La giustizia del K2 – 1

Metadiario – 82 La giustizia del K2 – 1 (AG 1979-003)

Né vera religione è il mostrarsi spesso a capo velato o volgersi ad un sasso e accostarsi a tutti gli altari, né il gettarsi a terra prostrati e tendere le mani davanti ai templi degli dei, né il cospargere le are di molto sangue di animali, né il recitare preghiere: religione è se mai investigare a mente serena l’immensità della materia. E poi, allorché alziamo lo sguardo ai templi celesti dell’universo e alla volta del cielo trapunta di stelle lucenti, allorché c’incantano i percorsi del sole e della luna, allora nel petto, già oppresso da altri mali, si fa strada un altro dubbio, che non ci sovrasti per caso un immenso potere divino che regoli il diverso movimento degli altri. Siamo assillati dall’ignoranza se mai ci fu un inizio del mondo e insieme se ci sarà una fine e fino a quando le strutture del mondo reggeranno al travaglio di questo moto incessante oppure se, per volere divino concessa l’eterna durata, potranno esse, scivolando nel corso infinito del tempo, disprezzare le forze poderose di questo stesso tempo infinito (Lucrezio, De rerum natura V, 1198-1217)”.

A Funes
Perché… l’inventario generale di noi stessi possa giovare bisogna ricorrere ad una posizione difficile da raggiungere, a metà strada tra la cieca simpatia di se stessi e il proprio disprezzo, tra la presunzione di essere utile a qualcuno e il timore sottile e doloroso di non esserlo (Walter Bonatti, I giorni grandi)”.

Non c’eravamo tutti, perché Renato Casarotto era al Fitz Roy. Aveva­mo passato la serata chini sulla carta geografica e sulle fotografie del K2. Nessuno però si era sbilanciato, parlavamo al condizionale, si potrebbe fare così, qui dovrebbe essere più facile… Reinhold si era poi licenziato, lasciandoci soli senza il minimo legame tra di noi. An­dammo a dormire.

La parte sommitale del versante meridionale del K2: tra ombra e sole la Magic Line.

Il mattino dopo mi alzai piuttosto tardi. Scesi in soggiorno e avvertii subito un’atmosfera pesante. Tanto erano piacevoli il giorno prima i mobili altoatesini dipinti, i vecchi tappeti orientali e gli angoli adorni di tanka tibetane, tanto era amichevole il pavimento di vec­chio legno, così quel mattino sembrava tutto ostile. Fuori nevicava, non si vedeva neppure Funes e le Odle erano nascoste da un fitto manto di foschia e di nuvole.

Erano tutti presenti, Robert Schauer, Friedl Mutschlechner, Michel Dacher, Reinhold Messner e il giornalista di Amburgo Joachim Hölzgen. Mi sedetti sulla poltrona libera, cercando di realizzare in velocità qual era l’argomento che aveva fatto precipitare la situazione. Rein­hold mi chiese: «Te la senti tu, in caso che non si vada al pilastro sud, di salire lo Sperone degli Abruzzi in cordata da due?».

Osservavo le espressioni degli altri, tutti preoccupati, specialmente Friedl. Aspettavano che io rispondessi. «Perché» continuò Reinhold deciso e impietoso «io non vi ho fatto venire qui per fare una spedizione. Io non ho il tempo di organizzare una spedizione. Piutto­sto preferisco andare da solo o con un compagno. Riunendovi qui ho voluto dare la possibilità a ciascuno di scalare una bella montagna. Ma questo qualcuno deve organizzarsi da sé. Io ci metto il permesso pakistano. Non ho tempo di organizzare, e poi sarebbe tempo spreca­to».

Fossero quattro sarebbe una specie di Abbey Road… Alessandro Gogna e Renato Casarotto , Parco Sempione, Milano, marzo 1979. Foto: Publifoto.

Nel frattempo ci dissero che la colazione era pronta; ci alzammo tutti e ci spostammo in sala da pranzo, dove Brigitte aveva preparato una colazione da nobili cavalieri. Il servizio era in porcellana, uno Zwiebelmuster, marmellate di lamponi e di mirtilli fatte in casa. Miele delle api di Funes, salami e prosciutti della valle, pane croccante e pane nero integrale, caffè, latte, tè. Mi sentivo gli occhi di tutti puntati addosso, ma io pretendevo senza rispondere una certa tregua alimenta­re; così, anche se non avevo molto appetito, potevo raccogliere le idee. Mi sentivo umiliato, non capivo perché Reinhold fosse così arrabbiato e aggressivo; e infine non capivo che cosa potessi entrarci io nelle loro questioni. Ma non c’era alcuna questione tra di loro. Dagli sguardi di Friedl, che sentivo alleato, sapevo che ero l’ultimo a rispondere e da me dipendeva tutto. In un momento in cui tutti parlavano d’altro, Friedl mi bisbigliò che loro erano stati evasivi. Mi balenò il sospetto che forse era quella la ragione di tanta acidità. Così ai motivi miei di nervosismo si aggiunse anche il disagio di portare il peso di una decisione finale che io non avrei mai voluto assumermi. Perché mai dovevo dare io la risposta che nessuno di loro aveva osato dare? Alla fine feci cenno di parlare e dissi in inglese:

«Io non ho alcuna intenzione di andare al Baltoro per tentare il K2 in cordata da due. Non ne sarei capace. In questo caso rinuncerei subito ad una mia partecipazione. Io son venuto qui perché mi era parso di capire che si facesse una spedizione a sei per lo sperone sud. E questa rimane la mia idea. Io son venuto qui credendo che oggi ci si sarebbe messi all’opera e ad ognuno sarebbe stato assegnato un compi­to ben preciso, con la massima responsabilità. Invece questa mattina mi si comunica brutalmente che non si farà così. Certo mi dispiace. Rinunciare mi dispiace, ma non voglio impegnarmi in cose che sono più grandi di me. Pertanto, caro Reinhold, vai pure. Non so quanti qui presenti accetteranno. Penso che sia meglio che ciascuno parli chiaro. Io non ti seguo e posso tornare anche subito a casa, dopo colazione naturalmente. Però io posso sperare che questa, da parte tua, sia stata una provocazione, per vedere le reazioni. Io non rispondo con mezzi termini. Una provocazione per capire bene con chi hai a che fare».

Pronunciare con il nodo alla gola queste parole mi era costata un’accelerazione al cuore. Giocavo il tutto per tutto, ma sapevo che con Reinhold non si può barare facilmente. Sapevo ormai per certo che gli altri avevano nicchiato, infatti erano visibilmente sollevati. Parlando in inglese ero stato capito quasi da tutti e non avevo avuto peli sulla lingua. Reinhold tradusse brevemente a Michel quello che io avevo detto.

Alla fine si rivolse a tutti noi e parlando di nuovo in inglese, guardandomi fisso, disse: «Bene, sono contento. Volevo vedere se c’era veramente voglia di lavorare. Non avrei voluto che si pensasse che si partecipava a questa spedizione per diritto».

Alessandro Gogna e Renato Casarotto , Parco Sempione, Milano, marzo 1979. Foto: Publifoto.

Nove mesi di gravidanza
“Io ho forzato l’ingresso del Cielo,
Io ho sfondato le porte dell’Orizzonte.
Io percorro la Terra tutta intera
Degli Spiriti possenti sono in mio potere,
poiché i miei incantamenti magici valgono per milioni,
la mia bocca e le mie mascelle sono possenti.
In verità, io sono il Signore del Duat per tutta l’Eternità;
Ma le vie della mia Ascesa non vi saranno mai rivelate
(Il libro dei morti degli antichi egiziani, cap. X)”.

Alle Fate Nere, ai primi di settembre del ’78, mentre correvo sentii uno strappo alla caviglia improvvisamente doloroso: rimasi deluso, non m’ero procurato mai un danno così banale e soprattutto ero sicuro di non aver appoggiato male il piede! Negli stessi giorni accusai le Fate Nere di essere molto umide: avevo uno strano dolore al collo, non potevo voltarmi completamente, né a destra né a sinistra. Anche guardare in alto mi costava una certa fatica. Con Reinhold avevo preso accordi ben precisi sul K2. Era nata l’attesa e con essa una gestazione dolorosa.

In California, fine ottobre primi di novembre, le giornate erano calde: ma al mattino, a livello delle tende del bosco di Yosemite Lodge, c’era un freddo umido quasi diabolico. Soffrivo alla schiena e soprattutto il collo mi faceva male. Accusavo l’età, gli acciacchi inci­pienti. I mesi passavano in fretta, non così i miei dolori, che comin­ciavo a considerare vertebrali.

In Scozia non ero teso come al Capitan, i dolori diminuirono d’intensità, nonostante l’umido, il freddo e le continue slavine di neve nel collo. A metà aprile ero all’ottavo mese. Proprio prima della partenza per un Corso di sci-alpinismo per Aspiranti Guide Alpine, approfittai della conoscenza del direttore della Bioclinic per cercare di comprendere i miei mali e le loro origini. Il prof. Montemagno è molto giovane, ma sa il fatto suo: direttore di una clinica in pieno centro di Milano, cura i suoi pazienti con la chiroterapia, l’agopuntura ed altri metodi «naturali». Sdraiato sul lettino, attendo che entri. Mi sente contratto, ha due mani d’oro. Parliamo a lungo della mia immi­nente partenza, si vede che è interessato alla preparazione psicologica per un’impresa del genere, più che a quella fisica. Eppure ha un fisico molto atletico che certo non trascura. Mi parla dell’alpinismo per ciò che recentemente ha capito leggendo un autore indiano: un’esperienza che annulla il tempo e avvicina il proprio Sé, in occasione di un momento magico nel quale confluiscono vetta, fatica, volontà. Mi fa piacere sentire un individuo par suo parlare così vicino a ciò che vedo come verità, senza un’esperienza vissuta; ma mi limito ad annuire, tralasciando una discussione che ci porterebbe lontano e nella quale di sicuro mi lascerei andare, nel tentativo di superarlo. Il segreto dev’es­sere custodito.

L’adesivo della spedizione

Ogni seduta ormai segue un suo cerimoniale. Gli aghi infissi nella regione dell’atlante e dell’epistrofeo sento che agiscono, ma alla fine è tutto immutato. La radiografia non ha rivelato nulla. Dopo ogni seduta le sue mani mi manipolano, ogni volta è un crac, ma non è liberatore. Per sei volte si ripete, ormai sono sicuro di aver speso danaro inutilmente. Ma non mi dispiace, il prof. Montemagno mi è simpatico. Al momento del congedo (la sera prima mi ha visto in televisione) mi fa i suoi auguri, che gradisco perché sento sinceri, ed un’ultima raccomandazione: essere meno teso! Aggiunge ciò che da tempo sapevo: il mio dolore al collo non è che uno psicosomatismo.

Nella marcia d’avvicinamento, la spedizione si può dire ormai nata, i dolori scompaiono così come sono venuti. Scompaiono in sordina, fatico ad accorgermene. Presto altri li sostituiscono, più vio­lenti, ma ormai il bimbo deve nascere, mi sento pronto come una futura madre. Il viaggio è lungo e purificatorio, come un pellegrinaggio di ogni religione: in esso altri cinque miei pari sono da me vissuti come superiori, come avessero il pene più lungo del mio; poi ci sono due elementi di equilibrio, uno bianco, Joachim, e uno scuro, Terry. Più una donna. Nella mia situazione difficile intravvedo quanto sia grazio­sa una ragazza bionda con la quale sarebbe bello stare. Si sta lavando i capelli, non può ancora intervenire su di me. Ma quando alla fine ella è pronta e mi viene incontro flessuosa, seducente, sono io che non me la sento, mi sento piccolo e sporco. Di fretta riesco a guadagnare una stanza di quella clinica, ci sono due malati che dormono. A fatica trovo un catino e dell’acqua, come nelle stanze dei vecchi alberghi: voglio lavarmi il pene. La ragazza intende entrare, non mi dà il tempo. Urlo di aspettare perché ho il terrore che mi veda così, ma già il suo viso appare sulla porta, sorridente. Alle sue spalle c’è il prof. Monte­magno, integro e sicuro, e di fronte a loro non provo più vergogna di nulla. Il pene è mio, è sporco e lo sto lavando. Poi sarò pronto, pronto per un viaggio con voi due dove alla fine voi due diverrete una sola cosa con me, perdio. E se non sarà così avrò fallito: non sarà un aborto e madre e figlio moriranno in un’immensa clinica naturale, la fabbrica del mondo. I dolori al collo mi avevano con chiarezza indica­to di non voltarmi mai indietro. La donna è già stata eliminata, il primo giorno di giugno: ormai siamo agli sgoccioli.

Le strade maestre sono piene di rischi
è meglio che usi quel buon senso
che ti fa prendere solo i frutti del caso
dalle strade tue sui quaderni tuoi
un pittore a mani vuote traccia folli schizzi
perfino il cielo si piega sotto di te
e ormai è tutto finito, amico (It’s All Over Now, Baby Blue, Bob Dylan)”.

Il poster della spedizione

Voce dal telefono

“Dissero dunque i grandi sacerdoti dei Giudei a Pilato: – Non scrivere: Re dei Giudei; ma che egli ha detto: io sono Re dei Giudei -. Rispose Pilato: – Quel che ho scritto ho scritto – (Vangelo di S. Giovanni, 19, 21-22)”.

9 maggio
… Volevo dirti che per me sei stato e sei più che un amico, sei l’unico che ha capito e che ha avuto il coraggio di prendere la strada. Volevo dirti che vorrei esserti vicino, anzi magari ci vedremo là. Forse è giunto il momento che vada anch’io ad oriente, dopo tanti anni di attesa. Io sono sicuro che per te questa è LA salita, ma certo. Forse sarai l’unico ad arrivare, forse da solo. Certo sarà dura, ma sono sicuro che ce la farai, io ti seguirò da vicino. Ormai devi partire:

“Devi partire ora
prendere ciò che hai bisogno di pensare che
duri, ma qualunque cosa desideri trattenere
è bene che tu la prenda in fretta;
il tuo orfano con il fucile ti aspetta laggiù
e si dispera come un fuoco nel sole
guarda i santi che passano di qua
e così tutto è finito, baby blue (It’s All Over Now, Baby Blue, Bob Dylan)”.

Il retro del poster della spedizione.

La fortuna è il destino che io stesso ho scelto
Il paradiso non è come lo descrivono i preti, è molto, molto più bello (Herman Hesse, Peter Camenzind)”.

10 maggio
La via Marsala a Milano spesso mi vede frettoloso passante obbligato. È il percorso più breve tra casa mia e casa di Marina, Paolo e Michele, ma è una via antipatica, senza alcun negozio per sette ottavi della sua lunghezza, solo marciapiedi invasi dallo sterco dei cani. Oggi sono andato dal Borghi, una cartoleria-copisteria molto grande e piena di lavoro. Spesso l’odore di ammoniaca, nelle giornate umide, invade la squallida via Marsala. Ho fatto fotocopiare la lista in tre lingue della nostra merce e rilegare le copie in ordinati taccuini, uno per ogni componente della spedizione più alcuni per la dogana pakistana e per riserva. Quando esco sono soddisfatto, so di aver compiuto un buon lavoro.

Col mio solito passo deciso mi avvio verso casa, lungo la via Marsala, cercando di evitare le inevitabili chiazze marroni. Il mio sguardo è fisso a terra, anche se i pensieri sono molto lontani, sfiorano il Pakistan, il Karakorum, il K2… Un grosso maggiolino mi taglia la strada, la solita corazza rossa con i puntini neri, tre volte più grande del normale però. Osservo l’insetto, fermandomi. Lui continua indi­sturbato la traversata del marciapiede, è un bell’animale, sai quanti lo prenderebbero in mano perché sanno che porta fortuna. Non lo tocco, non lo ostacolo, godo solamente della sua presenza e della sua amici­zia. Egli ha scelto me, senza saperlo. So che avrò fortuna, ma so anche che non necessariamente la fortuna mi darà quel che io inizialmente potrei desiderare. La fortuna è il destino che io stesso ho scelto. Ma il destino è un’arma a doppio taglio, bisogna saperla maneggiare. Non sempre si è liberi nel proprio destino, talvolta è necessario dire sì anche quando dispiace. Il maggiolino, l’insetto pulito, il beniamino, è un segno particolare che sottolinea il nostro andamento. Una volta o più ho sollevato un sasso e da sotto scappavano decine d’insetti neri, che mi intimorivano perché come in un film potevo vedere che essi uscivano dal mio cuore. Il maggiolino non ha mai bisogno di nascon­dersi, perché in tutte le fantasie è il jolly, l’argento vivo che tutto ama e da tutto è amato.

La fronte della cartolina della spedizione

La morte è parte della vita
In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni (Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, prologo)”.

12 maggio
È stato bello ieri sera, a cena in un bel ristorante, vicino alla Stazione Centrale per poter andare a prendere alle 23 Michel Dacher che arrivava in treno da Monaco. Poi il consueto bivacco a casa mia, con gente sdraiata sui tappeti in attesa dell’alba, quando sarebbe arrivato, anche lui in treno, Robert Schauer. Uscendo dal ristorante ho alzato gli occhi alla luna: era piena e allora, una volta di più, mi sono sentito pieno di amore per questa spedizione, che partiva con buoni auspici. La luna piena è un invito a viso aperto ad interessarsi e a scoprire anche l’altra faccia, che non si mostra mai all’uomo. In quest’immagine vedo tutto il senso della mia ricerca e del mio partire per questa nuova avventura. La luna piena è un invito ed un augurio. Il primo assicura un arrivo da qualche parte ed il secondo garantisce una buona partenza, circondata dagli amici più stretti e dalle forze dispiegate e benevole della natura. A Linate c’è stato un momento d’intensa emozione. Dapprima ero deluso e stupito di non provare niente: Maria Luisa Sangalli si prodigava alla biglietteria per evitarci il supero-peso dei nostri bagagli personali, amici di Renato Casarotto, Franco Lecchi ci fotografava e saltellava di qua e di là; vecchie conoscenze nel campo giornalistico cercavano di carpire le ultime notizie o le primizie su eventuali disaccordi. Sandro Giorgetta, sempre compassato, sa nascondere bene i propri sentimenti ma non credo sia venuto per pura cortesia, Francesco Margola è un esuberante, si sente e fa piacere la sua presenza, la base di tutto è il suo sorriso aperto. Dicevo quindi che, un po’ per le cose da fare un po’ perché stavamo attenti che nessuno rubasse niente nella confusione e un po’ per le chiacchiere sul più e sul meno, il tempo passava ed io restavo arido, anche se mi concentravo su Nella. Ma quando ci avviavamo al con­trollo di sicurezza della polizia, allorché ad uno per volta tutti passa­vano dall’altra parte e pian piano io rimanevo solo, in mezzo ai passeg­geri e distanziato da Nella e da tutti gli altri, ai quali si erano aggiunti all’ultimo momento Aldo e Marina Anghileri, ecco salire un po’ di pianto in gola; il bene per gli amici, l’amore per mia moglie mi assalgono e mi stordiscono. Dentro di me è una cascata liberatoria, anche se per un momento mi vedo morto al mio funerale.

Il retro della cartolina della spedizione

In aereo mi succede di pensare a come sarebbe vuota la mia casa senza di me. Mio padre verrebbe certamente a Milano per cercare foto mie e qualche altra reliquia. Nella non farebbe difficoltà, gli darebbe tutto e forse mio padre di fronte a tanta generosità si stupirebbe al limite di pensare che Nella non mi volesse poi molto bene; a queste tristi ma seducenti immagini si sovrappone quella di Nella che pian ogni tanto. Ancora mi colpisce, mentre l’aeroplano atterra a Fiumicino la mazzata del sogno di morte: il colpo è subdolo, penetra nei miei meccanismi ad occhi aperti e blocca ogni movimento. Sognare di morire è il mio terrore, devo avere una grande paura per essere preso così prigioniero ogni volta. Eppure i morti sono morti perché non sapevano quello che facevano o non volevano sapere. Ciascuno di noi rifugge dall’affrontare la dura responsabilità di vivere se stesso fino in fondo, individuando se stesso tra le mille vie aperte che il mondo ci offre. Ma ognuno di noi forse sente in qualche modo che deve farlo e rimanda quindi il momento del definitivo distacco. Rimandare il dove­re e voler spostare nel contempo il termine di consegna significa tirare troppo la corda. La corda si spezza al proprio carico di rottura.

Anche a Fiumicino il traffico cui siamo sottoposti è intenso, qual­cuno mi chiede se siamo giocatori di base-ball, rispondo di sì, così è contento di avere indovinato. Ci trattengono nella saletta dei VIP, ma tutti sono in attesa che Reinhold Messner arrivi da Monaco, ed è in ritardo, solite maledizioni all’Alitalia. Quando finalmente arriva, accompagnato da Ursula Grether, il nostro medico, è immediatamente accerchiato da televisione e giornalisti. Nell’attesa avevano rivolto domande a me, avevo risposto cercando di non dire molto, non ne avevo voglia, spero comunque che siano rimasti soddisfatti dell’antipa­sto, deludere la gente è sempre spiacevole, anche se non gliene frega niente. Reinhold invece è in piena forma, parte in quarta a parlare del suo alpinismo e, dopo un discorso filato, coerente e catturante, con­clude dicendo che la morte è parte della vita. Sono tutti impietriti e gongolanti dell’effettone che questo discorso ha avuto su di loro e quindi sugli ascoltatori (c’è stata regia senza che nessuno volesse!). Quelle parole si rifacevano all’equilibrio da lui ritrovato dopo l’avven­tura del Nanga Parbat in cui perse il fratello Günther: «… anche allora avevo un equilibrio, ma meno “profondo” che in questi anni seguenti». Così gli ascoltatori, gli scribacchini, i mestieranti della cinepresa, rotti ad ogni tipo di spettacolo e di certo impermeabili ad ogni emozione questa volta hanno subito un’irruzione nell’intimo, magari senza troppo accorgersene. Ed il problema era quello dell’equi­librio, così sentito oggi, proprio quando agli alpinisti si dà dei «pazzi scriteriati» e si vorrebbe perseguire una vita «moderata». Renato ha ragione a dirmi che «quelli non hanno capito niente di quello che ha detto Reinhold, perché non gli importa nulla».

La prima sosta del nostro aeroplano della Pakistan International Airlines è Atene. Robert ed Ursula ne approfittano per effettuare l’operazione «gammaglobuline». Questa sostanza, protettiva in parti­colare nei confronti dell’epatite virale, dev’essere tenuta in frigorifero. Meglio quindi far subito, senza aspettare la calura di Rawalpindi. È curiosa la scena di un aereo fermo, mentre le donne di servizio scopano il corridoio e tirano su le cartacce e i bicchieri di plastica cercando di non scontrare il culo scoperto del «paziente». Renato, infermiere, si fa da solo l’iniezione, poi la fa a tutti, ma non a me, perché non m’interessa. A Joachim Hölzgen, il nostro giornalista, che ha il sedere un po’ più floscio degli altri, dice: «Ti fidi? Guarda che io sono alpinista, io ti sfondo…».

Rawalpindi, 1979

Terra straniera

Considera, dunque: poiché vivi in terra straniera, non procacciarti più dello stretto necessario, e sii pronto, affinché, qualora il padrone di questa città voglia cacciarti perché ti opponi alla sua legge, tu possa uscire dalla sua città e ritornare nella tua e osservare la tua legge senza costrizioni e con gioia (Erma, Il Pastore, Similitudine 1, paragrafo 6)”.

13 maggio
Rawalpindi è la più brutta città del Pakistan, di certo: lo dicono anche i pakistani. Però questi aggiungono che la capitale, a 15 km di distanza, Islamabad è molto bella ed attraente. Purtroppo non possia­mo noi europei condividere il loro punto di vista ed Islamabad ci appare addirittura una delle più squallide ed opprimenti città del mondo. Pindi, com’è chiamata familiarmente Rawalpindi, è una polverosa città commerciale, senza alcun monumento o costruzione no­tevole. Il bazar e la via centrale, la Murree Road, sono molto animati, ma per chi conosce i bazar delle altre città orientali questo appare caotico ma scialbo. Non è in vendita alcun oggetto artistico o artigia­nale che valga la pena di esaminare. Si vende solo ciò che serve per vivere e per consumare, il più possibile di plastica. Nessun angolo caratteristico, solo la confusione usuale, rumore, mendicanti. «The Mall» è il viale alberato costruito ai tempi inglesi lungo il quale sono sistemati gli alberghi, l’ufficio turistico, la chiesa cristiana, le banche, l’ufficio centrale della Pakistan International Airlines; più in là, verso la periferia, le villette dei ricchi e dei benestanti. Si raggiunge Islama­bad per una lunga strada con aiuole fiorite, una città assurda costruita da pazzi architetti e megalomani politici. Il bazar coperto è uno degli orrori inutili più evidenti, per non parlare di alcuni edifici governativi. Si presenta bene invece il cinema, all’estrema periferia di Islamabad, dove centinaia di villette ad un piano, stile inglese, alloggiano i diplomatici di tutte le nazioni amiche del Pakistan. Questa impressio­ne avevo ricevuto quattro anni fa, non ritornavo volentieri a Pindi. Ma in questi quattro anni forse molto è cambiato in me: subito mi accorgo che l’impressione temuta non può più aver vita. Il giudizio estetico delle due città non può cambiare, ma ora gli occhi ed il cuore accettano di buon grado la situazione, riesco a penetrare meglio oltre i polverosi negozi, oltre il convulso traffico di pedoni ed autoveicoli, oltre i «tonga» cigolanti, sopporto bene i radi commenti dei miei compagni, di quelli che non sono mai stati in Asia. Nel caldo del pomeriggio un cavallo che traina un tonga, e cioè un carro adibito a taxi, crolla sull’asfalto e sembra proprio moribondo. Molta gente si fa attorno, il padrone cerca di sollevare la povera bestia. Friedl Mu­tschlechner e Michel Dacher si fanno sotto per fare fotografie, io mi allontano per non vedere il mio cavallo che dentro di me fa la stessa fine. Sotto questa vernice di squallore deprimente a prima vista riesco a scorgere il cuore della città che pulsa, del milione di abitanti che prima scartavo come massa condannata e sfavorita di fronte a Lahore, Peshawar, Quetta, Karachi, città più storiche, vive e creative. E qui s’aggiunge la trafila burocratica, la prima avventura dei pellegrini del Karakorum che trovano il loro Cérbero in ampli stanzoni, di fronte a pile di registri e sotto implacabili ventilatori che vorrebbero congelare il più in fretta possibile il tuo sudore.

Rawalpindi, 1979

Le pratiche burocratiche
Poi, intinto un pezzetto di pane,
lo diede a Giuda di Simone Iscariota.
E appena preso il boccone, il Satana
entrò in lui. Gesù dunque gli disse:
«Quello che fai, fallo presto» (Vangelo di S. Giovanni, 13, 26-27)”.

14 maggio
A giudizio unanime sia il numero delle pratiche burocratiche da espletare, sia il numero di giorni necessario per esse sono sensibilmen­te diminuiti nel corso degli ultimi anni. Anche il Nepal si è un po’ ammodernato e in complesso le spedizioni devono fronteggiare un compito molto più snello; a mio parere spesso non è vero ciò che molti continuano a sostenere, che l’Oriente è complicato, che spesso si perde la pazienza. Certo la mentalità è rimasta differente dalla nostra, diverso l’accostarsi e il risolvere i problemi, il concetto di tempo non ha registrato accelerazioni. Ma il numero di fogli, timbri e code è senz’altro ridotto. Ciò premesso, rimane sempre un’esperienza interes­sante sdoganare della merce in un paese orientale.

Appena scesi dal taxi, non avevamo ancora pagato l’autista, ecco la gentile aggressione di un pakistano, alto di statura, apparentemente degno di fiducia, che si spaccia per «custom agent» e a tutti i costi vuole aiutarci. Così entriamo nel primo ufficio e mostriamo la nostra lista del materiale vistata e timbrata dalla prima all’ultima delle 60 pagine: un lavoro fatto ieri al Ministero del Turismo. Allego la «bolla di vettura» della PIA Cargo (trattengo le due copie). Dopo alcuni passaggi da un impiegato ad un altro, riusciamo ad arrivare ai nostri containers che sono disposti al sole in ordine sparso, in mezzo ad un enorme cortile invaso da ogni tipo di merce, un migliaio di altri colli. Il mio pensiero corre al prosciutto e al salmone: non devono stare molto bene ora. Nel frattempo litighiamo con il preteso agente che voleva prima tre poi due rupie per pezzo. Solo così, secondo lui, sarebbe stato possibile sdoganare. Finalmente se ne va, dopo che ripetutamente gli abbiamo detto che non ci serviva e che non gradi­vamo la sua presenza e che nessuno l’aveva chiamato in aiuto. «Ma è solo per voi», diceva.

Iniziamo ad accostare i bidoni di plastica, per avere un po’ d’ordi­ne e poterli contare (qualcuno era capovolto, altri messi di lato rotolo­ni). L’appello è proprio essenziale e lo ripetiamo quattro volte: sono proprio 108, più quello che Robert aveva spedito da Roma come bagaglio personale e che per la sua uguaglianza agli altri bidoni era stato scaricato a Pindi insieme con il cargo, nonostante la targa fosse diversa. Ma questo potevamo aspettarcelo, non si può pretendere che i facchini pakistani osservino uno per uno 108 bidoni tutti rigorosa­mente uguali all’apparenza per vedere se qualcuno di essi per caso sia destinato altrove. Mentre Robert si allontana con le sue scartoffie, Michel, Friedl ed io mettiamo da parte i containers che ci serviranno in albergo, mentre il caldo sta ormai aumentando. Dopo una discreta attesa ci consegnano il « gate pass » (una copia la tiene l’usciere, in attesa del documento definitivo). Con il gate pass si potrebbero anche far uscire i colli, ma per metterli dove? L’unica soluzione è di riporli nel magazzino del Cargo Northern Airlines (N.A.). Ci rispondono con prontezza che non hanno posto. Insistiamo che è nostra intenzione spedire tutta questa merce a Skardu con le N.A. e quindi il posto deve saltar fuori.

Rawalpindi, 1979

«Allora dovete fare il “booking”, prenotazione e pagamento. Ci dovete dare subito 14000 rupie circa e prima dovete completare la dogana».
«Ma la dogana! We finished custom just now! È già finito!». «E dove sono i documenti?».
«Non sappiamo a chi chiedere nessun documento».
«Voi dovete andare da questo “gentleman”, indirizzo 5, The Mall. Lì c’è l’ufficio PIA». Robert scuote il capo, pensando che cosa diavolo ce ne può importare di andare così lontano.
«Il booking dovete fare, qui non è possibile!».

Così Robert ed io, afferrato un taxi, lasciamo di guardia Friedl e Michel sotto il sole cocente. Arrivati all’ufficio, reparto N.A., troviamo il direttore. Questo ci dice paternamente che noi non dovevamo sco­modarci per venire a fare il booking, dovevamo prenotare là all’aero­porto. «È proprio inutile che siate venuti qui» ci ripete tre volte il «gentleman». Rinunciamo a sostenere che anche a noi non interessa­va molto vedere il suo bel volto, anche perché la discussione assume una piega migliore: ci dice d’aver parlato ieri con il nostro «leader», suo amico, e quindi che farà il possibile per aiutarci. Telefona al Cargo N.A., ci definisce «very important persons». Dopo gli ultimi convenevoli corriamo di nuovo all’aeroporto con un altro traballante taxi: là il tipo che prima ci aveva spediti in città ora ci accoglie meglio.

«Wait a moment, please». Poi ci chiede i soldi per il booking. Ma noi non abbiamo soldi, quelli in questo momento li ha Reinhold. S’insinua già il timore che ogni porta si stia di nuovo chiudendo.
«Allora non è possibile fare il booking!».
«Noi vogliamo prima di tutto spostare la roba, metterla nel vostro cortile e poi, quando arriverà il nostro “leader”, pagare».

Skardu, 1979

Alla fine acconsentono, ma prima bisogna terminare le inafferrabi­li pratiche doganali. Chi ha ora i nostri fogli? Nessuno lo sa. Un impiegato ci dice che solo con la lista non si può far niente. Poi un altro impiegato più potente degli altri scarabocchia una sigla su un gran librone, noi dobbiamo fare altrettanto. Ci dicono che non è finita, ma non è chiaro che cosa bisogna ancora fare, l’inglese dell’impiegato è quasi incomprensibile. È evidente che non lo comprendo, mi aggre­disce dicendomi con cortesia che forse è meglio che lui parli con il mio collega (Robert) perché io «dò l’impressione di non capire la lingua inglese». Ribatto che io non comprendo che cosa lui voglia da noi. Esco stizzito, trovo Reinhold e il nostro ufficiale di collegamento Muhammad Tahir, detto Terry. Stanno riempiendo dei moduli. Dopo altri trenta minuti Robert riesce ad impossessarsi di tutti i documenti. Infatti gli impiegati stavano per uscire per consumare il lunch e così si sono decisi a sbrigarsi. Mentre ci accingiamo a spostare la mer­ce, ci accorgiamo che al sole feroce del cortile più nessuno sta sorvegliando, solo Friedl e Michel sono sempre là. I cancelli sono sprangati a chiave, i guardiani rispondono ai nostri richiami solo dopo che ci decidiamo ad urlare.

«Dovete aspettare le 14, altrimenti non ci sono facchini».
«Preferiamo far da soli piuttosto di aspettare i vostri facchini».
«As you like».

Così in quattro persone, per mezzo di carrelli pesantissimi, spo­stiamo 2082 kg divisi in 97 colli. Poi Friedl e Michel vanno con due taxi all’albergo per portare via da qui gli altri 12 containers, tra i quali quelli contenenti il prosciutto ed il salmone. Robert ed io ci accasciamo sotto l’unico albero, concedendoci due bottiglie di 7 up, in attesa che gli impiegati ritornino e quindi completare le pratiche del booking e del pagamento…

Tra le altre cose di oggi, sono arrivati Wilhelm e Karin Bittorf, via Karachi. Wilhelm è un giornalista di Der Spiegel, un noto scrittore tedesco; loro compito sarà di avere i contatti radio con noi da Skardu e nel medesimo tempo tenere il collegamento con la redazione dello Spiegel ad Amburgo.

Skardu, 1979

Questa sera a cena, ma anche oggi al lunch delle ore 15 dopo la battaglia della dogana, avevo la sensazione che non fosse più come il giorno prima, appena arrivati. Reinhold era probabilmente arrabbiato per il rifiuto dell’ambasciatore italiano di mettere la firma a garanzia della nostra spedizione (per qualsiasi intervento di elicottero od altra ingente spesa) e forse preoccupato per via del volo a Skardu. Ma è strano, perché non vedo altra ragione per essere tristi. Tra di noi si parla, per quanto possibile, e in tutti i discorsi fatti con chiunque finora non ho ancora sentito un qualunque commento negativo e nessuna allusione o strizzata d’occhi. Sarà forse solo stanchezza. Ma sono contento ugualmente, perché nelle altre mie spedizioni l’aria che si respirava era diversa. Forse sono un po’ triste perché mi sento un po’ inutile. Forse non ho occasioni per mettermi in luce? Ma questo è il solito pazzo problema, devo imparare a vivere solo in funzione di me stesso! Fregatene se gli altri non ti vedono! Se lo so! Ma mi è sempre difficile. Quando poi Reinhold ed altri escono nel fresco della sera per fare una passeggiata, preferisco non aggregarmi. Meglio stare un po’ da solo, oppure con compagni per me meno « impegnativi ». Salito in stanza metto in ordine svogliatamente il mio bagaglio, doma­ni inizierà il lavoraccio delle cartoline.

Skardu, 1979

Un affronto, un bacio, un invito
“«Faresti Tu perire così il giusto insieme con l’empio?» (Genesi 18, 23)”.

15 maggio
Renato, Friedl ed io siamo in stanza, firmiamo cartoline a migliaia: così tanti infatti sono coloro che hanno versato una piccola somma per aiutarci. Fuori fa già caldo, vediamo ricchi pakistani fare il bagno nella bella piscina dell’albergo, oppure sorseggiare un tè sul prato accanto, gli ombrelloni colorati come sulle nostre spiagge. La vita all’Hotel Intercontinental non è spiacevole, in particolare all’ora dei pranzi le specialità pakistane attirano l’attenzione di tutti noi. C’è chi si butta su ogni tipo di vivanda o bevanda, io aspetto solo i primi effetti deleteri del latte non bollito, dello yoghurt (lassì), o di verdure lavate in cucine asiatiche… Per appiccicare i francobolli usiamo tova­glioli imbevuti d’acqua, il silenzio è rotto da Renato che chissà come ci racconta il suo viaggio in divisa militare da San Candido a Merano e ritorno, il tutto esposto al puzzo del tubo di scarico diesel. Anch’io accenno al mio «militare» alla Scuola Alpina di Moena.

Skardu, 1979

«Era facile che tu lì mettessi la firma» esclama Friedl «ad Aosta il colonnello Pistono voleva a tutti i costi che io mi fermassi e mettessi la firma».
«Ma tu lo lasciavi sperare?».
«Figurati, non l’ho mai detto, io volevo solo tornare a casa. Una volta eravamo in Grigna per un corso di roccia e mi hanno mandato perfino una donna in camera!».
«Davvero?» in coro Renato ed io.

«Ero andato al Nibbio, poi son salito in camera per riposare, qualcuno bussa, avanti! Entra una ragazza e mi abbraccia. Pensavano che io avessi problemi a trovare ragazze per via della lingua, allora poi l’italiano lo parlavo ancora meno. Ma io volevo arrampicare e basta, contavo i giorni per tornare a Brunico, altro che donne! Allora mi alzo dal letto e la butto fuori, vada via, vada via! Poi scendo le scale del rifugio, vado al bar, bevo cinque grappe di fila, poi altre cinque. Poi non volevano più darmene, allora ho dato uno scrollone al banco che tremava tutto, così ho avuto altri cinque grappini. Ormai ero ciucco tradito, non stavo più bene in piedi quando sono arrivati i capi, ma ero ancora più arrabbiato di prima e così gli ho gridato contro: “se credete così, siete proprio fuori strada!”».

Dassu, inizio della marcia a piedi

Ora dev’essere tempo di pranzo, Joachim è già accomodato dietro il lungo tavolo nostro e sfodera un perfetto inglese nell’ordinazione del suo pasto. Alla spicciolata tutti arrivano, il brusio è generale ma non è come alla sera quando alcuni si limitano ad ordinare le stesse cose degli altri perché il menù è scritto in inglese: tutti fanno onore ai piatti esposti al self-service. Terry è molto simpatico e il suo inglese è nitido: non mangia le parole e già porta con soddisfazione i vestiti impaccati appositamente per lui e per la sua taglia alquanto robusta. E’ maggiore dell’esercito, professione giudice militare, abitazione Quetta, nel Beluchistan: però i suoi nonni erano afghani e precisamente uzbeki. Ha un bellissimo sguardo fiero, nerissimi gli occhi e la folta barba ben curata. È con il suo aiuto e la sua garbata presenza che spesso la conversazione si svolge in inglese. Gli fa piacere vedere che non soltanto Reinhold e Ursula, suoi amici già dall’anno scorso, ma anch’io conosciamo cibi e piatti pakistani. La muraglia della lingua divide Ursula e me, una volta mi rimprovera che io sorrido poco, che prendo sempre tutto sul serio: ma in inglese ci è difficile esprimere queste finezze. È una ragazza dalle molte qualità, intelligenza, intuito, capacità di fiorire la vita di un attimo. Soffro ad avere difficoltà ad esprimermi con lei e di essere piuttosto orso. Si potrebbe quasi pensa­re che io sia timido, come se dentro di me sentissi di non meritare ancora quella vicinanza, quel contatto di sentimenti con la rappresen­tante visibile di quella donna invisibile che nel mio intimo ho ridotto all’elemosina: la mendicante, la repressa donna di servizio, appena le è possibile mi attacca, o non mi protegge, e scatena in me le immagini della più insistente delle lussurie, folle di donne in orgia controbilan­ciano quella donna meschina e costretta all’indigenza. Ecco, vedo Ursula che mi viene vicino e mi bacia dolcemente, Reinhold è qui e temo che urli, che non permetta, ma non succede. Il bacio è bello, tenero, sto per rispondere quando appaiono due denti da vampira e il bacio diventa una piccola tortura.

Dassu, inizio della marcia a piedi

Una grande stanza all’occidentale, le quindici sedie disposte ai lati con gran vuoto in centro, è lo scenario dell’invito a cena di Hassan Alì Raza, campione di squash, una specie di tennis non troppo diffuso da noi. È un amico di Terry molto simpatico e gentile che ci ha messo a disposizione la sua enorme Ford Ranch Wagon per i vari trasferimenti in Pindi ed Islamabad. Vive con la moglie, che ora è in America, e con il padre e la madre. La padrona di casa ci accoglie in sari con un magnifico sorriso: donna Habiba è ancora una bella donna, dalla fine educazione.

Il padre, Hassan Abdul Kalik, iraniano, generale in pensione, è più rigido ma ugualmente sembra orgoglioso della propria casa e di ricevere persone straniere così importanti. La conversazione non lan­gue, anche se si spezzetta in gruppi e le parole s’incrociano con lingue diverse attraverso il rettangolo della stanza arricchita da un pregiato tappeto moderno e da discrete stampe cinesi acquistate dal secondoge­nito, capitano Hassan Alì Ahmer, che ha avuto la fortuna di andare in Cina con la squadra di atletica leggera dell’esercito pakistano. Ogni tanto qualcuno della famiglia sparisce, di là la cena è in lavorazione e deve essere presentata a regola d’arte. Godo di quest’atmosfera tra l’impacciato, il cordiale ed il formale; alcuni miei compagni sono un po’ sulle spine, non hanno ancor ben capito se è un invito a cena o no e quindi si chiedono quando si masticherà. Mentre il primo giro di bibite analcoliche s’infittisce, ho uno scambio superficiale d’idee con Wilhelm che forse è stanco di parlare con il padrone di casa. Per la cena si cambia stanza, ciascuno si serve dalle portate riunite con bell’effetto su una tavola centrale per poi ritirarsi e sedersi ai lati della stanza. È complicato tenere in mano piatto, forchetta e nan, la buona focaccia di pane che non deve raffreddarsi troppo. Poco più in là si fa largo una televisione a forte volume che manda in onda un filmaccio americano: non pochi di noi la guardano, come falene ai lumi d’estate, e altrettanto interesse destano due bei fucili dell’800 ed il dessert, uno squisito khiir che viene servito quando ormai gli ospiti sono sparsi qua e là. Sono necessari due viaggi della Ford Ranch per riportarci tutti all’albergo, ma il fresco della notte è gradevole, domani Robert ed io partiremo per Skardu.

Shigar, 1979

Un problema solo nostro
Questi usi e costumi moriranno,
una nuova civiltà verrà e nuovi influssi.
Né rimarrà tra le donne l’uso del velo,
né i loro volti il velo coprirà.
In una nuova foggia le donne si mostreranno,
non tali ciocche nei capelli, non riccioli.
Col risveglio nazionale moriranno i vecchi principi,
con le statue dell’ovest una nuova Kaaba sorgerà.
Straniera ci diverrà la lingua,
nel parlar quotidiano entrerà il frasario dell’ovest.
Chi noterà tal cambiamento, chi s’attristerà?
In simil stato vivrà la nuova generazione.
O Akbar, perché di ciò t’addolori?
Vicino è il giorno in cui né tu né noi saremo più (Akbar Allahâbâdi, poeta Urdu, XIX Secolo)”.

16 maggio
Più volte abbiamo creduto che questo C-130 per oggi non spiccasse ,mai il volo, ma alla fine non mi sembrava reale il trionfo, dietro i finestrini opachi, della mole gigantesca del Nanga Parbat. Gli Hercu­les non sono esattamente aerei da ricognizione fotografica, sono sol­tanto macchine da trasporto pesante: così i giapponesi che sono con noi fanno fatica a scattare fotografie perché Robert ed io ci siamo accaparrati i posti migliori. Ho un vago malessere, mi sento un po’ debole con un inizio di diarrea. Robert l’ha beccata forte, per non parlare di Renato o addirittura di Wilhelm con 38,5 di febbre. Mi sforzo di non avere troppa paura dei malanni, anche se inevitabilmen­te finisco per chiedermi se starò bene o no. Ad ogni modo sono abbastanza calmo e lascio fare parecchio lavoro a Robert che sa l’ingle­se meglio di me ed ha avuto precisi incarichi da Reinhold, anche a causa delle sue precedenti esperienze di spedizione in questi posti. Per «calmo» voglio dire «in pace con me stesso», ma non sono del tutto soddisfatto. Abbiamo un incontro con il D.C. di Skardu, il prefetto locale, ed i suoi figli, uno ingegnere e l’altro studente: parliamo di portatori e di jeep, ma poi si accredita un buon rapporto tra noi, protetto da alcune buone tazze di tè, e finiamo addirittura a parlare del perché noi andiamo in montagna, escluso che ci si vada per danaro. Io affermo che è come un’arte, Robert dice che è bello creare la propria via.

«Ma perché non dove c’è altra gente, dove c’è vita? Perché in quel deserto?».
«Questa è un’altra cosa, purtroppo in spedizione si ha sempre fretta, non c’è tempo per tutto… anche a noi piace andare con la famiglia sui monti delle Alpi!».

Shigar, 1979

Leggo nei loro occhi un fondo d’incredulità e scorgo nel fondo di me di aver mentito, perché il quadro della bella famigliola in pic-nic, con un padre come me, sarebbe ben difficile da realizzare! Lasciato il villino del D.C., desidero vedere il bazar perché c’è una chiara luce limpida, con molto vento estremamente piacevole. Una piccola devia­zione sotto il Forte ed ecco le pieghe pigre di un Indo in magra, laggiù nella piana desertico-sabbiosa. Le montagne marroni dei dintor­ni si stagliano nette, ogni commerciante è rannicchiato nel suo sgabuz­zino-negozio, qualcuno fuma la pipa ad acqua in attesa di chiudere la giornata. Qualche donna di spalle è accucciata nelle piantagioni, tutti i portatori provenienti da altri villaggi hanno fretta di essere assunti e ci chiedono se siamo gli italiani del K2. Dopo un po’ mi permetto di dire a Robert di non rispondere di essere austriaco (intanto tutti capiscono australiano), se no facciamo casino e purtroppo abbiamo bisogno di almeno 120 di loro. Tutti ci fanno vedere i loro libretti bisunti e le loro carte firmate da altre spedizioni. Puzzano un po’ ma sono simpatici. Credo però che sappiano diventare cattivi tutte le volte che non ottengono quello che vogliono.

Chiacchierando con Robert mi lascio sfuggire una vecchia mia fantasia che vorrebbe l’Asia divisa in due parti, fantasia presa peraltro da un’idea di Fosco Maraini. Forse è perché si è sempre amici del vicino del proprio vicino, ma ho fatto molta meno fatica ad inserirmi, sia pure di poco, nel mondo buddista ed indù da noi così distante piuttosto che nell’ipocrisia, falsità e servilismo che ho creduto di scorgere in Pakistan ed Iran. Ora mi accorgo quanto il mio approccio a loro sia cambiato, quanto la loro compagnia mi sia gradita più di quattro anni fa; ho un vago desiderio di apprendere la loro lingua. Perché anche gli islamici, a noi così vicini come cultura e religione, sono parte di noi stessi ed è bello sentire amore anche per loro. Capire che se non ci risultano gradevoli il problema è soltanto nostro.

Ma questo amore universale, questo mettere fiori nei propri can­noni non mi piace, è da superficiali, da hippies decadenti: la mia natura esige talvolta di prendere le distanze e ogni tanto odiare tutti, maledizione anche alla conversazione in inglese con Robert, forse è meglio il silenzio di questa conca a 2300 metri.

La mia anima voleva il mio amore e ciò succedeva perché non è vero che gli alpinisti amino la montagna, almeno finché vorranno conquistare e vincere. Ascolterei volentieri l’autentica storia di quell’ascensione dalla voce di pietra della montagna stessa. Sappiamo che la voce c’è e che è solo questione di traduzione. E sono sempre il solito assetato di sapere.

C’è una pace invidiabile, sottolineata dal puntuale muezzin che con altoparlanti in piena distorsione asiatica richiama alla preghiera. Ci sono molti hunza qui a Skardu, capoluogo del Baltistan: sono in cerca di ingaggio, sono molto belli, uomini fieri, così diversi dai più mode­sti baltì. Uno di loro ci ha chiesto se sapevamo che nel 1954 gli ita­liani avevano «tutti hunza» come portatori d’alta quota, il famoso Mahdi, per esempio. «Adesso è “old”?» chiedo io.
«Yes, old».
«Happy?».
«Yes, happy».
«Troubles?».
«No, no troubles».
«Good».

Shigar, 1979

La scelta del posto
Andar vorrei, ora, là dove nessun Essere sia
dove nessuno mi parli, non abbia compagno la lingua.
Vorrei costruire una casa che porte non abbia né muri
nessun vicino vi sia, non abbia guardiani e custodi.
E se cadessi malato non vorrei nessuno a curarmi
e se dovessi morire non vorrei cantor di lamenti (Ghalib Asadu’llah, poeta Urdu, XIX Secolo)”.

18 e 19 maggio
Nella silenziosa stanza dell’Hotel Baltoro si svolge un piccolo dramma notturno: le ore mi sembrano lunghissime nell’impressione d’essere sveglio, ma sveglio non sono, come circondato da quattro o cinque casse della spedizione e so che ne devono arrivare delle altre. È ovvio che mi alzo assai di cattivo umore, senza salutare nessuno mi avvio a far colazione. Nella saletta ci attende Haji Ahmad Khan, «boss» della Karakorum Travels, un’onnipotente quanto confusionaria e rapa­ce organizzazione di jeep e trasporti vari. Mi sento meglio dopo il divertente colloquio. Il culmine della chiacchierata si ha quando il nostro sostiene che le miglia fino a Bon-la sono 47. Questa località si trova a tre miglia da Dassu, la nostra prima tappa del cammino verso il Baltoro. Fino a Dassu sarebbero così 50 miglia.

«Ogni anno» dice Robert ridendo «voi aumentate il mileage!». La risata è di tutti ora, anche se in seguito scopriamo che hanno ragione loro, a meno che l’opuscolo turistico non sia d’accordo con la Karakorum Travels!
«Quanti trattori e jeep volete? Dovete portare anche i portato­ri?».
«Sei trattori».
«No, avete bisogno di almeno 10 trattori».
«15 rupie al miglio X 50 = 750 rupie (circa lire 65000) l’uno. Voi farete un mucchio di soldi alle nostre spalle. Sei trattori sono abbastanza!».
«Yes sir, no problem. It is our responsability!».

Verso Dassu

Lì per lì ci sembra che siano come bambini, ti vorrebbero fregare quasi con innocenza e guai se te la prendi. Ci accorgeremo in seguito che non basteranno neppure dieci trattori. Così forte è il sospetto radicato in noi.

Quando Robert sente in un dialogo qualcosa che sa già (e magari tutti sanno già, anch’io) dice sempre «I know it», lo so. Ciò mi lascia una spiacevole impressione, forse perché una volta mi comportavo anch’io così? Non giudico bene questo tipo di interruzione, questo voler fare bella figura con chiunque. Sento che è meglio far finta di non sapere, sempre meravigliarsi con freschezza. Forse fa parte del gioco di vivere e alla fine la gente ti capisce meglio se non si sente presa di fronte, e tu stesso stai meglio con essa.

Il pomeriggio è caldo e provvido d’inviti. Il vento soffia moderato sulla distesa di sabbia, sassi scuri ed erbe scolorite ma profumate ed intense. Il verde è più in basso ed è stato tutto creato dall’uomo. Lontano, l’Indo pare immobile, un lungo lago a forma di serpente. Sopra di me sono grandi montagne di ghiaia e di rocce rossastre, quasi viola e macchiate di neve. Oltre il grande fiume montagne più alte con nevi e ghiacci perenni. Colpisce, sfiora, accarezza la mia pelle questo vento secco e mi entra dentro balsamico. Nell’aria vaga l’essenza di un’erba pallida che qui cresce un po’ ovunque: se ne calpesto un piccolo cespuglio l’odore si fa più forte e gradito. Ne metto un po’ in tasca mentre salgo su un dosso che sembra una morena. Sorrido a pensare che potrei metterne un po’ nelle calze, così da puzzare meno nei prossimi giorni di sudato cammino. Mi sdraio molle su un sasso piatto e bruciato, da sinistra insiste il vento mentre violente radiazioni ultraviolette colorano questa magnifica e silenziosa valle.

Mi fanno visita Carlos Castaneda e don Juan, proprio quando il primo, sollecitato dal secondo, doveva cercarsi, scegliersi il puesto, il posto. Il deserto favorisce la meditazione, ma non so su cosa meditare e finisco per pensare sempre alle stesse cose, finché non mi addormento. Dopo mi sento meglio, anche se fa più freddo, il sole è calato e le nuvole hanno invaso parzialmente il cielo. Ma quella mattina ero qualcosa di meno, anche se il cielo era superbo, e forse ora potevo sperare di essere di più, sereno e quieto. Non rimane che scendere tra quei filari di pioppi lontani e agitati dal vento, mentre un cavaliere gioca con il suo cavallo e lo fa avanzare di traverso con amore, prima di qua poi di là, un animale che freme, che scalpita ma ubbidisce. Cavaliere e cavallo fanno un’unità, i piedi miei sfonda­no la sabbia e se ne alza una leggera nuvoletta di polvere, forse solo nella Kali Gandaki era così.

Dassu, 1979

La sera dopo cena (riso in bianco, patate e piselli, chapati e tè verde) andiamo a far visita al capitano delle United Nations, Larss Elianssen, che già ieri ci aveva invitati. Gli fa molto piacere, si vede che è proprio contento. Forse si preparava ad affrontare un’altra serata solitaria. Svedese, sposato con figli, non vede l’ora di tornare a casa, questo lo si può facilmente capire. Credo che sia un po’ in soggezione nostra, non so perché. Si scusa spesso ed altrettanto spesso dice che «queste sono le sue idee personali» come a sottintendere che forse ha torto: insomma, da non capire che cosa ci sia per la quale scusarsi tanto. Ad ogni modo è simpatico. Afferma che qui nel nord del Kashmir non ci sono problemi di frontiera, né problemi per il gen. Zia, presidente del Pakistan. Questi sta lentamente riconducendo il paese alla stretta osservanza delle leggi del Corano: per chi ruba la prima volta c’è il taglio della mano sinistra, poi del piede sinistro, poi della mano destra (posto che uno senza un piede e senza una mano possa ancora rubare…). Altra punizione temutissima è la bastonatura. Non si sopravvive a più di trenta, e bastonano molto spesso. Siccome in tutto il Baltistan l’osservanza del Corano è rigorosa, ecco che tutti i capi religiosi sono per Zia e con loro tutto il popolo baltì. Invece nel sud del Kashmir ci sono parecchi incidenti. I gurka indiani (mercenari nepalesi) stanno appostati al confine ed ammazzano i contadini che senza saperlo oltrepassano il limite. Gli indiani usano i soldati indù e non certo i kashmiri musulmani per questo bel lavoro. Dal ’71 ad oggi almeno quaranta sono stati i morti, gli ultimi sono stati due bambini. A me interessa sapere se qualcuno vuol scendere lungo la valle del­l’Indo fino a Skardu, cosa gli potrebbe succedere? Non può, è tutto sorvegliato, anche sulle montagne vicine. Forse di notte, ma ti sparano. I gurka sono dei ragazzi non cattivi, ma hanno il grilletto facile… Io non mi fiderei. Teoricamente dovrebbero gridare e chiedere chi sei, ma di solito prima sparano e poi chiedono. Il confine non è una linea logica, è una cease fire line, del tutto irrazionale. Così sono state divise le famiglie. I pakistani permettono visite nel loro territorio delle famiglie spaccate in due, ma gli indiani sono più rigidi. Trentamila sono i soldati che sorvegliano da entrambe le parti questo tormentato «confine». Un contadino pakistano aveva una noce di cocco. Dagli indiani è stato deciso che quell’albero appartenesse a loro. Lui andava a prendersi ogni anno la frutta ed ogni volta veniva bastonato. Così fu deciso, dopo anni, che l’albero era indiano, che il contadino poteva prendersi le noci, salvo darne due canestri agli indiani. Altro partico­lare spassoso: gli indiani sparano ai maiali mentre i pakistani cercano di abbattere le vacche, sacre agli indù. Larss e Robert scuotono la testa, io penso al muro di Berlino ed ai fucili mitragliatori dei «vo­pos».

Il mattino dopo pioviggina, ma sentiamo ugualmente il rumore di un aereo. Poi, mentre Robert è al cesso, ne sentiamo un altro. Dice che è un elicottero. Nel tardo pomeriggio, macchine fotografiche a tracolla, ci rechiamo verso Sadpara, per vedere l’enorme masso errati­co con le sculture buddiste. Mi fa una strana impressione vedere questo splendido lavoro ‘di culto abbandonato in terra islamica, so­pravvissuto alla furia iconoclasta, testimone muto di tempi più fioren­ti. Proseguiamo il cammino fino alla piccola centrale elettrica che fornisce energia a tutto il paese. Si fa buio, non rimane che rientrare in albergo, unici clienti di un manager sornione, il sorridente Mohd Sharif Chugtahi.

Payu Peak 6610 m

Hassad no jails
Attenti dunque in qual modo ascoltate, perché a chi ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che crede di avere (Vangelo di S. Luca 8, 18)”.

20 maggio
Di buon’ora andiamo al Tourism Department: fuori nel cortile ci sono circa cinquecento uomini. Mr. Khalid coordina tutte le operazioni, che sono eseguite in parallelo con quelle dei giapponesi. È da quando ci aggiriamo per le vie di Skardu che i portatori ci fanno vedere i loro biglietti e le loro referenze. Un certo Hassad, di Sadpara, era già andato con Robert all’Hidden Peak e così lo prega di assumerlo anche questa volta come portatore di alta quota. Ieri mattina ci ha addirittu­ra offerto il tè in una bettola del bazar, e questo mi ha messo abbastanza a disagio. Una delle prime persone ingaggiate questa mat­tina è stato Gulam Nevi, figlio di Gulam Rasul, proprietario di un caratteristico negozio del bazar, il «K2 shop». Dà una buona fiducia al primo esame e così lo dichiariamo «sirdar», cioè capo dei portato­ri. Purtroppo questa scelta in seguito si rivela avventata: Gulam Nevi non si farà neppure vedere alla nostra partenza, probabilmente la nostra spedizione non è così facile da mungere, questo il padre di Gulam lo ha capito molto bene. Poi si parla di Hassad, mentre Mr. Khalid si accende, tossendo, l’ennesima sigaretta pakistana. Salta fuori che Hassad è un ladro, ha rubato a dei giapponesi: loro non ce lo consigliano. Intanto stiamo facendo dei bigliettini colorati, sopra scri­viamo «Italian K2 Expedition, Nr. …». Ne facciamo centoventi.

È da ieri che ripetiamo a Khalid che vogliamo 120 portatori e lui continua a dire 130. Nel frattempo ci parla dei giapponesi, che secon­do lui continuano a diminuire il numero dei portatori richiesti. Con velato disprezzo aggiunge che non sanno parlare inglese e che così si creano problemi da soli. Khalid invece spara un inglese velocissimo, pressoché incomprensibile e contaminato dall’urdu. Finiti i 120 bigliet­ti, usciamo. I poliziotti fanno fatica a dividere l’orda di baltì in gruppi per provenienza da villaggio. Ci vuole mezz’ora perché siano tutti accoccolati e silenziosi. Dopo altre formalità che non comprendiamo, la polizia comincia a prendere i nomi dai libretti e questi vengono trascritti su un registro. Il tempo passa, decido di andare ad imbucare una mia lettera, tanto la nostra presenza qui per ora è inutile. Quando sono di ritorno, ed è passato un bel po’ di tempo, segue una verifica nell’ufficio del capitano della polizia, che fuma Marlboro. Questi scrive, gli altri intorno stanno a guardare e suggeriscono. Se non fossimo parte della scena, sarebbe divertente, l’ufficio è colmo di fogli legati con lo spago e continuano a ripeterci dei «no problem, no problem» poco rassicuranti. Poi arriva Hassad, i pochi denti contra­stano con due occhi astuti: vuole perorare la sua causa. Perché non è stato assunto? Togliti il berretto, gli ringhia Khalid. Hai il libretto? E lui tira fuori da profonde tasche qualche foglio sgualcito. La scena ora è penosa, per me è sempre così. Poi cominciano a maltrattarlo, perché pare sia stato in galera.

Uli Biaho e Trango

Hassad si difende, sostiene che Robert vuole assumerlo, ma Robert non vuole. E così alla fine lo sbattono fuori della porta. Quando sembra che sia tutto a posto, usciamo tutti di fretta, ma poi continua a non succedere niente, perché si accorgono che hanno ingaggiato per noi 130 portatori. Devono quindi affibbiarne dieci a non so chi, forse a una delle tre spedizioni giapponesi. Intanto i baltì là seduti si sono tutti alzati, il pomeriggio va inoltrandosi e si vede che sono impazienti d’essere assunti, a 40-50 rupie al giorno più i viveri. Robert ed io andiamo a mangiare qualcosa nella Rest House con i giapponesi, assieme prendiamo bonariamente in giro i pakistani con i loro modi di dire e con le loro espressioni, per esempio acha, gi, bas, tike, no problem, just sitting there, please.

I giapponesi ridono spesso, l’allegria fa presto dimenticare la len­tezza delle operazioni d’ingaggio. In più basta pensare che solo tre anni fa non c’erano i libretti personali, i portatori si presentavano senza alcun documento di riconoscimento. Quando usciamo, l’altra squadra giapponese sta assumendo i suoi 40 «porters». A ciascuno è consegnato un cartellino ed è tastato il polso dal medico. Quando tocca a noi il sole picchia forte, il lavoro procede lento, ad uno ad uno sono chiamati quelli in lista, gradatamente il cerchio baltì si va strin­gendo attorno a noi, il caldo aumenta.

Robert scrive i nomi, io consegno loro i biglietti: … Muhammad Rasam, figlio di Haji Hassan, Shigar (villaggio), 34 (età); Iftikar Ali, figlio di Khalid Raman, Shigar, 32. Così per centoventi volte. Ogni tanto ci sono errori, si presentano due persone assieme, il biglietto viene ritirato a qualcuno che l’ha appena avuto per essere dato ad un altro. Ingaggiamo anche un portatore d’alta quota, Gulam Rasul. Per l’altro che abbiamo intenzione di assumere vedremo in seguito, perché ora siamo proprio stanchi. Ci siamo appena rilasciati sui soffici divani del nostro albergo: in quel momento entra Hassad. Subito incomincio a sentirmi a disagio, mentre Robert lo saluta e gli dice che è tutto finito.

«Hassad go K2».
«No, finished, sorry, you no book, book like this. Police said Hassad no».
«Hassad japanese member go, Hassad no go. Hassad go K2». «You police said stollen. Police said Hassad no good and jails many times!».
«No, no, Hassad no jails» e ci racconta a suo modo tutta la storia.
«No, no, sorry. Finished. Hans Schell coming for Gasherbrum 2, may be Hassad go Gasherbrum 2, tike?».
«Tike, sir, tike». «Salamaleitcum».
«Aleitcumsalam». E se ne va più speranzoso.
Robert mi confida: «Se mi avesse detto sì, ho rubato, ma please forget, l’avrei preso».
Mi sembra giusto. Rimane il fatto che ci ha offerto il tè. Ma così è e non possiamo cambiare una decisione grata alla dea «spedizione».

Great Tower of Trango 6278 m (a destra) e Torre di Trango (Nameless Tower) 6239 m

La verità è ciò che si vorrebbe che fosse
A voi è stato concesso di conoscere
i misteri del Regno di Dio; agli
altri invece per mezzo di parabole,
affinché guardando non vedano e
udendo non comprendano (Vangelo di S. Luca 8, 10)”.

21 e 22 maggio
Le donne che fuggono e si nascondono, leggere, fruscianti, sporche mi ricordano la mia mendicante, l’aspetto della mia anima più profonda e retriva, quella che, se appena può, mi attacca o non mi protegge. Possono solo fuggire alla mia vista, come insetti se si solleva la pietra che li nasconde. Dal sonno passano alla fuga, dalla fuga al sonno. Dietro al focolare che tengono sempre acceso, a respirare fumo e tisi, tengono calda la casa del padrone. E nulla può cambiare, non è neppure questione di dovere o di maschio padrone. $ semplicemente la loro vita. Si sveglieranno un giorno? Forse quel giorno ci svegliere­mo tutti. Ora mi vedono e fuggono e si coprono ridendo se sono tante, più di due.

Oggi siamo andati dal barbiere, con tutta calma, non abbiamo nulla da fare. I barbieri di tutto il mondo paesano si assomigliano. Qui mancano i calendari con le donnine nude, in compenso c’è l’immagine dell’avvocato Mohammad Ali Jinnah, ideatore e fondatore del «paese dei puri», il Pakistan. Il suo fiero cipiglio contrasta un po’ con gli specchi, arabe­schi e disegni calligrafici, in un’atmosfera non dissimile da quella di un barbiere siciliano. Per cinque rupie il padrone fa un buon massag­gio alla testa ed ai capelli, con energici colpi di dita a beneficio delle nostre cervici. Peccato che lo faccia con i capelli ancora sudici e cioè prima che ce li laviamo da soli. Mette due pezzi di legna in un boiler a serpentina e dopo cinque minuti di chiacchiere (Robert si ostina a dire che lui viene dall’Austria e gli altri sempre gli rispondono «oh, yes, Australia») il mio compagno va a lavarsi i capelli. Io sostengo la conversazione con il barbiere che adesso mi si è seduto vicino e mi chiede quanto costano «in my country» le mie adidas. Gli rispondo 20 rupie, che è molto al di sotto del vero, sapendo che così mi offrirà di comprarle. Difatti, puntuale, arriva la richiesta. Faccio fatica a convincerlo che mi servono per la marcia di avvicinamento e di ritorno. Allora le comprerà al mio ritorno. Al mio ritorno saranno «finished». Poi mi offre una K2. «I don’t smoke K2, I go K2; you smoke K2 and I go K2, tike?». E’ abbastanza divertente anche se vi­sto da lontano può sembrare un dialogo stupido, banale. Poi tocca a me. Il rubinetto è a trenta centimetri da terra, mi devo inginocchiare su un’asse di legno. L’acqua è calda. È spiacevole appoggiare la mano per terra, sul viscido di chissà quali lavaggi precedenti, in questo camerino buio e lercio; il padrone intanto sostiene con Robert che il suo è il più bel negozio di Skardu. Credo abbia ragione, perfino l’ufficio booking della PIA fa un effetto peggiore.

Fuori passa la gente, mentre con un asciugamano maleodorante mi massaggio i capelli. Solo maschi, è naturale: scorgo due religiosi, vestiti di nero e del severo orgoglio del loro abito clericale. Sono meno polverosi degli altri. Mi ricordo di uno svizzero, giovane, che incontrai a Dir, un villaggio pashtu a nord di Peshawar. Non voleva quasi più parlare con occidentali, immerso negli studi e nelle pratiche del sufi­smo, la mistica islamica.

Due uomini s’incontrano, s’abbracciano e si tengono per mano, vorrei fotografarli ma non sono pronto. Qui è molto comune questo atteggiamento fraterno, come pure il vezzo di tenere una rosa o un bocciolo di rosa dietro l’orecchio per giocarci ogni tanto e sentirne il delicato profumo. Mentre il fiore non mi ha mai dato fastidio, il contatto tra le loro mani mi urtava. Ma ora sento che non c’è nulla di male, al limite mi folgora l’idea di un bacio con uno di loro. Ma il senso di repulsione è altrettanto rapido e scaccia l’idea balzana. Ma sono curioso, curioso come quelle ragazze che fuggono e che, nascoste, ti spiano.

Great Tower of Trango 6278 m (a sinistra) e Torre di Trango (Nameless Tower) 6239 m

Con la posta di servizio United Nations troviamo due lattine di birra: alla sera andiamo a trovare Larss ancora, sempre così gentile con noi. L’indomani fortunatamente Larss deve andare a ricevere un suo collega all’aeroporto: ne approfittiamo per un passaggio con la jeep. Purtroppo continuano a cancellare i voli, trascorriamo la mattina vicino ad un laghetto, dove ci sono alcuni massi sui quali si può arrampicare. Ma altrettanto mi piace osservare questa gente come parla, i tratti in comune con gli altri asiatici. Ci sono dei gesti e dei moti facciali abbastanza fissi ma interpretati in maniera diversa da ogni individuo. Qualche volta ricordano i bambini, con le stesse espressioni di furbizia, d’incoscienza e di collegamento tra superiore e subalterno. Gli stracci sono onnipresenti, con essi puliscono tutto e dopo lucidano. Le sigarette sono fumate quale strumento per dimo­strare a se stessi ed agli altri che si è grandi, mentre la gente povera le fuma realmente per vizio. Devo essere indulgente con quel loro ripete­re le stesse cose tante volte, come a non essere sicuri di quel che si dice o di ciò che si ascolta. Forse solo così può valere realmente la parola data? Forse solo così si può dare meno importanza alle parole, che noi e specialmente io consideriamo troppo, spesso senza guardare in faccia colui al quale sono rivolte. Pretendiamo che la parola abbia un valore universale ed «oggettivo», ma qui ti dimostrano (e lo pagano con un cattivo giudizio da parte nostra) che non è vero, che i fatti contano poco fino a che sono raccontati, che tutto è soggettivo e lo è in quel momento e che la parola è solo una parte di ciò che l’uomo può esprimere e produrre a consumo dell’interlocutore. La verità? È ciò che si vorrebbe che fosse. Ma questo è così anche per noi, che mascheriamo con l’oggettività ciò che invece è solo parziale.

Muztagh Tower 7276 m

Colonialismo di oggi
They made us many promises, more than I can remember, but they never kept but one; they promised to take our land, and they took it – Ci fecero molte promesse, più di quante io possa ricordarne; ma ne mantennero una sola. Promisero di prendersi la nostra terra e lo fecero (Anonimo Pellerossa)”.

23 maggio
Ogni giorno passato a Skardu potrebbe essere un invito alla cattiveria. Le ragioni sono evidenti, non riusciamo più a controllarci in una situazione che spesso ha del ridicolo ma nella quale ci riesce difficile anche sorridere. A volte ci sembra che i pakistani facciano il possibile per renderci furiosi, finora però hanno appena sfiorato l’obiettivo. Ciò che dicono quando un volo è «standing by» o «turned back» o «cancelled» ci suona sempre litanioso, falso e cortese, ma comunque sempre limpido esempio di come dovremmo noi vedere le cose. Per compiacenza poi terminano sempre con un «domani certamente i vostri amici saranno qui, inchallah (se Dio vuole)». E a quel punto ci sentiamo vicini allo scoppio: tento di ribattere con un ironico «Yes, surely, inchallah», ma il risultato è penoso, perché dietro ad una pungente affermazione non dovrebbe esserci furia repressa se si vuole veramente ferire l’interlocutore. E questa è proprio la situazione che ci tende i nervi, per la quale dovremmo invece essere il più rilassati possibile. Dove dovrei dimostrare un po’ di cattiveria, per esempio nel rapporto con i pakistani «inferiori», «subalterni», c’è sempre l’ostacolo della timidezza mascherata di bontà.

Masherbrum I 7821 m

Oggi, a fine pranzo, si presenta un giovane che, silenziosamente, senza neppure il «good morning» o il «Salamaleitcum», ci tende la mano. Poi estrae il libretto di portatore. Diamo un’occhiata, ma su questo ci sono solo fogli bianchi. Cercando le parole più semplici, gli chiedo se vuol fare il portatore per noi.

«No, high altitude porter» risponde. Sembra un giovane molto a modo, deve aver studiato. Robert lo guarda negli occhi poi, puntan­doglieli con un dito, gli chiede: «Good?».
«Yes, good» è la risposta.
«Let me see. Mi pare che abbia un occhio di vetro!». Ma il sospetto risulta infondato.
«Sai l’inglese?».
«Yes».

Poi però ad ogni domanda risponde sempre yes. Con l’aiuto del manager dell’albergo la conversazione riesce a ravvivarsi un po’. Ve­niamo a sapere che ha fatto il portatore d’alta quota nella spedizione degli americani al K2, che è arrivato fino al quarto campo, quindi molto in alto. Come mai «no papers»? Non ci sa rispondere, o non vuole. Qualcosa non ci convince, è molto nervoso e vedo che muove su e giù la gamba sinistra nascosta dal tavolo. Per loro dev’essere molto importante essere ingaggiati per l’alta quota, a giudicare dal nervosismo e dall’insistenza con i quali questo impiego è richiesto. Non è il primo, dopo Hassad, che si comporta così. Però a noi serve soltanto un uomo, perché l’altro l’abbiamo già assunto. E questi de­v’essere non solo giovane, ma esperto, forte, tecnicamente preparato, possibilmente hunza, perché gli hunza sono più puliti dei baltì e danno più garanzie per una cucina e per un lavaggio di stoviglie decenti, quando al campo base nessuno avrà voglia di aiutarlo o sorvegliarlo. Inoltre deve conoscere qualche parola d’inglese, almeno da capirci sulle cose essenziali: non sempre l’ufficiale di collegamento sarà di­sponibile o presente per fare da interprete. Così iniziamo un lungo esame al povero Gulam Nevi che si sente chiedere chi era il capo-spe­dizione americano, che via hanno seguito, se c’erano donne come membri, dov’era più pericoloso andare con il carico e quanti Saab hanno raggiunto la vetta. Alla prima domanda non sa rispondere, sfoglia il libretto ma il nome di Whittaker non è scritto; alla seconda, pur senza riferire esattamente «north east ridge», risponde correttamente, indicando che la via si svolgeva sulla destra; alla terza con sicurezza dice «two ladies» , il che è vero. Si può quindi con soddi­sfazione affermare che non sta cercando di imbrogliarci del tutto. Almeno deve aver fatto il portatore normale. Mi porge un biglietto di presentazione firmato da Khalid, dove è scritto che Gulam potrebbe essere un uomo fidato per noi. Alla fine dice che è diplomato F.A.

Gasherbrum IV 7925 m

Chiediamo al manager che cosa vuol dire F.A., ma con grandi meraviglie ci risponde che è un titolo di scuola, corrispondente ad uno dei livelli americani. Non ci vergogniamo di far capire che non sap­piamo chi sono gli F.A. e in più lasciamo comprendere che non c’importa nulla. Qui infatti la mia cattiveria dev’essere estratta o per lo meno dev’essere lasciata andare. Come è possibile che nessuno qui abbia ancora capito che fare il portatore d’alta quota non è uno scherzo che qualunque studentello possa affrontare? Come è possibile questa «impudenza», visto che ora l’esame sta andando male e sem­pre più ci convinciamo che questo ragazzo neppure con i binocoli ha visto il campo 4? Egli afferma che fino al campo 2 si andava bene senza corda, il che può anche assomigliare al vero (dovrebbe essere campo 1), poi era difficile e pericoloso. Il tutto riuscivamo a sapere per traduzione, quindi con molta lentezza.

Chogolisa 7665 m

Difficile e pericoloso perché? Perché c’erano i crepacci. A quel punto la convinzione che per noi Gulam sia perduto è netta, poiché dal campo 2 al campo 4 è solo una serie di creste affilate, con cornici. All’ultima domanda, quanti raggiunsero la vetta, non sa proprio ri­spondere. Il colloquio è finito, gli facciamo dire che non crediamo che sia stato così in alto (anzi, questo lo dice Robert, che ha meno problemi di me), che pretendiamo una conoscenza migliore dell’ingle­se. Concludo io, dicendo che se vuole può aspettare, noi dobbiamo esaminare prima altre richieste.

Da come accoglie queste conclusioni si rivela quanto gli «educa­ted» siano in realtà confusi dal cozzo di due culture così diverse. Non riesce ad accettare di essere stato escluso: per colmo corona il suo insuccesso dicendo la frase inglese che meglio ha imparato: «This country is very poor». Sbotto dicendo «You want to be poor».

Non sono per nulla entusiasta del mio comportamento. Avrei dovuto essere più estroverso, rozzo e franco. Avrei dovuto soffrire meno, dentro di me non avrei dovuto patire per lui. Si è creata una tensione tale che tremavo all’idea che Robert potesse essere più bruta­le del dovuto, anche se condividevo con precisione tutto ciò che lui diceva. Ancora una volta ho perso, l’occasione offertami dal diavolo ora è svanita. Ci sarà una prossima volta, verranno i tempi del disgelo? Non si tratta di essere più colonialisti di quanto siamo: si tratta di esserlo sapendo di esserlo. Finora invece lo sono stato cer­cando di non esserlo, una contraddizione catastrofica per entrambe le parti. Avrei potuto forse evitare l’acrimonia e la stizza dell’ultima mia affermazione sulla povertà di questo paese, sostituendole con una fermezza molto più sostanziale ed efficace.

Il versante orientale del K2 dai pressi della Sella dei Venti

Ugualmente il giorno dopo, quando incontriamo per strada Hassad che, trionfante, ci sbandiera il suo libretto nuovo di zecca. In qualche maniera deve aver chiarito le sue posizioni penali ed ora è stato riabilitato. Questo mi fa molto piacere e così Robert gli propone, dopo avergli detto, guardando la foto, «nice looking» e dopo averlo quindi piacevolmente compiaciuto (Robert in questo è molto bravo), gli propone di venire da noi quando ci sarà l’adunata dei portatori: un posto per lui lo troveremo di sicuro, non tutti avranno avuto la pazienza e la possibilità di aspettare. Ma non c’è un gran sorriso sul volto di Hassad. Comprendiamo che lui andrà con i giapponesi come portatore d’alta quota. In quel momento intervengo, sostenuto da Robert, e gli dico «OK, go with japanese as high altitude porter, OK?». E dicendo questo già accenno ad andarmene, il colloquio è finito. Questa volta acrimonia e stizza sono state inferiori ma sempre presenti, sempre di disturbo nei miei rapporti umani. Se ci penso a lungo, mi viene quasi da piangere.

Continua con https://gognablog.sherpa-gate.com/la-giustizia-del-k2-2/

15
La giustizia del K2 – 1 ultima modifica: 2021-10-08T05:42:00+02:00 da GognaBlog

15 pensieri su “La giustizia del K2 – 1”

  1. Bellissimo articolo, attendo il seguito.
    Mi è piaciuta molto questa narrazione introspettiva che difficilmente si ritrova in altri. Complimenti ad Alessandro per aver riportato le sue impressioni. Anche le fotografie sono molto belle. Grazie

  2.    Osservando foto   con Casarotto e manifestini di spedizione, vien da chiedermi: che fine  ha fatto la FILA in settore alpinismo?  allora  si  risparmiava un anno per comprarsi le giacche  a cerniere laterali e doppio cursore  e pure bottoni a pressione(adesso quasi scomparsi per risparmiare qualche centesimo nei costi di produzione ma molto utili sul vero campo, specie in caso di inceppamento  e sgranamento zip .non in piazza centrale al bar)pagamento solo in contanti !   Poi ci si ritrovava quasi tutti marchiati uguale, almeno con colori diversi   .   Il web ci rimanda    a            https://www.filaskates.com/chisiamo.html  (boni per allenamento presciistico, gestita nel trevigiano distretto scarponi e sport, fabbricati in ..???.)oppure a https://www.fila.de/. Scomparsa pure la concorrenziale Samas ma risorta come la Fenice in altri settori che non c’entrano https://www.google.com/search?channel=trow5&client=firefox-b-d&q=samas (boh??)
    solo reperto vintage  in prima fotohttps://www.youtube.com/watch?v=-bvrmqMtyL0
     a proposito dei 1500 caratteri,PRIMA di spedire mi faccio una passata col COPIA, caso mai me lo rifiuti , reincollo e riduco e ricopio e rispedisco finche’il testo si smagra..

  3. Un viaggio dentro il viaggio una bella avventura ai raggi X introspettiva e saggia senza sconti…verso l’ io occidentale che vorremmo estraneo nella purezza della nostra esperienza emotiva nei monti.
    Non fateci attendere troppo il seguito … 

  4. 2 –  Al ritorno Incontrammo LINO LACEDELLI, con un cappello di paglia da gondoliere. 
    N.B. Ho dovuto eliminare questa frase perchè superavo i 1500 caratteri

  5. Articolo affascinante, appassionante, che mi ha fatto rivivere il mese di giugno 2004 trascorso sul BALTORO, nella ricorrenza del 50esimo anniversario della conquista del K 2.Due erano le spedizioni: K2 2004 – 50 anni dopo” decisa e programmata dal Comitato Ev-K²-CNR, da Agostino Da Polenza – e “K2 – 1954-2004” degli Scoiattoli di Cortina. Arrivarono in vetta cinque alpinisti della spedizione “K2 2004 – 50 anni dopo” (senza l’utilizzo di bombole di ossigeno) e 6 della spedizione degli Scoiattoli di Cortina (tutti in vetta con uso di bombole di ossigeno). Ho letto l’articolo con molta nostalgia e concentrazione, gustando le foto che mi hanno permesso di rivivere il percorso. La fortuna è stata che a spiegarci le montagne, c’era Kurt Diemberger. Il primo giorno, partiti da ASKOLE, Kurt si fermò vicino una roccia … perché aveva… IL CACOTTO… Un medico della nostra spedizione, chiaramente lo curò e tutto andò bene. KURT aveva un baltì personale che lo accompagnava con la tenda e zaino. DORMI’ SEMPRE SOTTO LE STELLE… PERCHE’ IL BALTI’ PUZZAVA DI CAPRA! Ho goduto nel vedere le foto delle montagne, ricordando i momenti di calma, riflessione, la gioia ed il pianto al campo base. Altra fortuna che oltre a KURT, c’erano le DUE SPEDIZIONI ITALIANE … COMPETITIVE? Ogni sera, dai due accampamenti, sentivamo canti e vociare degli alpinisti, una gioia. Poi, i tanti episodi narrati nell’articolo che, mi hanno fatto ricordare tutto il viaggio. Per esempio, Le giovani pakistane vestite completamente e con solo gli occhi fuori. Come ci vedevano, fuggivano, ridendo, ma c’erano anche ragazze… civettuole, che fugacemente si facevano vedere dalla finestra.
     

  6.  Ricito Craig  Storti:Monte  Everest  ed Newton  Copton..i casini per esploratori in quelle zone ci sono sempre stati , agli inizi  sia arrivava fino a  massacri o esecuzioni di  fotografi e geometri considerati spie e tra i piu’oltranzisti c’erano i monaci.Non si ammettevano spargimenti di sangue, infatti cucivano dentro pelli di yak i condannati e scaraventavano il tutto in torrenti impetuosi. Si vede che col tempo hanno pensato fosse meglio scucire dollari e regali e mance ad ogni passaggio burocratico e hanno fatto bene. Racconto scritto in modo interessante con parecchi risvolti di colore..il passaggio dalla colazione alla tyrolese a piatti locali etnici deve essere stato una iniziazione. Una curiosità: le macchine per mettere sottovuoto in busta prosciutto, salmone ed altro ..erano ancora da entrare nell’uso comune?https://www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1870/la_mortadella_in_scatola

  7. Racconto molto bello.
    In adolescenza avevo il manifesto della spedizione; mi dava la carica per le mie prime escursioni solitarie. Sognavo di parteciparvi 🙂

  8. Alla stazione di Frosinone non c’erano peni ma si stava benone. Leggendo  attentamente il De Bello Gallico scopro che c’era sfruttamento e coglionalismo anche all’ora, inteso per qualche ora ma non sempre.Clessidre docet 

  9. In un cesso  ( uno dei soli due a disposizione di centinaia di studenti)  della facolta’ di Giurisprudenza a Padova, c’era una vignetta  schematica a pennarello raffigurante un catino e dentro immerso un ….pene isolato dal resto.. (   titolo “questo NON  e’ un bagno penale…non inventate e studiate bene!”)
    Sto leggendo di Craig  Storti:Monte  Everest  ed Newton  Copton. Sembrava solo alpinismo ed invece era colonialismo.

  10. Il manifesto della spedizione riporta il tracciato della via Magic Line. Come si vede, nelle intenzioni di Messner essa avrebbe dovuto percorrere dapprima la cresta SSO, poi traversare a destra sulla parete S e proseguire per questa, con uscita nel tratto terminale della via normale (Sperone degli Abruzzi).
    La cresta SSO fu salita in modo integrale nel 1986 dai polacchi.
     
    A volte si confondono le due linee: cresta SSO e Magic Line. Quest’ultima non è mai esistita, se non nei progetti di Messner.

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