusto riferire i risultati di questo studio?
Perché tacerne? Perché se riferisco una cosa di cui ho abbastanza certezza (ma non posso dimostrarla) è come se cedessi in qualche modo al mio io. Se io parlo con un altro che passa lì per caso di cose che non sono scientifiche, non dimostrabili, posso valutare se lui è ricettivo o no. Se non è ricettivo, meglio lasciare perdere. Se è ricettivo, vediamo a che livello è, perché se è a un livello di curiosità e basta, senza emozioni dietro, senza vissuto, ecc., è come se non fosse ammissibile dargli delle spiegazioni che io non posso dimostrare. Mi sentirei arrogante. Cioè darei più importanza a me stesso, al mio io, al mio essere inflazionato, ingigantito, ingrandito.
Perché inflazione e ingigantimento? Perché siamo riusciti a incuriosire gli altri, i quali ci dedicano la loro curiosità e questo ci fa piacere. Un processo da contenere. Sono certo che devi limitare questa cosa. Tanto più se può essere pericoloso. Non è soltanto che sbagli a inflazionare il tuo ego; se tu lo inflazioni in presenza di forze deboli non è che succede un gran ché. Ma se tu lo inflazioni in presenza di forze potenti, allora lì andiamo incontro al più grosso pericolo che tu possa correre.
Prendiamo un pericolo che vale 100 e non vogliamo che diventi mille. Nel momento in cui gli vado incontro o mi metto nella situazione di fronteggiarlo, mi viene da chiedere: come è stato misurato questo 100? Con una scala oggettiva? Anche se è illusorio, accettiamo pure la scala che da 1 a 100 misura il pericolo. Ma nel momento in cui fronteggio questo pericolo, se sono sereno, con il mio io sotto al livello di guardia, in quel momento mi sto mettendo nella posizione di valere anch’io quasi 100. Diciamo pure che valgo 100. Quindi 100 contro 100. Se invece il mio io è inflazionato, gonfiato, crede di essere chissà che cosa, gonfio di arroganza, di presunzione e del fatto che riceve molte lodi, allora 100 diventa difficile da raggiungere. Quanto più distiamo da 100 diminuiscono le nostre possibilità di sopravvivenza.
E quante volte, in alpinismo, l’io può essere sotto pressione perché occorre aver successo per gli sponsor, bisogna fare “risultati”… Beh, lì siamo al massimo dell’inflazione. Lì devi star attento a fare certe affermazioni, come per esempio Kukuczka vivesse esattamente questo genere di problema prima del suo tragico incidente. Posso a malapena valutare me, non certo gli altri. Ciò nonostante si può trarre beneficio guardando le tragedie. Occorre saper vedere i piccoli segni, se effettivamente c’era una tendenza all’inflazione. E, in ogni caso, ci sono le persone che conosci bene e altre meno.
Perché parlo di questo campo psicologico minato in cui è facile perdersi? Chiunque lì si può perdere. Ma torniamo all’esempio del 100 – 100. Tu hai un pericolo che è 100. Ci sei di fronte, lo devi affrontare, lo devi superare, magari devi fuggire, sei in rapporto con questo pericolo. Se accetto che il pericolo possa essere valutato da 1 a 100, pongo un limite. Chi non ha fatto questa valutazione, o l’ha fatta superficialmente, presenta una graduazione propria assai bassa nei confronti della sua preparazione ad affrontare quel pericolo.
Il pericolo quindi non è uguale per tutti. Come la legge…
Può suonare elitario, la gente pensa alla differenza tra l’atleta super preparato e l’altro meno, ma io non intendo questo, perché ritengo che la preparazione di un individuo non sia misurabile con la sua preparazione atletica. Anche atletica, certo. Non è saggio quando uno va a fare la Nord dell’Eiger ed è appena uscito da un intervento all’anca… Però non bisogna sottovalutare la preparazione psicologica. Anzi, per essere più precisi vorrei dire “preparazione interiore”, cioè la condizione interiore.
Per me condizione interiore buona, valida, piena, c’è solo se il mio io è tenuto a bassi livelli. Attenzione: dico “bassi”. Non è che dobbiamo annullare l’io, perché senza di lui non c’è più vita. L’io è una candela, se questa candela diventa una lampada a 400 watt, non è la stessa cosa. Ma non deve spegnersi, deve rimanere una candela che mi permette di muovermi, di mangiare, di bere, non di fare cose complesse. L’io non serve per fare cose complesse. L’io deve essere tenuto a livelli giusti. Se invece il fiume cresce e l’io si gonfia, mi mette in condizioni di inferiorità rispetto al pericolo. Già nel momento in cui io ne parlo, o scrivo, corro il rischio di gonfiarmi.
La parte inconscia di noi stessi non è controllabile, tanto più vogliamo controllarla tanto più corriamo il rischio di essere annientati. Molto meglio averne paura.
E così torniamo a Motti. E’ questo il tipo di energia che lo ha portato al suicidio? Non è più questione di io inflazionato, caso mai il contrario. Motti ha fatto una libera scelta, se vogliamo chiamarlo suicidio, chiamiamolo suicidio. È differente dire che lui non poteva fare altrimenti. La sua condizione finale era quella. Lui la riteneva il modo migliore per concludere. Non per un giorno, questa cosa è durata la bellezza di 8 anni, dal ‘75 all’83, un vero e proprio allevamento della propria fine.
Cosa è successo concretamente in quel 1975? Cosa ha fatto Motti in Valle di Lanzo? Ci sono tanti che scompaiono per tre giorni, fanno un po’ di meditazione… Gian Piero non prendeva droghe. No, stiamo parlando della massima ricerca interiore: è una cosa non misurabile, non raffigurabile. A chi ha bisogno del dato concreto occorre dire che per certe cose non ci può essere. Se lo accetti bene, se no lascia perdere. Viviamo in una condizione in cui tutti si affidano solo a quello che vedono, e non c’è niente di male. Ma se qualcuno è davvero interessato, quel qualcuno deve da fare il salto del fosso. E del dato concreto che ti importa? Nel momento in cui sentiamo una cosa come vera, perché c’è, cosa importa se possiamo misurarla? Questo è un gradino che nessuno ti chiede di salire. Non si può obbligare, e neppure consigliare.
Di cosa ha visto e fatto Motti in quei tre giorni non si può parlare. Ma, per non creare volutamente dei misteri, si può andare un po’ per esclusione. Certo non si è perso involontariamente; è stato tre giorni in stato di trance, senza assumere nessun tipo stupefacente, quindi l’ha fatto volontariamente, alla ricerca di verità che riguardassero se stesso e l’universo. Questo lo posso dire francamente. Poi, come… beh, io non c’ero.
Un film su Gian Piero? Lui mi ha raccontato delle cose, ma non tutte. Anche lui con me doveva obbedire alle stesse regole che ora io impongo. Anche lui doveva fronteggiare il pericolo che il suo io si gonfiasse, quindi ha fatto passare informazioni, ma sono informazioni sfumate, poco terrestri. Quello che lui ha fatto, rimane un mistero. Ma se qualcuno avesse potuto guardare di sicuro avrebbe visto una persona seduta. E basta. Il mondo è comunque pieno di gente che ha fatto questo percorso, specialmente in Oriente.
Gian Piero stesso mi aveva avvertito del pericolo. Collaborare con Tiziano e Fabio, che nulla sapevano di queste cose, mi faceva paura. Paura di quelle forze. Le forze che abbiamo dentro sono talmente potenti che non vorrei che si creasse una guerra dentro di me… vorrei indagare su queste cose senza scatenare le forze. Se si scatenano è finita, posso solo soccombere. Le prove le ho avute cercando di spiegare certe morti. Alcuni hanno scatenato veramente il mondo dei loro demoni. Positivi o negativi. Di certo anche positivi, quando permettono di fare delle imprese alla Kukuczka, o alla Casarotto: per anni hanno consentito loro di essere più avanti di tutti. Ma poi c’è un momento in cui bisogna fermarsi e non è obbligo che devi fermarti senza fare più niente; puoi anche fermarti e seguire altri interessi, magari continuando ad andare in montagna, ma senza cedere all’escalation. L’escalation è esattamente la raffigurazione del proprio io che si gonfia. Perché l’unica maniera che ha l’io, o che crede di avere, per stare di fronte a queste potenze, è di crescere anche lui e dire “io sono più forte”. Invece bisogna fare esattamente il contrario. L’io deve diventare una mosca, una zanzara.
E’ con questi pensieri che accettai la collaborazione con Tiziano e Fabio: saremmo stati impegnati in quest’impresa per circa 28 mesi.

L’impegno per le guide alpine
Alla fine, per le dimissioni di uno degli eletti, Stefano Michelazzi riuscì ad entrare nel Consiglio Direttivo del Collegio Nazionale delle Guide Alpine. Ero molto felice, se lo meritava ed era pieno di iniziative. Si adoperò subito per istituire un Osservatorio per l’abusivismo: questo voleva dire censire tutte le segnalazioni e poi sottoporre ai nostri legali ogni singolo caso: un lavorone. Io misi in piedi un forum che avrebbe dovuto dare voce a tutte le guide italiane e favorire lo scambio di idee e di iniziative. Purtroppo invece l’iniziativa languiva. Le ragioni le compresi molto tempo dopo. Il meccanismo, basato sulla pubblicazione sul sito di e-mail, era lento e poco duttile. A quel tempo si stava diffondendo a macchia d’olio l’uso di whatsapp, ma nessuno immaginava l’esplosione che ci sarebbe stata successivamente con l’uso delle chat. Oggi si fa un gruppo-chat Whatsapp per qualunque cosa e funziona, perché è agilissimo, veloce, non richiede l’uso del pc e non si deve entrare in alcun sito. Oggi ci sono molti gruppi di guide che conversano tra di loro: nel 2016 eravamo ancora distanti.

La controversia Tristano Gallo-guide alpine continuava a dominare la scena e assorbiva un mucchio di energie del Consiglio. Logicamente, visto che si parlava di tanti, tanti soldi e il tribunale ci aveva dato torto.
Lorenzo Merlo, col quale continuavo a collaborare, riprese una sua vecchia idea di istituire una “scuola per giornalisti”, per la formazione di chiunque volesse o dovesse scrivere di montagna.
Ecco la sua mail (17 ottobre 2016):
“Ecco qui qualche spunto per trattare l’argomento formazione obbligatoria e canonica giornalisti. Le valenze dell’iniziava sono a favore delle guide, degli accompagnatori, della cultura della montagna, della nostra esistenza nel panorama di quest’ultima, della nostra esistenza nei pensieri che le famiglie italiane dedicano alla montagna (al pari di quanto accade nei confronti dello sci per i Maestri).
Se il Nazionale se ne facesse promotore nei confronti dei Collegi, se stendesse un programma canovaccio, poi personalizzabile da parte dei singoli Collegi, si potrebbe avviare un’azione di crescita tanto verso l’interno (Collegi) quanto perso l’esterno, classe giornalistica/pubblico/cultura. […]. Ti riassumo la storia di quest’idea:
– Al tempo della mia collaborazione con il Collegio lombardo i contatti presi con le tre Scuole di giornalismo – all’epoca tutte interessate alla proposta – non poterono avanzare per l’interruzione della mia collaborazione.
– La medesima proposta fu nuovamente avanzata in epoca successiva (19 maggio 2016) nei confronti del Collegio lombardo senza essere considerata neppure da una risposta né ufficiosa, né ufficiale.
– In tempi recenti è stato nuovamente proposto al Collegio lombardo, l’intervento nei confronti dei giornalisti. Nell’allegato “Lettera Merlo” trovi la risposta del Collegio stesso”.

In effetti, la risposta del presidente del Collegio lombardo, Luca Biagini, datata 14 giugno 2016, era sostanzialmente positiva. Dopo aver elencato le iniziative che si erano tenute assieme ai giornalisti, Biagini giudicava “importanti le azioni di incontro tra professionisti iscritti al nostro Collegio e giornalisti”. Poi concludeva: “In seno al Collegio Nazionale Guide Alpine Italiane, una commissione sta lavorando ad una riforma degli aggiornamenti delle Guide e degli Accompagnatori, per recepire appieno la legge sulla formazione continua. Porteremo a questa commissione le osservazioni ed i suggerimenti contenuti nella Tua lettera del 19 maggio, in quanto concordiamo che un’azione di coordinamento centrale in merito a questo tema sia auspicabile”.
A dispetto di questi intenti, nella realtà della formazione obbligatoria e canonica giornalisti non si discusse mai in Consiglio Direttivo nazionale. Perciò non se ne fece nulla.
L’incidente a Ugo Manera
A Capodanno Ugo, Valentina, Guya ed io fummo ospiti di Andrea Giorda e Sabrina in Val Pennavaire, vicino ad Albenga. Le giornate spensierate in falesia furono interrotte al Bausu di Oresine il 3 gennaio. Andrea aveva salito Saltasassi, un tiro di 6b. Poi ero salito io, e quando fu il turno di Ugo, Andrea si accinse a fargli sicura. Giunto a una decina di metri da terra, qualcosa successe e Ugo cadde. Il volo non superò i tre metri, ma batté il piede su una sporgenza. Lo calammo a terra e fu subito chiaro che si trattava di una frattura. Non eravamo soli e fummo aiutati nel trasporto dell’infortunato fino alle auto, abbastanza penoso. Ci dirigemmo a Pietra Ligure, all’ospedale Santa Corona, una struttura rinomata nel trattare le fratture. Ci arrivammo verso le 20.
In seguito Ugo guarì perfettamente. Ma gli ci vollero circa sei mesi, perché evidentemente le ossa di un 77enne non sono più quelle di un ventenne…
Il 23 gennaio ci fu un’altra uscita sulle rocce piemontesi, questa volta alla Parete del Visch, con Matteo Pellegrini e Claudio Fasin Camisasca. Da ricordare perché faceva molto freddo, il sole velato non riusciva a scaldare neppure un minimo. Bello essere là, da soli, nel rigore di un ambiente solitario e selvaggio. Salimmo la via del Jaluc (4L), Orso Grigio Manno (3L) e Over 50 (5L). Concludemmo in non ricordo più quale meravigliosa piola a fare merenda sinoira. Il 6 febbraio, altra giornata rigida al Sengio Rosso, nel Veronese, con Salvatore Bragantini e Lorenzo Merlo. Non grandi prestazioni, quel luogo aveva una chiodatura che talvolta impensieriva. Però esteticamente questa falesia è proprio bella e, per la sua posizione, la si può notare anche da molto lontano.

Poi, sempre tralasciando le altre uscite per cui rimando alla tabella finale, saltiamo alla via Stelle cadenti all’Antimedale. In compagnia di Matteo Pellegrini e Salva, riuscii a salire l’intera via in libera e quello lo considerai un bel successo (13 febbraio). Altra gioia me la diede la Corna di Medale, quando il 20 febbraio, con Matteo e Fasin, ritornammo alla via dell’Anniversario. Quella stessa via che nel il 12 novembre 2010 mi aveva fatto dannare, quasi disperando di uscirne mai per i dolori che avevo, ora mi si era concessa e mi aveva gratificato di una splendida salita tutta in libera.
Il 19 marzo eravamo in cinque, in un posto nuovo della Valle di Viù (Lanzo). Era uscita da pochissimo una nuova guida, di Andrea Bosticco, Toccata e fuga sulle rocce della Valle di Viù. Incuriositi, Salvatore Bragantini, Matteo Pellegrini, Erio Grillo, Claudio Camisasca ed io affrontammo la solita trasferta Milano-valli piemontesi. A dispetto della neve caduta da poco, c’incamminammo verso l’arcigno Roc Uias (Inversigni). Iniziammo la via Ginepro Rock Salva ed io, ma già alla prima lunghezza il capocorda dei tre che ci seguivano provocò la frana di una lastra che avrebbe potuto travolgere chi stava sotto a fargli sicura. Tutto bene, ma grande spavento. Naturalmente, continuammo fino a concludere la via. Ma la giornata era chiaramente negativa, perciò traversato il Colle del Lys approdammo alla birreria di San Michele, a Sant’Ambrogio in Valle di Susa, per affogare i nostri dispiaceri.
Il giorno dopo invece ero con Giuseppe Miotti, invitati da Stefano Michelazzi a scalare dalle sue parti, cioè sulla Parete di Sanico (versante est del Monte Pizzocolo, Prealpi bresciane). Stefano si stava dedicando a chiodare un po’ di nuovi itinerari d’accordo con il municipio di Toscolano Maderno. In effetti il calcare lì è stupendo e la prima via da lui aperta lì, Let’s dance, ci piacque molto. In più era nato un immediato feeling tra i due, perciò le battute non si contavano. Anche quella volta finì in gloria in uno stupendo pub con un numero imprecisato di birre.
Il 10 aprile Matteo ed io chiudemmo il conto con il Monte Cucetto, facendo in libera la via dei Torrioni completa, un itinerario che in totale (fino in cima al Torrione Gaido) assomma 16 lunghezze.
Poi fu la volta, con Marco Furlani il 16 aprile) di una via davvero impegnativa, la Trappola, alla Placconata della Parete di San Paolo Sud. Ennesimo splendido itinerario aperto da Heinz Grill e soci che, essendo di nuovissima generazione, presentava difficoltà forti e ben poco addomesticate. Ricordo in particolare la terza lunghezza, una durissima fessura d’incastro che feci bene. Ma dove fui costretto a “toccare” qualche chiodo fu alla quinta lunghezza, un muro liscio e quasi verticale all’apparenza insuperabile. Stupendo.
Nel frattempo Salvatore ed io avevamo iniziato a frequentare la palestra indoor di Rockspot, a Pero, scomodissimo per entrambi. Ma il posto ci piaceva, alcuni amici erano habitué del posto: e soprattutto potevamo misurare un sensibile incremento delle nostre capacità all’aperto. Allenarsi dà risultati, anche se la frequenza è (come era) di una sola volta alla settimana.
Il 21 maggio ero con Christian Della Maria, Maurizio Giordani e Luciano Ferrari sulla via Hasta siempre Comandante alla Cima del Croz del Pin (Monte Casale): anche lì chiusi un vecchio conto e riuscii in libera.
In un giorno imprecisato di giugno Matteo Pellegrini, Daniele Brunelli e Claudio Camisasca c’imbarcammo nella mia BMW per andare agli inizi della Valle d’Aosta: da Quincinetto una strada sale ripidamente e con molti tornanti verso il Vallone Scalaro. Nostra meta era la Parete delle Stelle, sulla quale da poco erano stati aperti degli itinerari. Ma non ci arrivammo mai. Per fortuna ancora su terreno asfaltato, la mia auto si piantò. Nessun tentativo riuscì a farla ripartire. Fui costretto a chiamare il soccorso stradale che si mosse da Pont-Saint-Martin. L’autista impiegò parecchio tempo a capire dove cazzo eravamo e ancor di più a raggiungerci. Ma alla fine l’aggancio riuscì e verso le 11 eravamo tutti a Pont-Saint-Martin. Lasciata l’auto in un’officina non ci rimaneva che aspettare che un bus autostradale ci portasse a casa. Ma le cose non erano così semplici, perché Claudio e Daniele avevano lasciato la loro auto al casello di Marcallo Mesero.
Con nostra sorpresa, non essendo pratici di quel servizio, scoprimmo che il pullmann ci stava lasciando alla sua stazione di Marcallo Mesero, ben dotato di un suo parcheggio, che però non era il nostro. Scesi in strada fummo investiti da un calore insopportabile e in più non sapevamo neppure bene da che parte dirigerci per raggiungere il casello. Ci fu d’aiuto Google, almeno indicandoci la direzione. Traversammo campi, fossi e canali, carichi dei nostri zaini, imprecando. Dopo circa un quarto d’ora di quel supplizio arrivammo finalmente al casello, ma naturalmente eravamo dalla parte nord dell’autostrada, mentre la loro auto era sul lato sud. Traversare era impossibile, non si vedeva alcun passaggio, neppure sotterraneo. Suonammo al casellante che dopo un altro quarto d’ora trovò il tempo di venire da noi e farci passare. Eravamo sfiniti. Gentilmente Claudio ci accompagnò fino a viale Certosa.

Poi ci fu l’abituale settimana in Sardegna, ma questa volta non sulle croste dei poveri Giulia e Mario, bensì regolarmente ospiti di un Bed&Breakfast: sempre a Santa Maria Navarrese, però. Con noi giravano anche Dario Mantoan e Giovanni Bertini: ma in tutti quei giorni, dal 4 al 17 luglio, non facemmo altro che arrampicata sportiva in falesia.
Con Salva il 27 luglio riuscii a raggiungere la Parete delle Stelle (nel Vallone Scalaro), ma il tentativo di salire Mondo difficile s’interruppe alla fine del terzo tiro, per pioggia. Per scaramanzia comunque la strada l’avevamo fatta con la sua auto, e non con la mia BMW, sia pur ormai riparata.
Poi ci fu la bella trasferta familiare in Basilicata, verso il Monte Pollino, di cui ho raccontato in altro capitolo.
Una settimana al Gran Sasso
Quindi mettemmo in cantiere una bella settimana al Gran Sasso. Eravamo in tre, Matteo Pellegrini, Piero Ravà ed io. Di particolare rilevanza è questo riavvicinamento delle sorti mia e di Piero, finalmente assieme in montagna dopo tanti anni. Comodamente installati nell’albergo Gran Sasso 3 a Prati di Tivo ci godemmo la nostra vacanza di soli maschi senza particolare piacere per quella condizione.
Molti furono gli incontri con i locali, caratterizzati da simpatia e bevute. Ricordo in particolare una bella cena con Gianni Battimelli. La prima sera Piero aveva insegnato alla barista come si fa un gin tonic…
il 14 agosto salimmo alla Seconda Spalla del Corno Piccolo per la via Splendido Splendente (Fabio Lattavo e Luana Villani, estate 2011) tanto per prendere le misure sul 6a+ locale.
Il 15 agosto sempre sulla stessa montagna per la via del Vecchiaccio (Pierluigi Bini, Massimo Marcheggiani e Vito Plumari, luglio 1977), con uscita Bini. Piero non era con noi, ma a fare la stessa via incontrammo l’amico Andrea Gaddi col suo compagno. Non contenti proseguimmo sulla Prima Spalla, parete ovest, per la via Suerte y veras, un itinerario che ci diede del filo da torcere per le difficoltà di protezione su un inquietante muro. Era stato aperto da Fabio Lattavo, Luana Villani e Arnaldo Di Crescenzo il 26 luglio 1994. Dopo una giornata nella falesia di Arapietra con Piero, il 17 agosto andammo tutti e tre alla parete nord del Corno Piccolo sulla via Piccolo Diavolo. E sempre sulla stessa parete, poco dopo salimmo per sole due lunghezze la via Bachetti-Fanesi. L’interruzione fu dovuta a un temporale. Vi tornammo il giorno dopo e questa volta ci riuscì, però senza Piero. La via era stata aperta il 28 settembre 1968 da Francesco Bachetti e Giuseppe Fanesi. Con Piero il 19 agosto andammo alla via 7Effe alle Vene Rosse di Colle San Marcello, disdegnata da Matteo perché non in montagna… bensì situata sulla strada tra Fano Adriano e Intermésoli.
Concludemmo in bellezza (20 agosto) con la salita di un vero e proprio gioiello, la via Mario-Di Filippo alla parete ovest della Seconda Spalla del Corno Piccolo. E’ una via logica bellissima, che segue una serie ideale di fessure su roccia compatta. Sono particolarmente belli i due tiri centrali per un diedro-lama regolare, di sicura soddisfazione e divertimento. La mancanza di protezioni può spaventare, ma le fessure accettano tranquillamente i friend. Questo itinerario era stato aperto da Gigi Mario e Fernando di Filippo il 24 agosto 1962.
Questo mi porta a parlare di Gigi Mario, con il quale non ebbi sempre buoni rapporti (vedi qui e qui) ma che comunque è stata una figura di prim’ordine nel panorama dell’alpinismo italiano. Riporto qui un bellissimo scritto di Pasquale Iannetti, che ne traccia biografia e imprese:
“Engaku Taino – Gigi Mario, un mito. Luigi Mario nasce a Roma nel 1938 e ci lascia a 83 anni il 9 novembre 2021 per Covid. Appassionato di montagna fin dalla gioventù, diventa socio della sezione romana del CAI nel 1954. E’ Maestro di sci e Guida Alpina.
Nel 1962 abbandona il lavoro in banca e si trasferisce sul Gran Sasso, dove, per tre anni gestisce il rifugio Carlo Franchetti. Nel 1965 si reca in Canada dove lavora come maestro di sci. Negli anni caldi delle grandi trasformazioni sociali (1967) si trasferisce in Giappone per avere un contatto diretto con la tradizione Zen. E’ accettato nel monastero di Shofukuji di Kobe e diventa servitore personale del roshi Yamada Mumon il quale, l’8 aprile 1971, lo ordina monaco con il nome di Engaku Taino.
In Giappone sposa Kiyoka e nel 1973 torna definitivamente in Italia. Restaura un vecchio casale acquistato precedentemente nella campagna orvietana, viene così messo il primo seme di Scaramucccia. Nel 1974 nasce Lea e nel 1976 Alvise.
Come Guida Alpina, Gigi raggiunge traguardi importanti: dal 1978 al 1985 è Presidente della Commissione tecnica ed il Direttore dei Corsi di formazione Guide Alpine.
Dal 1974 Gigi insegna Tai Chi e Zen nel monastero di Scaramuccia dove porta avanti le sue attività fino al 2021 quando, contagiato dal Covid, muore.
Quando negli anni ’50 compare sulla scena alpinistica del Gran Sasso, Gigi Mario è una vera rivoluzione. Sconvolge l’assopito e chiacchierato alpinismo di quegli anni, fatto di sole ripetizioni e non già di imprese. In pochi anni mette insieme una serie di perle che saranno poi per tanti anni il banco di prova di generazione di alpinisti.
Citiamo solo quelli sul Gran Sasso. Il 5 luglio 1959 con Emilio Caruso apre la via dello Spigolo a destra della Crepa sulla parete est del Corno Piccolo (con Emilio Caruso, giugno 1961) e poi una via sul Paretone, salendo sul II° pilastro con Silvio Iovane (2 giugno 1958) e spostando in avanti il livello dell’arrampicata del Gran Sasso, quanto basta per metterla alla pari delle salite che si possono fare sulle Alpi. Per quasi vent’anni sarà proprio lo Spigolo a destra della Crepa la via di riferimento delle cordate più forti.
Il 5 agosto del 1956 è la volta del Campanile Livia, con la diretta Consiglio-Mario aperta con Paolo Consiglio.
Il 24 agosto del 1962 la Mario-Di Filippo alla Seconda e alla Prima Spalla del Corno Piccolo con Fernando Di Filippo.
I primi due tiri erano stati saliti da Gigi con Emilio Caruso ed Enrico Ercolani.
Nel 1963 con Giancarlo Dolfi apre la via Rosy al Monolito (i primi due tiri erano stati saliti con Maurizio Mucci). E’ la direttissima alla vetta che combina chiodi a pressione con l’arrampicata libera. Un vero capolavoro ed una rivoluzione per quegli anni.
E’ stato il mio primo vero maestro e un grande amico. Le sue testimonianze rimarranno sempre scolpite nel mio cuore. Grazie, Gigi, per aver condiviso con me momenti di vita, per me sono stati davvero importanti, formativi e di grande crescita personale”.
Il ritorno in auto a Milano fu fatto in mezzo ad un traffico terrificante, con code chilometriche. Uscimmo dall’autostrada e traversammo Emilia e Lombardia per strade statali, collezionando una storica serie di multe.
Il Col dei Bous
Accettai l’invito di Heinz Grill ad andare ad arrampicare con lui al Col dei Bous (chiamato anche Col di Bousc). Quell’estate si era dedicato, dopo avermi chiesto informazioni, a quella bella parete ovest calcarea che Heinz Mariacher ed io avevamo tentato nel 1986. Su quella parete in seguito Heinz avrebbe aperto anche altri itinerari, ma quella che mi proponeva di ripetere assieme era quella che meglio interpretava il tentativo di trent’anni prima. Il 25 agosto pertanto mi trovai sotto alla parete assieme ad Heinz e la sua compagna quasi abituale di arrampicate, Barbara Holzer. Salimmo la via dei Vecchi e Grigi. Qui potei misurare con mano la differenza di concezione dell’itinerario che si era potuta creare in 30 anni. Il confronto veniva certamente vinto, in estetica, da Grill, con una concezione moderna e creativa della scelta dell’itinerario. Feci da capocorda le prime tre lunghezze, poi preferii cedergli il comando. Trovai particolarmente impegnativa l’ultima parte, esposta e con il solo spit dell’ottava lunghezza. Geniale poi la traversata a sinistra del penultimo tiro (il settimo).
Conclusi il giretto in Dolomiti con una salita (27 agosto) alla via Alberto Ardizzon (Andrea Spavento e Bruno Tubaro, 14 settembre 1986) al Trapezio del Piccolo Lagazuoi. Ero insieme ad Alessandra Raggio, Stefano Romanengo e la famiglia Furlani al gran completo. Nei pressi del Passo di Valparola ricordo che Marco ed io insegnammo a Lucia l’uso dei friend. La ragazza apprendeva facile e rapido, ma naturalmente il confronto padre e figlia non fu sempre sereno, anzi segnato da strepiti, urla e pianti.
La festa per i Settanta Anni
L’11 settembre ero a scalare con Matteo Pellegrini e Ugo Manera a Briançon. Tornando dalle Gorges de la Biaysse e ormai praticamente arrivati a Villar-Saint-Gervaise la mia BMW ci abbandonò per la seconda volta… così, improvvisamente, senza una segnalazione né visiva né acustica… Con l’aiuto di Matteo riuscii a posteggiarla in modo che non desse fastidio. Quella sera di domenica dovevamo tornare a Milano, così Ugo e Valentina ci accompagnarono a Torino alla stazione di Porta Nuova dove con il primo treno riuscimmo a guadagnare casa. Nei giorni seguenti mi dedicai al recupero vettura. Noleggiai un carro attrezzi a Torino con il quale feci il viaggio attraverso il Colle del Monginevro fino a Briançon e poi ancora fino a Villair-Saint-Pancrace. Caricammo l’auto e tornammo indietro.
A Torino la lasciai ad un’officina BMW pregandoli di farmi un preventivo nei prossimi giorni. Quando mi fu comunicato ciò che avrei dovuto spendere, e appurato che il guasto non era lo stesso di quello del giugno precedente, capii che quella macchina dovevo proprio mollarla. Affidai all’officina Diazzi di Milano, in pratica a quelli che me l’avevano venduta, il compito di recuperarla da Torino con il loro carro attrezzi. Quindi procedemmo alla vendita, ovviamente con un ricavo minimo. Questo avvenne il 30 settembre. Il giorno dopo ricevetti una telefonata da Marco Diazzi che mi comunicava che la mia auto era vincolata da un fermo macchina! Mi precipitai a Corsico alla motorizzazione civile e lì venni a sapere che dovevo sborsare 4.500 euro di multe non pagate. Cosa che feci seduta stante.

C’è sempre stata grande complicità tra Aldo Anghileri, Romolo Nottaris e me. Non solo per l’amicizia, anche per il fatto delle rispettive nascite, tutte nell’arco di poche settimane del 1946. Più volte ci eravamo incontrati e in genere era per qualche festeggiamento. Per celebrare il nostro settantesimo compleanno, Romolo fece davvero le cose in grande. Ci invitò nella sua meravigliosa casa di montagna nella frazione Certara, proprio sotto ai Denti della Vecchia, sopra Lugano. Oltre a sua moglie Anna c’erano anche Guya e l’amico Sergio Brambilla, ex proprietario dello storico negozio di Rovagnate, Barba Sport, con la moglie Elide. Purtroppo era assente Giulia, la moglie di Aldo.
Più o meno ci ritrovammo alle 16 del 23 settembre, ci fu assegnata la stanza e immediatamente dopo una rapida visita all’intero meraviglioso complesso rurale perfettamente tenuto, si passò al festeggiamento. Alle 18.30 avevamo già bevuto due magnum di champagne R. Renaudin del 1986 affogate nel ghiaccio. Sapevamo che Romolo era diventato un grande intenditore di vino, ma nessuno poteva immaginare che negli anni dopo il 2016 avrebbe affiancato alla sua florida attività negli articoli sportivi d’importazione, la New Rock, una seconda iniziativa destinata ad avere grande successo: la vendita di vini e alcolici di grande livello. Dopo l’assaggio di qualche vino bianco e nel continuo consumo di stuzzichini, arrivammo ad entrare in sala e sederci per la cena. Non ricordo bene come fosse il menù, ma posso garantire una qualità da grandi occasioni. Nel frattempo si era passati ai rossi, in particolare ricordo le bottiglie di Barolo Monfortino riserva Conterno 2004. A quel punto eravamo tutti notevolmente su di giri e la festa era al culmine dell’ilarità generale. Verso mezzanotte e mezza ci fu il brindisi con una bottiglia di Macallan-Glenlivet… del 1946! Ricordo che Romolo ci spiegò che in quell’anno le due distillerie, anche se nate di proprietà diverse, avevano ancora il marchio in comune, prima cioè che dividessero i due nomi. Oggi infatti Macallan e Glenlivet si presentano del tutto separati. Della bottiglia non rimase neppure una goccia. Con grande dispiacere ci congedammo e guadagnammo le camere. Un compleanno così io non l’avevo mai fatto…

Il 22 ottobre, posteggiate le auto sotto al Monte Pirchiriano (Sacra di san Michele), assieme a Luca Mozzati, Matteo Pellegrini, Valeria De Vecchi e Franco Carbonero, mi avviai verso l’inizio della via Vol au Vent al Torrione dello Spigolo Nero. Improvvisamente, procedendo in gruppo, nel superare un risalto di lieve entità, non so come persi l’equilibrio e feci un ruzzolone di due metri fermandomi accanto all’ultimo della fila. Maledetto i miei problemi! Ancora una volta ero stato tradito dal mio handicap e dalla mia disattenzione. Non era stata una caduta pericolosa, però comunque mi aveva scosso. Quel giorno feci la via tutta da secondo, con la coda tra le gambe.
L’addio a Banff
Un altro passaggio fondamentale fu l’abbandono di Banff. In tre anni, il mio GognaBlog si era sviluppato in modo assai energico, forse un po’ troppo invasivo nei confronti degli altri contenuti del sito di BanffItalia. Spesso i temi affrontati e le problematiche ambientali non erano proprio in linea con la filosofia dei canadesi. Pertanto Alessandra Raggio verso i primi di ottobre ricevette l’invito alla mia “espulsione”. Lei si fece mille problemi a dirmelo, io invece ero tutto sommato felice di essere costretto a fare quel passo. Il divorzio fu indolore e rapido. Comprai il dominio GognaBlog e vi feci traslocare dal mio tecnico Alessandro Vezzani tre anni di lavoro continuo. Questo avvenne il 26 ottobre. La mia collaborazione personale con Banff continuò esattamente come prima.
L’ultimo evento importante dell’anno fu il 3 dicembre, la presentazione fatta a Valmadrera della ristampa del mio Cento Nuovi Mattini, da tanti richiesta nei vari anni dal 1983 in poi. Nella redazione mi aiutarono in modo commovente gli amici Gianni Magistris e Luciano Riva: l’edizione era targata Il Guyale. Alla presentazione avevo invitato tanti amici e fu una cerimonia davvero simpatica. Popi Miotti aveva fatto anche confezionare due centinaia di t-shirt con un simpatico disegno che richiamava il 101° mattino. Queste magliette andarono a ruba, ma nel vero senso della parola nel senso che alla fine sei o sette non risultavano pagate da nessuno…
Nella mia famiglia c’era stato il trasferimento di Petra a Lipsia (9 ottobre), dovuto al suo desiderio di imparare la lingua tedesca e poi di cercare di conseguire un master di filosofia. Infatti dopo pochi mesi si trasferì a Berlino (in aprile) e alla fine si iscrisse alla Freie Universität, sostanzialmente il massimo in tema di studi filosofici.
E, come non bastasse, il 15 novembre Elena era partita con il fidanzato Gilles Vromann per la Cambogia, dove i due avevano intenzione di stare anche fino a un anno per sviluppare un progetto ambientale.
Convegni
Il 7 maggio la SAT di Arco organizzò un convegno intitolato Evoluzione dell’arrampicata in Valle del Sarca. Feci una relazione storica, alla fine della quale mi auguravo che prima o poi il comune di Arco riconoscesse ad Heinz Grill la cittadinanza onoraria. il 26 maggio, a Firenze, Alessandro Simoni per la locale Università impegnò parecchi relatori sul tema Rischio e libertà. il 23 luglio, Ferdinando Lattanzi e Claudio Arbore m’invitarono per il Festival della Montagna di Ovindoli (AQ). Il 17 settembre, in occasione del IV Raduno Vecchie Ciabatte (Old Climbing Sleepers), a Uschione e su iniziativa di Andrea Savonitto mi fu consegnata la Ciabatta d’Oro. Il 18 ottobre ci fu a Biella la commemorazione dei quaranta anni dalla morte di Guido Machetto. E infine, il 19 novembre parlai a Genova sul tema “avventura” ai consoci del CAAI là convenuti per il Congresso Nazionale.
Qui potete vedere un divertente video di mia figlia Elena, girato a Maastricht nel laboratorio di biologia poco prima della laurea. Il titolo è I don’t give a fuck finale bachelor thesis, Elena.
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Ebbi dei contatti con Gigi Mario quando seguii il corso di roccia della SUCAI di Roma, dove lui era ovviamente un instruttore. Era nella seconda metà degli anni ’60, sicuramente dopo il 1965 ma prima che lui andasse in Giappone. Oltre ad arrampicare (sopratutto al Morra), discutemmo parecchio su, se mi si permette un’espressione roboante, “si possa dare un senso alla propria vita”.
All’ epoca Gigi Mario non lavorava certo in banca, ma faceva invece il cameriere, perchè, come mi spiegò abbondantemente, in questo modo, coprendo volontariamente tutti i turni lavorativi di sabato/domenica a vantaggio dei colleghi, aveva dei giorni liberi infra-settimanali per andare in montagna quando non c’era nessuno. Io al’epoca stavo studiando Scienze Politiche all’ Università, ma ero ancora tormentato da dubbi circa cosa volessi davvero fare “da grande”. Gigi Mario mi sfidò apertamente, se davvero non solo mi piaceva la montagna ma pensavo anche che andare per crode potesse fare qualcosa per me come individuo, ad avere il coraggio di fare come lui, e di accettare una qualsiasi vita di m..da (parole sue) sul piano professionale per dedicarmi invece completamente a scalare. In mancanza di questo coraggio, tutti i miei dubbi erano solo rodimenti di chiccherone adolescenziali fuori tempo massimo.
Non nego che la cosa mi fece una certa impressione.
Bel testo, davvero interessante. Probabilmente rientro nella categoria dei ricettivi, ma ad un livello di mero interesse. Chissà..
Tutto vero, tutto bello, assurda e indimenticabile settimana, di spensierata, felice anarchia costruttiva!
Giusto per la cronaca.
Sempre detto e riscontrato che le BMW, oltre ad essere auto da veri tamarri, sono anche delle estreme baracche. Specie dagli anni 2000 in poi.
A Genova sono considerate auto da nuovi ricchi e negli anni ’70, quando la gente consumava molta carne, era l’automobile che possedevano tutti i macellai.
Infine, sono ingiustamente costosissime e necessitano di una manutenzione-capestro che solo chi si affida all’immagine può ignorare.
Mai conosciuto un possessore di BMW felice di esserlo.