La giustizia del K2 – 4
Metadiario – 86 – La giustizia del K2 – 4 (AG 1979-007)
Il distacco
«Allora il dio della Legge così dice: “Se questo che dici è vero, tu hai spinto la mente sagace ben addentro nella comprensione delle cause e del frutto delle opere buone e delle cattive. Ma tu appartieni alla schiatta umana, che è mendace; io interrogherò le specchio del Karma ed esso sicuro risponderà; quanto ti mostrerà lo specchio, tu guarda, o figlio di nobile famiglia. Questo specchio del Karma che illumina il mondo delle apparenze è più splendente dell’occhio di Colui che conosce i tre tempi: esso rivela l’aspetto delle opere buone e cattive. Tutto ciò che tu hai fatto di bene o di male nel mondo degli uomini apparirà qui ora manifesto. Qualunque cosa falsa o ingannevole che tu abbia fatto, ora tu guarda, guarda in questo specchio” (Il libro tibetano dei morti – Bardo Tödröl Chenmo), Libro Quarto».
8 luglio
Rosalì ci porta il tè alle 8 di mattina, come al solito. Ho ancora sonno ed è solo sorseggiando il caldo che posso dire a Renato «Oggi è l’8 luglio. Sono esattamente undici anni che ho salito da solo lo Sperone Walker».
La sua reazione è più viva del previsto. Con un sorriso molto aperto mi tende la mano. Reinhold e Michel erano partiti alle 5 di mattina con Gulam Mahdi e Gulam Rasul. All’ultimo momento decidono di non mettere gli scarponi, farseli portare dai due portatori e indossare le Adidas sul ghiacciaio e sul macereto, fino al campo I. Terry e Joachim si erano alzati por salutare i due che partivano. Terry li fotografa all’ultimo momento, sembra che dopo Joachim quasi esigesse quel film, per questioni “storiche”. Ma non so se Terry acconsentirà e comunque non prima che tutto sia finito bene e soprattutto non prima di aver ricevuto da Reinhold l’assicurazione che gli verrà reso. Domani toccherà a Renato e a me, ma non vedo bene il momento della partenza: vedo molto lontana la cima e ancora me ne starei in tenda. Questo sta diventando un grosso vizio. Anche Renato non sembra in ottima forma, non mi sembra che il suo turno lo trovi entusiasta. Eppure ci prepariamo, regolo i ramponi sui ghettoni, seleziono il materiale fotografico, metto nello zaino le ultime medicine, ad esempio due o tre pastiglie di Essen (digestivo) e l’Ansiolin, un leggero sonnifero. Tutto è pronto, manca l’impazienza. Il tempo è perfetto, sembra il giorno ideale per il distacco.
Il vento del nord
“Sono stato un guerriero
ora è tutto finito.
Sono tempi duri
per me (Toro Seduto)”.
9 luglio
Sul ghiacciaio Gulam Mahdi sta male, spesso si ferma e si ritira dietro ad un blocco di ghiaccio. Durante una di queste soste Rosalì si allontana per poco, si arrampica su una roccia, coglie un fiore e me lo porge. Lo pongo nella piega del berretto, è un po’ profumato questo fiore dei 5300 metri e ha un bel colore violetto. Al Campo I giapponese Gulam si accascia definitivamente. Lo copriamo con dei fogli di cartone abbandonato dai giapponesi, gli promettiamo che Rosalì tornerà presto e lo accompagnerà al campo base. Abbiamo deciso infatti che questi ci porterà uno zaino fino al deposito gas (5700 metri); l’altro lo porterò io. E così avviene: Rosalì mi precede lungo tutto il macereto e, arrivato al deposito, scende subito. Mentre tolgo le Adidas per indossare gli scarponi, dal basso Renato mi urla che non sale, che scende al Campo Base.
«Perché?».
«Non riesco neppure a coordinare i movimenti!».
Siamo troppo distanti per perderci in chiacchiere. Quella è la sua decisione. Proseguirò da solo e aspetterò al campo I Robert e Friedl. La salita non mi sembra lunga, nonostante ora lo zaino pesi parecchio e in breve verso le 8.30 sono al campo. La giornata trascorre lenta, assaporo il grande spazio a mia disposizione, ci sono addirittura quattro sacchi piuma. Tra una bibita e l’altra sonnecchio, tra un collegamento radio e l’altro esco e sorveglio il tempo. Spero che sopraggiunga qualche sogno, così avrò da meditare sulle notizie ultime dal mio interno. Ma nulla succede. Nel frattempo Reinhold e Michel hanno raggiunto il campo II e al campo base ci sono grosse novità. È arrivato il primo contingente della spedizione francese che ha la stessa meta che in precedenza avevamo noi, la Magic Line. Fortissimi sono gli scalatori che la compongono, a cominciare dal capo spedizione Bernard Mellet, dal vice Yannick Seigneur e continuando con Yvan Ghirardini, Patrick Cordier, Jean-Marc Boivin, Jean-Claude Mosca, Nano Coudray, Dominique Marchal, Xavier Fargeas, Marc Gally, Pierre Beghin, Thierry Leroy, Maurice Barrard. La crema dell’alpinismo francese. C’è anche una équipe d’appoggio tecnico, altre cinque persone : medico, cineasti e fotografo.
Con loro è arrivata Kathi Schauer, moglie di Robert: ha percorso il Baltoro assieme alla spedizione austriaca al Gasherbrum II e poi si è aggregata ai francesi per l’ultimo giorno. Ha portato posta per tutti, anche per me: riesco a capire per radio che una lettera è di mio padre e l’altra è di mia moglie. Sembra che quest’ultima progetti di venire in Pakistan e realizzare la sua vecchia idea di visitare le valli a nord di Hunza. Da sola forse? Mi raccomando che l’indomani portino su le due lettere, così potrò avere qualche notizia. Nella notte si alza un forte vento di settentrione, ma ormai non temo più che la tenda si strappi. Spesso però mi sveglio di soprassalto perché tutto si agita e ribolle attorno a me. La sera per radio ho scambiato qualche parola con Renato: non sembra molto abbattuto, ma penso che la realtà sia diversa. Mi sento molto tranquillo, ma sono questa volta impaziente di iniziare la vera avventura. Forse è il vento del nord a sussurrarmi o a gridarmi di avere fiducia?
È proprio vero che voglio?
“Spesso esce da un grande palazzo chi si è annoiato di stare in casa, ma poi presto torna indietro, perché si accorge che fuori non sta affatto meglio che in casa. E corre aizzando con furia i cavalli, sferzandoli come se la casa fosse in fiamme; per poi sbadigliare appena varcata la soglia e mettersi a dormire stanco, cercando di dimenticare oppure affrettarsi per tornare in città. Così ognuno cerca sempre di fuggire se stesso, al quale naturalmente non può sfuggire, e controvoglia rimane attaccato a se stesso e si odia poiché, malato, non conosce la causa della sua malattia. Se la si conoscesse bene, tutti si sforzerebbero, abbandonato ogni altro affare, di studiare anzitutto la natura delle cose: infatti non si tratta di un’ora sola ma di tutta un’eternità nella quale gli uomini dovranno trascorrere ogni età, anche il tempo dopo la morte (Lucrezio, De rerum natura, III, 1060-1075)”.
10 luglio
Sono le 7.25 quando uno sbuffare mi avverte che sta arrivando qualcuno: è Friedl. Mezz’ora dopo anche Robert sta facendo colazione assieme a noi. Nessuno dei due si è ricordato di portarmi le lettere. A fatica mi trattengo, mi sfugge un «I suspected it». Più tardi mi risolvo a chiedere a Renato di leggere la lettera di mia moglie per radio. Sarebbe stato bello che mi arrabbiassi un poco, ma prima io penso sempre a tutte le scusanti possibili e così finisce che trattengo sempre ciò che dovrebbe essere espresso per il bene di tutti. Sono dell’opinione che le dimenticanze in genere non avvengono mai a caso: mi perdo a rimuginare tra me e me che cosa mai potrebbe indurre Robert e Friedl a farmi un dispetto, e così perdo contatto con il reale, cioè con i diretti interessati e i rapporti umani che ho con loro. Se continuo così tra qualche anno sarò ridotto ad essere il carceriere di me stesso, devo imparare che sorveglianza di sé non deve significare essere cani mastini con sé. Ma quante cose so senza viverle!
La vita a tre è più piacevole di quella a due, anche se le comodità sono inferiori. Si parla di più, i motivi e gli spunti per una bella risata sono più frequenti. Mi sforzo di godere di questa permanenza al campo I, in previsione di giorni e notti peggiori. Sono emozionato dell’avventura, ma vedo Robert e Friedl molto più scalpitanti di me, più impazienti di viverla. Io mi limito a stare quieto nel mio sacco piuma, far da bere, da mangiare, senza pensare troppo al domani. Reinhold e Michel sono al campo III, il tempo è sempre bello, senza sospetti di peggioramento. Vorrei incolpare il mio destino, che è quello di aver paura della montagna e nello stesso tempo di temere di essere debole; non sono capace di vivere una vita normalmente quotidiana pur vivendo questo mondo di gigantesche montagne come una città di esseri terribili e ghiacciati, pronti a ghermire la mia fragile esistenza. Credo davvero alla bellezza, alla grandiosità, all’avventura? Vivo realmente ciò che di più straordinariamente bello si può dire della montagna e dell’alpinismo? O non è vero piuttosto che questo è un vivaio di streghe, d’incubi, di morte? O magari un’allucinante condanna, un inferno mascherato? È proprio vero che voglio salire la cima del K2? Magari non è questo il metodo migliore per salire sulla vetta di se stessi, perché se arriverò lassù non so se avrò ancora l’energia di stampare in positivo la pellicola in negativo del mondo ai miei piedi.
E’ proprio vero che voglio bene ai miei compagni? Capita solo a me di fantasticare sulla morte tragica degli altri e sul ritorno glorioso di me stesso? Sono forse pazzo? Ma chi sono questi corpi che respirano al mio fianco, che mi tolgono spazio?
Il tramonto più bello
“… ho paura della morte. Non di quello che ci si immagina della morte, perché questa paura è essa stessa immaginaria… Ma di quella morte che subisco ad ogni istante, morte; di quella voce che, dal fondo della mia infanzia, anche a me chiede: «Cosa sono?» e che tutto, in noi e attorno a noi, sembra essere disposto a soffocare, ancora e sempre. Quando questa voce non parla – e non parla spesso! – sono una carcassa vuota, un cadavere agitato. Ho paura che un giorno essa taccia per sempre; o che si svegli troppo tardi… (René Daumal, Il Monte Analogo, Cap. 1)”.
11 luglio
La giornata di oggi è essenziale e risolutiva per la spedizione. Reinhold e Michel partono dal campo III con una tendina, due sacchi piuma, un fornello e pochi viveri. Alle 12 sono a 7800 metri, alle 13 hanno superato i 7900 e si fermano. Il campo IV è stabilito dove i giapponesi avevano posto il loro quinto, un centinaio di metri sotto a dove Walter Bonatti aveva bivaccato senza tenda con il portatore Mahdi, meno di duecento metri sotto il campo IX di Compagnoni e Lacedelli, in quella memorabile notte di fine luglio del 1954. Nel frattempo noi ci spostiamo al campo II. Conosciamo bene il terreno, si tratta solo di salire stancandoci il meno possibile. Anche se siamo abbastanza carichi, dopo tre ore e un quarto alziamo la cerniera della tendina al campo II. Non siamo stanchi, ogni ora che passa è un incitamento al proseguire. Mi sento bene e il pomeriggio trascorre in allegria: mi sbizzarrisco a creare sempre nuove minestre di pesce e verdure giapponesi, i minuti non contano, le ore passano veloci. Non dev’essere altrettanto per quelli del campo IV, ma non ci pensiamo molto. E se mi succede di vedere per un momento la loro situazione in un’immaginaria fotografia, la giudico normale e con ottimismo l’immagine sfugge lentamente senza dar luogo ad affannosi «e quando ci sarò io?». Friedl questa notte dormirà nella tendina di gore-tex: si recherà là al tramonto, quando in questa tenda bar e ristorante avranno chiuso: la chiusura avviene verso le 18.30, un po’ prestino per locali cittadini, ma abituale per il Karakorum. Quando con le ultime luci esco per orinare, un piede dentro la tenda e l’altro su una bombola di gas giapponese a sostegno della tenda stessa, osservo con meraviglia il tramonto più bello, la roccaforte cupa del Masherbrum spacca in due l’alone rossastro degli ultimi raggi di sole, il Chogolisa è la carta assorbente di un bagno di sangue lontano ed io mi perdo nelle gelide carezze di questa mostruosità vivente, benigna e sfolgorante, nella quale tutto è già stato scritto.
Illusi ed esclusi
“Nasce l’uomo a fatica
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato (Giacomo Leopardi, Canto Notturno, 39-44)”.
12 luglio
Alle 7.15 ci mettiamo in moto e ci attacchiamo alla prima corda fissa. Alle nove oltrepassiamo il mio punto massimo, cioè i settemila metri di qualche giorno fa. In seguito l’arrampicata mantiene il suo livello di esposizione e di difficoltà. Non sempre le corde sono perfette, qualche tratto è un po’ pericoloso. Alle 11.15 oltrepasso la cornice, dopo una ultima ripida parete di ghiaccio, sperando di vedere al di là qualcosa di diverso del consueto e selvaggio panorama al quale, da un centinaio di metri, si è aggiunto il lontano ma imponente Nanga Parbat. È necessario ancora un quarto d’ora per raggiungere la tenda e per vedere lo Skia Kangri e un’ulteriore porzione di Tibet. Siamo saliti molto bene e veloci, sappiamo che Renato è salito da solo al campo I: è sua intenzione vedere fino a che quota può salire, ma tutti noi sospettiamo un tentativo solitario. Già la sera del 10 c’era stata una specie di processo a quest’intenzione e tutti noi avevamo espresso una concorde riprovazione. Chi desidera scalare da solo una cima deve prendersi il permesso da solo e fare tutto da solo, senza dividere responsabilità con nessuno. Ma non è questa la più importante preoccupazione e verso le 15 aumenta la nostra curiosità; non sappiamo quanto sono saliti i “summiter”, quanto gli manca. Al campo base la radio è sempre accesa, ogni tanto chiediamo notizie, nel timore di aver perduto la comunicazione risolutiva. Alle 17.10 sentiamo Michel che parla, eccitato manda i suoi saluti allo Spiegel e chiede che la redazione mandi i fiori a sua moglie. Seguono altre concitate conversazioni, ma sono troppo gracchianti, non le seguo più. Penso solo alla loro discesa, speriamo che tutto si concluda bene. Per un attimo faccio l’esperimento di immaginare un mortale incidente a loro: un esperimento dettatomi dall’immediata osservazione di non avere fantasie spontanee e crudeli sul loro conto. L’esperimento si conclude bene, perché un brivido mi scuote e la mia mente contorta per una volta ha perso. Le 17.30 sono un’ora normale per l’inizio di una discesa dal K2. Considero anche la nostra salita e vedo con apprensione una lunga striscia di nubi che perturba l’orizzonte verso sud. Robert, dicendomi che è il monsone su Rawalpindi, non riesce a tranquillizzarmi: «Monsone o no, ieri sera era meglio!».
Alle 22.30 sono ancora sveglio, mentre i miei due compagni ronfano alla mia sinistra. Decido di ingerire un Ansiolin, anche se domattina ne sentirò ancora gli effetti. Nella notte tutto è tranquillo: troppo tranquillo, niente sogni tanto attesi, niente avvertimenti. Non è ancora giunto il momento, dall’altra parte nessuno ascolta le mie lagnanze, aspettano forse che io cresca ancora un po’.
Incontri con uomini straordinari
“Lei aveva trovato l’Albero della Conoscenza, ma un grande muro s’innalzava cupo tutt’intorno e la separava irrimediabilmente dall’Albero della Vita – un muro che il suo pensiero era incapace di superare pur mentre l’istinto le ripeteva pressante che le sarebbe bastato farsi avanti perché quello crollasse; ma l’istinto non può farsi avanti quando il pensiero l’ha iniziato alla scienza dell’incredulità; e il muro non sarà sormontato finché il Pensiero e l’Istinto non si saranno congiunti, e il primo figlio di questo connubio si chiamerà lo Scalatore del Muro (James Stephens, La pentola dell’oro, capitolo 12)”.
13 luglio
Venerdì 13. Allorché ci alziamo il tempo non è più lo stesso. L’altimetro è salito di 60 metri, l’incertezza è serpeggiante. Però ci prepariamo ugualmente, lasciamo lì due sacchi piuma, prendiamo un materassino, un po’ di cibo, due chiodi da ghiaccio, un fittone di titanio, uno spezzone di corda. Alle 7 iniziamo la lenta salita del pendio di neve. Una neve molto variabile, non sai mai se tiene il tuo peso o se cede d’improvviso, dandoti uno squilibrio che ti fa perdere forza volta per volta. Ci alterniamo al comando, mentre il tempo peggiora; presto non vediamo più nulla, scorgiamo appena le nostre sagome. Alle 9 un richiamo dall’alto, rispondiamo eccitati: ci chiedono dove siamo, da dove si scende: «Giù diritti, in verticale!». Li abbiamo localizzati vedendo le palline di neve smosse dai loro piedi correre verso di noi.
Poco dopo due figure, un po’ barcollanti, le barbe ghiacciate, emergono dal grigiore della bufera. Ci abbracciamo, io sono commosso e quasi piango, non so se è perché mi fa piacere rivederli vivi e vittoriosi o se è per la netta sensazione di dover tornare indietro anch’io. Poche sono le parole che ci scambiamo, tutti però sentiamo quanto sia emotivo questo incontro a 7600 metri. Dopo una decina di minuti decidiamo di scendere: se salissimo, ormai ci sono le loro tracce, certamente raggiungeremmo il campo IV. Fatica sprecata, perché domani certamente sarà brutto tempo e come faremmo a scendere al campo III e ritrovare la via in questo deserto bianco?
Al campo III nella confusione generale preparo velocemente un brodo per tutti, lasciamo lì la roba che pensiamo ci servirà per l’ultimo tentativo, ci buttiamo a capofitto nella bufera per scendere ancora. Reinhold e Michel sono ammirevoli, ci seguono come se non avessero appena salito senza ossigeno la seconda montagna del mondo. E così di corda in corda, di turno in turno arriviamo al campo II, dove nel frattempo era salito Renato, ma questi era stato costretto a sloggiare perché Joachim gli aveva radiotelefonato che forse Michel e Reinhold si fermavano lì. Invece proseguiamo tutti. Al campo I Renato ci prepara un buon tè e dopo questa bella sosta tutti assieme, la spedizione riunita al gran completo continua la discesa. Al campo I giapponese ci separiamo, io aspetto i due più stanchi. Con l’ultimo sole Reinhold mi dice che in vetta ha trovato il microfilm lasciato dagli americani (l’elenco di chi aiutò la loro spedizione, 4.000 nomi) e che in cima ancora ha regolato il suo altimetro, che ora segna 5450 metri. Calcolando la differenza di pressione tra ieri e oggi, dovuta al cambiamento del tempo, stabiliamo che la più reale quota di questa morena è 5400 metri, che il campo base è 5050, il campo I 6250 metri, il campo II 6850, il campo III 7400 metri. Il mio punto massimo del primo luglio è stato 7160 metri ed oggi il punto d’incontro deve essere alzato a 7650 metri, quasi mille metri al di sotto della cima. Assieme continuiamo la discesa lungo la morena, poi nel labirinto di ghiaccio solcato da innumerevoli canaletti d’acqua, poi saltando i crepacci e infine ormai verso le 17.30 ci viene incontro Terry, assieme all’ufficiale di collegamento dei francesi e ai due membri pakistani della stessa spedizione. Ancora qualche centinaio di metri e arriviamo al campo francese, Yannick Seigneur fa molta festa a Reinhold, ma io sento che c’è nell’aria qualcosa che non va. Scambio qualche parola con Patrick Cordier, ma ho fretta di cambiarmi le scarpe, le mie Adidas fradice per la pappa di neve del ghiacciaio. Mi sento molto bene, poco stanco, meno stanco della volta precedente. Alla sera però mi corico e non riesco a respirare: tutto il cibo ingurgitato si rifiuta di proseguire il suo regolare cammino. Quasi non riesco a leggere le mie due lettere, non sono soddisfatto della lettera di Nella, scarna e poco informativa. Poco dopo è un sonno di morte, con sogni assolutamente privi della possibilità di ricordo.
Una penosa decisione
“L’idea ovvia di usare in un certo senso il diavolo come finto nemico e di aizzare gli uomini genericamente contro il «male», sarebbe rischiosa anche presso uomini intellettualmente molto maturi (Konrad Lorenz, Il cosiddetto male, cap. 14)”.
14 luglio
Oggi è la festa nazionale francese ma non credo che i nostri vicini, che ormai hanno raggiunto la Sella Negrotto, possano celebrarla degnamente. Quel che sentivo ieri sera, disagio o tristezza, s’è dimostrato vero. Questa mattina tutti gli hunza della loro spedizione, i bravi portatori di alta quota nativi della valle a nord di Gilgit, se ne sono andati in massa. Poco cibo, dicono, pochi soldi, i francesi “ci sono antipatici”. Dev’essere un brutto colpo per loro, chi porterà alla Sella Negrotto tutto ciò di cui hanno bisogno? Ma io sospetto che la ragione sia un’altra: essi hanno visto che la salita alla Sella Negrotto è difficile e molto pericolosa, per non parlare delle seraccate che sovrastano il loro campo I e siccome gli hunza sono orgogliosi e non discuterebbero mai su basi che compromettessero il loro indiscusso coraggio, hanno preferito la soluzione drastica dell’andarsene. Nel frattempo abbiamo mandato assieme a loro Gulam Mahdi che deve portare altra posta a Skardu. Una lettera è di Messner per Mr. Awan e in essa è richiesto il permesso di scalare il Broad Peak, non appena possibile. La spedizione austriaca sta per arrivare in vetta, il 21 luglio hanno appuntamento con i portatori per il ritorno. Può essere che il permesso sia accordato: in tal caso verrebbe comunicato da Karin via radio, le formalità sarebbero eseguite in un secondo tempo. Riferisco tutto ciò tanto per dare un’idea delle condizioni fisiche di Reinhold e Michel, che pensano già di salire su un altro ottomila. Due ottomila al mese. Renato, Friedl, Robert ed io abbiamo invece altri pensieri, sicuramente preferiamo pensare che Mr. Awan non darebbe mai un permesso così, il Pakistan ha tutto l’interesse di dare permessi a spedizioni in partenza da Rawalpindi e non già operanti sul posto. Questo costituirebbe un precedente.
Non ho ancora avuto tempo per raccogliermi in me stesso a riflettere, ieri sera e questa mattina ero tentato di rinunciare a tutto, di accontentarmi del successo degli altri. Ma sento che non è finita. Alla sera sono sdraiato nella mia tenda, ho deciso di non prendere parte al pasto perché non voglio sentir parlare di partenza notturna. Sollevarmi lo spirito è compito di Patrick Cordier, è arrivato con Yvan Ghirardini, che preferisce sostare in tenda mensa e parlare con Reinhold. Patrick invece trascina me e Renato al suo campo, circa quattrocento metri più a monte, sul ghiacciaio. La serata è cordiale, Patrick è il solito che ricordavo da quando lo conobbi al Festival di Trento, abbiamo qualche scambio d’idee tra lo spiritoso e il serio. Renato chiacchiera bene con altri, tra i quali Jean-Claude Mosca. Sono assenti, perché su ai campi alti, Seigneur, Boivin, Mellet, ecc. Il pasto è abbondante e ben servito, pastasciutta, pollo cotto nel vino, insalata disidratata. Patrick scherza su Yvan, dicendo che forse questa sera vuole andare a letto con Reinhold, ma anche questa battuta è detta con molta finezza e non è per nulla pesante. Dopo un’ora e mezza ritorna Yvan, ma ormai è tempo che noi andiamo, questi ci dice che al nostro campo ci aspettano per decidere per domani, il tempo è bello.
Al di fuori delle tende ci sono le stelle, la via lattea è risplendente e noi inciampiamo nei sassi, dopo aver salutato e ringraziato tutti. Appena entrati nella nostra piccola tenda mensa, incominciamo la discussione. Senza troppi complimenti Reinhold dice che in quattro avremmo assai meno probabilità di riuscire e che comunque siamo noi che dobbiamo decidere, il suo è solo un consiglio. Dalla bocca di Friedl e Robert non esce suono, è evidente che la cosa è già stata discussa in precedenza. Si aspetta solo che Renato rinunci, anche se io sostengo per l’ultima volta che il peso da portare in più essendo in quattro sarebbe assai poco. Reinhold aggiunge che essere forti in alta quota non è da tutti e se qualcuno non riesce non è importante. «Purtroppo tu, Renato, non arriverai mai a ottomila, neppure in dieci anni, lo sento, anche se non posso dimostrartelo».
Renato apparentemente è calmo. Di fronte a quell’affermazione, io mi sento molto a disagio. Reinhold continua: «E tu volevi attaccare la Magic Line perché dentro di te sapevi già che lo Sperone degli Abruzzi non sarebbe stato adatto a te, mentre sulla Magic Line, che ci avrebbe arrestati tutti a 7500-7800 metri, potevi anche lavorare e rendere di più, su un terreno difficile e quindi più “lento”. Perciò l’unica cosa che ti resta da fare è rinunciare. Tu non puoi permetterti ora di rallentare questi altri tre».
A questo punto Renato si alza. Dura un attimo la sua corsa in tenda. Ritorna con il diario e su di questo rintraccia un breve scritto, che ci legge al lume incerto delle candele: «… Non posso raccontare granché del K2 e della mia esperienza alpinistica su questa montagna, perché ho raggiunto solamente la quota di 6800 metri lungo lo Sperone degli Abruzzi. Non sono riuscito a trovare l’entusiasmo, il desiderio e la carica psicologica per salire su questa via di ripiego. Forse non avrei superato ugualmente quella stessa quota, ma questo non si sa, se avessimo attaccato lo sperone sud, la via del programma iniziale. Però avrei trovato le difficoltà tecniche nelle quali mi sento vivere. Non vado in cerca delle difficoltà per le difficoltà, per l’intima soddisfazione di superarle. Sarebbero fini a se stesse. Ma cerco un itinerario che mi piaccia, che mi soddisfi ancor prima di salirlo. Deve esserci insomma una grande attrattiva. Se poi lungo questo itinerario ci sono difficoltà molto grosse, ebbene, m’impegno nel superarle e provo ogni volta enormi soddisfazioni perché mi sento vivere e mi trovo nella mia giusta dimensione poiché nell’impegno trovo me stesso. In quei momenti non posso mentire, non posso bluffare, devo mettere sulla bilancia tutta la mia esperienza di alpinista e la carica psicologica per risolvere le difficoltà. Una volta superate queste, non ci penso più, penso ad altro, a ciò che avviene e avverrà dopo».
«Bravo, bello, hai saputo dire bene quello che sentivi» ammette Reinhold «purtroppo però talvolta noi tutti proviamo due sentimenti opposti. Diciamo e scriviamo, ma il nostro più profondo sentire è diverso… ». Ho l’impressione che questa affermazione nessuno possa capirla. Essa è anche largamente inutile e gratuita. Renato ha già rinunciato, non pensa più a salire con noi. Io sono molto confuso. La mia volontà di vetta è scarsa e ora devo sopportare questa esclusione da complotto, il complotto contro il debole. La giustizia del K2 ha la mano pesante.
Sono le 23 quando entriamo in tenda, non ho ancora fatto lo zaino. Dopo un po’ di silenzio iniziale parlo a lungo con Renato; la situazione è molto amara, entrambi siamo veramente tristi: ammiro la sua forza d’animo che vede nel futuro, oltre alla possibilità di rifarsi, la medicina per ogni ferita. Mi ripete con convinzione che comunque questa spedizione gli è stata utile, gli ha aperto nuove visuali, ha cominciato ad imparare a stare con gli altri, anche se il prezzo da pagare non si aspettava fosse così caro. Alle 2.30 interrompiamo le nostre confidenze, perché alle 3 Rosalì mi porterà il tè.
La ben nota angoscia
“Cosa ti sta tanto a cuore, o mortale, se indulgi così a questi morbosi lamenti? Perché singhiozzi senza posa e piangi la morte? Se ti fu piacevole la vita fin qui trascorsa, se tutti i beni, come racchiusi in un vaso bucato, non scorsero via e non si dileguarono senza un qualche tuo piacere, perché ora non ti allontani come un convitato sazio della vita e non accogli, stolto, con animo sereno la quiete senza affanni? (Lucrezio, De rerum natura, III, 933-939)”.
15 e 16 luglio
La marcia sul ghiacciaio è abbastanza piacevole e veloce: il sole ci illumina quando siamo già alti. Camminiamo sul macereto che precede lo sperone, io mi sento agile e leggero anche se tengo un passo molto regolare e cadenzato. Alle prime corde fisse i due compagni cominciano a distanziarmi, ma non me la prendo; la mattina è bella, le rocce sono asciutte, riesco quasi sempre a mettere i piedi dove non c’è neve. Al campo I è tutto in ordine, Robert ha già messo in funzione il fornello, Friedl traffica nella tendina di gore-tex, io provo gli scarponi. A Michel infatti non erano più necessari gli interni Kastinger e questa volta non sono più costretto ad ibridi. Sono le otto, abbiamo impiegato tre ore e tre quarti dal campo base, ma la nostra giornata non è finita perché, dopo un buon tè, alle 9.45 ripartiamo per il campo II. È la prima volta che lo facciamo, non sappiamo quanto stanchi arriveremo dopo 1800 metri di dislivello a questa quota, ma il tempo stringe, è bello e dobbiamo sfruttarlo. Friedl, incurante delle mie proteste (perché voglio fare fotografie), assume la sua andatura e Robert lo segue. Io mi trovo distaccato, sarà forse la notte passata completamente in bianco? Alle 12.30 arrivo anch’io al campo II, non proprio sfinito come avevo previsto. Anche qui le tende sono in ordine, ferve l’attività per procurarsi un pomeriggio, una sera e una notte il più confortevoli possibile. Mi viene in mente, quando Friedl parla di risotto, che se ci fosse un po’ d’olio, data la presenza di aglio giapponese al campo, si potrebbe fare del soffritto! Allora ricordo che la volta precedente Renato aveva portato su dei viveri e li aveva messi chissà dove, giustamente o ingiustamente preoccupato che la spedizione non lo lasciasse neppure tentare di raggiungere il campo III. Per radio prego Renato di dirmi dove ha messo la roba: sono sicuro che almeno una scatola d’acciughe (con olio!) l’aveva presa. Robert e Friedl sono scandalizzati da questo comportamento: la loro mentalità gli impedisce di comprendere, vedono solo il lato peggiore. Cerco di dire che alla fine dei conti è sì vero che Renato ha fatto una cosa riprovevole ma che anche tutto ciò può essere giustificato, che bisogna essere un po’ elastici, che nessuno di noi al suo posto potrebbe essere così sicuro di non mettersi sullo stesso piano. La mattina dopo, tra le 7.15 e le 10.45, tutti e tre raggiungiamo il campo 3. La tenda è crollata, il vento ha squarciato il copritenda, spezzato in due punti l’intelaiatura di titanio. Ma questa volta ci siamo organizzati con i tubicini: ne abbiamo sei e quattro li teniamo per l’eventualità di rotture al campo IV. Il copritenda ci serve per ulteriore spessore sotto i materassini, scaviamo convenientemente la piazzuola di neve (che ormai era un piano inclinato), facciamo asciugare l’interno e gli oggetti che si erano infradiciati e poi si erano induriti per il gelo. Insomma, alla fine del lavoro, la tenda ci appare migliore di prima, anche se la mancanza del copritenda suggerisce una debolezza poco rassicurante. Il tramonto è stupendo, ma strisce all’orizzonte e nuvolaglia sul Tibet e sul Sinkiang non lasciano sperare del tutto bene. Ritrovo quella ben nota angoscia, una mancanza di sicurezze che tortura il cuore, causa precisa di una certa infelicità notturna che precede ogni grande ascensione alpina o impresa himalayana.
Destino e libertà
“Non possiamo cambiare patria. Allora cambiamo argomento (James Joyce, Ulisse, cap. 16)”.
17 e 18 luglio
L’alba è inquietante, come peraltro dalla sera prima si temeva. Nebbie subdole avvolgono già le cime del Broad Peak e del Chogolisa; quella del K2 è l’ultima a cedere. Ma alle 7.15 partiamo, ben decisi a raggiungere il campo IV. Dal «base» ci hanno detto che l’altimetro è buono, è sempre molto basso. Renato ieri è salito al campo I e oggi salirà al campo II, con altri viveri. Alle 8.30 siamo già al punto d’incontro con Reinhold e Michel, quando erano reduci dalla vetta. Oggi almeno la visibilità c’è ancora e così proseguiamo per altri cento metri, fino a che ci sbarra la via un enorme seracco. Traversiamo a destra un centinaio di metri, superiamo una crepaccia terminale e una parete di neve ripida; dopo una breve cornice, ci troviamo sul pianoro della Spalla, a 7750 metri. La nebbia ormai fitta c’impedisce di vedere qualunque cosa, anche la tendina del campo IV, un 200 metri sotto al famoso «bivacco Bonatti». Con l’aiuto dell’altimetro e del buon senso, quando ormai il vento si è scatenato e neve di riporto ci costringe a voltarci dall’altra parte, a 7900 metri ci accoglie una misera tendina rossa. Dentro è tutto gelato e, se si tiene il lembo di stoffa dell’entrata aperto, la neve entra dappertutto. Il problema è sistemarci in tre e far cucina. Più tardi scopriamo che dormire è ben peggio. Tutta la notte siamo flagellati da un vento tormentoso e meridionale; tutta la notte speriamo che vincano le stelle, mentre i piedi di Friedl avvolto nel saccopiuma si appoggiano sulle mie spalle e i miei fanno lo stesso su di lui. Tante ore sempre nella stessa posizione, mentre la speranza cade a poco a poco, un’alba radiosa anche se ventilata appare sempre meno probabile. Unica consolazione è vedere che non stiamo soffrendo per la quota, stiamo bene e perfino scambiamo quattro parole sul crollo del tabù psicologico dell’altezza: il nemico più ostile è sempre stato dentro di noi, non fuori. In questi pensieri la speranza rinasce, la leggo negli occhi dei due compagni, basterebbe solo un po’ di bel tempo, l’altimetro era basso anche ieri sera…
Alle 6.30 esco per primo dalla tenda, al gelo infernale di raffiche senza pietà. C’è una misera visibilità, ci permetterà di scendere in gran fretta? Alzando lo sguardo mi s’impone il trapezio sommitale del K2, un beffardo gigante che non m’incute paura da solo: gli è necessario scatenare gli elementi per farmi fuggire. Dentro la tendina Robert e Friedl si contorcono per infilarsi questo o quell’altro capo d’equipaggiamento: io sono fuori da solo, sto calzando i ghettoni e spero ancora che il miglioramento di tempo sia possibile, mentre mi congelo le dita sulle cinghie dei ramponi, la barba è già ghiacciata, le ciglia incrostate. Quando anche loro escono, la vetta è scomparsa, non si vede neppure più la Spalla, dovremo buttarci giù alla cieca.
Oggi è mercoledì, il mio giorno preferito, quello di Hermes: esattamente dieci anni fa salivo con Leo Cerruti il Naso di Z’Mutt al Cervino. Mi sembrava un giorno significativo questo per tentare la vetta e invece eccomi qua, a gettare un passo dietro l’altro in discesa in una neve crostosa e instabile. Tutto è crollato ormai attorno a noi, neppure il tè ci siamo fatti questa mattina.
La giornata che segue, dopo il veloce divallamento e l’arrivo nella bufera al campo III alle 9.15, è uno scendere continuo tra fiocchi di neve, raffiche di vento, spruzzi di neve gelata; al campo II Renato si aggiunge alla ritirata, al campo I due sassi hanno distrutto parzialmente le due tendine; per radio stabiliamo con Reinhold che i portatori arriveranno al campo base il 29 sera e che quindi noi abbiamo ancora la possibilità di ritentare la scalata alla vetta entro il 24 luglio. Quasi al buio arriviamo al campo base: dentro di me so che tutto è finito, ma non voglio ancora accettarlo.
“I tuoi marinai più fedeli al mare stanno remando indietro, i tuoi eserciti senza bottino ritornano a casa, il tuo amante che se ne è appena andato ha tirato su le sue coperte con sé e perfino il tappeto se ne va sotto di te: tutto è finito ormai, bambola triste (Bob Dylan)”.
Michel scuote la testa
“Li guardava torvo Odisseo, e disse: «Credevate, o cani, ch’io a casa più non tornassi dal paese dei Troiani» (Omero, Odissea, Canto 22)”.
19 e 20 luglio
Pochi sono gli avvenimenti di questi due giorni di attesa e di riposo. Ma il cancro del dubbio, unito al tempo monsonico, lavora in profondità. Nel pomeriggio del 19 ho un lungo colloquio con Reinhold, nel quale ci riveliamo certi punti di vista, certi metodi di vita, certi progetti. Alla fine sono soddisfatto, perché ora so che le nostre vite potranno ancora, dopo la fine di questa spedizione, trovare altri scopi in comune. Io ammiro in lui la naturale capacità di vivere secondo istinto e avventura, la libertà delle decisioni. Ma anch’io ho scelto quella strada, forse più intellettualmente. Spero così che ci incontreremo di nuovo, anche se non è necessario, solo perché due uomini si sono capiti. Il giorno 20 è sonnolento, dormo quasi continuamente, Robert dice che dormo «as a marmot», mentre io osservo il corpo di Reinhold disteso al sole. Non mi meraviglio del mio desiderio, ormai sono alle corde della resistenza, tutto si rivela, nulla si può nascondere dietro la volontà di un Ego distrutto che dal profondo del suo bunker continua a blaterare ordini che nessuno esegue e nel bombardamento è vicino al suicidio. Bombe mortali cadono ormai ovunque, il tempo è flaccido qui al campo base, in cima imperversa la solita bufera di morte. Ricomincia una pallida diarrea notturna con accenno di vomito, Terry preferisce quasi la compagnia dei pakistani della spedizione francese, Michel scuote la testa e fa capire che si è accorto che dentro di me non sono più lo stesso e che non «gli piaccio più». Non mi offendo di certo: oltre ad aver ragione a dirlo, sento con quanto amore e con quanto disinteresse lo dica. Renato dorme sempre, Friedl ha vomitato lo speck ed ha la diarrea, Robert anche.
È uno sfacelo e Reinhold non si permette di giudicare: l’unica azione che compie è quella di scrivere una lettera agli austriaci del Broad Peak che stanno per andarsene, offrendogli di comprare gli ultimi loro cibi. Per il resto si rinchiude in tenda. Ma alla sera decidiamo di svegliarci alle tre e di partire. Rosalì è incaricato di svegliarci, portarci il tè, uno zaino carico dei nostri scarponi. Lo accompagnerà Gulam Rasul durante il ritorno sul ghiacciaio. Rosalì non vuole salire fino al campo I per poi scendere da solo fino a Gulam. Gulam d’altra parte è malato e non se la sente di salire al campo I. Rosalì quindi propone di salire solo fino al deposito del gas. Reinhold minaccia di licenziare lui e Gulam. La sera diventa sempre più tesa e non serve che Rosalì finisca col cedere. E pensare che fino ad oggi Rosalì era il nostro beniamino, quello che sa tutto di tutti anche se nessuno gli ha detto niente, un intuitivo che sa fino a che punto può spingersi nelle battute umoristiche senza ferire l’orgoglio dei saab che sanno quanto egli dica il vero. Il fatto è che siamo tutti incazzati, proprio per niente convinti di arrivare. Io continuo a domandarmi perché, ora che so che tutto è finito. Evito di parlare con Renato quando mi sbatto in tenda.
Libertà di decisione?
“Oh cieca cupidigia, e ira folle,
che sì ci sproni nella vita corta,
e ne l’eterna poi sì mal c’immolle! (Dante Alighieri, Inferno, Canto 12, 49-51)”.
21 luglio
Sono all’ultimo banco a sinistra in un’aula scolastica e sto scrivendo qualcosa sul pavimento dietro di me, a matita, praticamente degli appunti. Mi sembra di scrivere delle cose di buon senso, quando incomincia un’interrogazione. Renato è il primo ad essere chiamato, ma si scusa perché deve rivedere il suo compito; anche altri si scusano perché devono rivedere il compito di italiano fatto a casa. Dalla cattedra è comunicato che dobbiamo versare 50.000 rupie pakistane a testa e a questa affermazione io scoppio a ridere, ricamandoci sopra alcuni scherzi: ma ripensandoci 50.000 rupie sono quattro milioni di lire! Io non ho fatto quel compito e in più devo anche pagare, quella somma! Comincio ad arrabbiarmi veramente, quando mi viene accanto una professoressa; con aria di protezione sembra volermi calmare, ma ecco sul banco un insetto dorato: è bello, fiero, ha la forza di una cavalletta, la nobiltà di un cavalluccio di mare, è la minaccia di un animale preistorico. Non si lascia avvicinare, è bello chiacchierare con la professoressa completamente nudo, mentre gli altri fanno i compiti. Possono anche rimandarmi in italiano, ma io a quel ricatto non cedo e così non cedo ad altri ricatti più grossi, chissà se mi promuoveranno in tedesco, i tedeschi mi giudicano, ormai sono sulla loro terra, perfino Rosalì è loro alleato, mi verrà a chiamare alle tre.
«Sandro saab, tea making? To-day going?».
Guardo il cielo, è stellato a metà. Impreco sottovoce perché Rosalì è venuto da me a chiedere, e non è andato da Robert. Esco alla luce incerta dell’alba, inciampando nei sassi, i movimenti scomposti di chi ha voglia di pisciare. Con un lembo di mutande in mano ho un primo quadro mattutino di questa prima giornata nel mio segno del Leone. La prima cosa che Robert mi dice, masticando tristemente un biscotto, è che sta male di stomaco, per via dello speck; gli occhi azzurri di Friedl, biondi di barba voluminosa al lume di candela, sembrano appartenere ad un vikingo, marinaio di Erik il Rosso, era scritto che approdasse in Groenlandia. Purtroppo le sue prime parole, in tedesco, chiedono carta igienica. Arriva anche Renato, la colazione è consumata in fretta. Rosalì e Gulam sono già partiti, chissà anche loro con quale voglia. Le vette sono invisibili, nubi monsoniche ne avvolgono i fianchi, fa caldo. Sui sassi del ghiacciaio, oltre a non inciampare, dobbiamo cercare di non scivolare perché la novità di questa mattina è che vi si è formata sopra una leggerissima patina di ghiaccio. Quasi per caso mi volto indietro e vedo il viso di Michel che si sporge dalla tenda: non osava salutarci, ma noi due ci scambiamo un cenno con la mano. Oltrepassato il campo francese alcuni ben noti movimenti intestinali mi costringono ad una rapida sosta: chiedo una pillola a Robert. È con grande fatica che riprendo a camminare, mi sento come se una mano potente mi inchiodasse al terreno e non mi facesse respirare: tutto grida in me per il ritorno, per il lancio della spugna! Stringo i denti, mi impongo quella meditazione che ieri avevo evitato tramite l’incazzatura e il sonno. Mi domando sinceramente che cosa mi spinga ancora verso l’alto.
Il tempo è orrendo, non ne ho voglia, la spedizione ha già ottenuto il suo successo, il mio ego è impotente ed è stato dimostrato da tutti i segni che doveva essere battuto, una dura lezione ma necessaria. Il mio ego è stato battuto con l’onore delle armi, gli è stato concesso di salire abbastanza in alto, lavorare per la causa comune, comportarsi in maniera degna. Gli è stato fatto capire che è un buon guerriero ma che vuol essere un po’ troppo indipendente, senza curarsi del fatto che le armi di cui dispone non sono solo sue. Altre parti di me reclamano, ad esse è stato concesso troppo poco. Chi vuole salire è sempre lui, avvolto dall’Orgoglio, con la coda del Timore di essere giudicato un pavido. Cinque figure mi camminano avanti, spero che qualcuno cambi idea, ma anche questa caramella mi è negata. Non devo tornare sulla scia degli altri. Una valanga silenziosa dapprima, poi sordida, si abbatte sul nostro cammino: se fossimo partiti solo mezz’ora prima saremmo stati investiti, per lo meno dal suo soffio. Un altro segno di morte che non posso trascurare. Con crescente eccitazione penso sempre più al mio ritorno, il piede sinistro sfonda e si immerge nell’acqua. Solo tornando di mia iniziativa volterei definitivamente le spalle ad una speranza di vittoria ormai fanatica ed illusa. Solo ripetendo all’indietro i miei passi vincerei la guerra con me stesso e il premio sarebbe il non dare realmente importanza alle cose e vivere il mio destino. Solo così la Grande Opera di cui parlavo avrebbe termine o potrebbe avere inizio. Ma c’è ancora l’illusione che il tempo migliori, che le ore ai campi alti volino, che la fatica non si senta.
Il piede destro inavvertitamente cade in una pozza d’acqua scoperta, non era mai successo in dieci traversate di questo ghiacciaio. Un urlo strozzato mi esce di gola dopo aver oltrepassato Robert che cagava con sguardo spento una poltiglia giallastra sopra al bianco glaciale. Troppo grande è questa valle perché il mio povero urlo si spanda e respinto mi risuoni ancora nella scatola cranica, ma riesco a fermare i compagni. Non dò troppe spiegazioni al mio gesto: già Rosalì, che ha capito al volo, mi porge gli scarponi che portava. Dietro-front. Così facile era la liberazione? Ma certo! Così bella è quella piramide, così bella e grande la sua salita! Ma cosa mi costringeva a volere, pretendere, esigere? Con quale diritto desideravo? Perché aborrivo l’agonia di me stesso e della spedizione? Come sono leggeri i miei passi al ritorno, com’è chiaro il sole monsonico che illumina per un attimo il mio cammino solitario al campo base. Là nessuno si accorgerà che sono ritornato. Mi rifugerò in tenda a scrivere, a contemplare e a vivere la mia felicità. La spedizione ha avuto il successo che meritava perché due dei nostri sono arrivati in cima, io sono spaccato in due ma non ho ceduto a nessun ricatto, nessun professore avrà da me del danaro. Inseguo il mio insetto dorato con gioia, non occorre divellere le sbarre della prigione, è sufficiente sgusciare attraverso, come gli insetti. Ma l’insetto dorato brilla di luce propria, non è suo destino svolazzare e morire sulla luce artificiale.
“Scordati i faticosi gradini che hai salito
ci sono ben altri richiami per te
non curarti dei morti che hai lasciato sul tuo cammino
loro non possono seguirti.
E quel vagabondo che sta bussando alla tua porta
è rigido nel tuo abito di una volta.
Sfrega un altro fiammifero e ricomincia da capo
perché è ormai tutto finito, caro mio (Bob Dylan)”.
La pace
“Non dovresti invidiarmi, Boccadoro. Non c’è una pace così come tu la intendi. C’è la pace, senza dubbio, ma non una pace che alberghi durevolmente in noi e non ci abbandoni più. C’è solo una pace che si conquista continuamente con lotte senza tregua, e tale conquista dev’essere rinnovata giorno per giorno… (Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro, cap. 19)”.
Una domanda ho posto a me stesso per tanto tempo, prima e durante questa avventura. La forza di questa domanda era tale che un giorno di marzo ho chiesto all’I King, il Libro dei Mutamenti; mi sono accostato con fiducia, come già altre volte, alla millenaria saggezza cinese. Sapevo che così facendo attribuivo inevitabilmente troppa importanza a me stesso, ma avevo una grande sete, non ero capace di produrre acqua sufficiente alla mia sopravvivenza. Volevo sapere se la mia ormai prossima avventura era stata da me decisa per orgoglio personale o se invece era il genuino desiderio di autoconoscenza e autorealizzazione che mi spingevano ancora una volta alla ricerca. Con serietà avevo armeggiato con le monete dell’oracolo e la risposta fu tale da corrispondere al numero 61 del libro, la «Veracità intrinseca». Il segno è simbolizzato dalla sovrapposizione del Vento su un Lago. La superficie delle acque è accarezzata e increspata dalla brezza: l’invisibile diventa visibile tramite i suoi effetti. C’è una sentenza che dice: Veracità intrinseca: porci e pesci. Salute! Propizio è attraversare la grande acqua. Propizia è perseveranza.
Ciò avrebbe dovuto essere per me un campanello d’allarme. Così ero paragonato ad un porco o ad un pesce, gli animali meno influenzabili. Così ero sempre stato impermeabile alla saggezza, così m’illudevo di percorrere la Via con le carte in regola. Mi era suggerito che in realtà la vetta del K2 m’interessava come può apparire desiderabile ad un porco. Ma ugualmente dovevo partire, mi attendevano il pericolo e le incognite della Grande Acqua, guai a non perseverare! Nella definizione del segno erano delle linee mutanti, che potevano chiarire meglio la mia posizione. C’era un sei al terzo posto e ciò significa: Egli trova un compagno; ora batte il tamburo, ora cessa; ora singhiozza, ora canta. Non faccio fatica a identificare il compagno. So già ora che sarò sballottato tra gioia e dolore, perché la forza mia non è totalmente in me stesso, ma risiede nel rapporto con lui.
C’era un nove al quinto posto e ciò significa: Egli possiede veracità che concatena. Nessuna macchia.
Sono felice di questo, perché almeno ho la sicurezza di non essere legato agli altri per motivi di interesse comune. Pur essendo la mia scalata ancora una volontà di successo del mio ego e del mio orgoglio, posso dire che, a sentire l’oracolo, i rapporti personali sono veri e duraturi. C’era un nove sopra e ciò significa: Canto di gallo che squilla fino al cielo. Perseveranza reca sciagura! Mentre scrivo ora, vedo chiaro: tutto era così evidente! Il gallo canta, richiama, annuncia, ma non può volare egli stesso fino al cielo. Le parole non bastano per volare ed io purtroppo so solo parlare: e se parlo troppo peggioro le cose. Imparare a volare è difficile e duro, che cosa mi sarà richiesto in sacrificio?
Le tre linee mutanti cambiano il 61 in 11, la «Pace», la cui sentenza è: La pace. Il piccolo se ne va, il grande se ne viene. Salute! Riuscita! Il segno accenna ad un’epoca nella quale, per così dire, vi è il Cielo in Terra. L’armonia di questa unione è futura, ma si può già vedere la pace per tutti gli esseri. Perché ciò si realizzi dev’essere fatta giustizia. Il K2 è stato giusto con noi, la sua sentenza inappellabile mi ha condannato all’insuccesso temporale, perché non sono riuscito ad aprire la porta che mi era stata socchiusa. L’orgoglio ha ricoperto sempre i miei occhi, la tunica mortale della ragione ha sempre «protetto» la mia pelle, il guscio non si è spezzato. Così la lezione è stata dura e c’è il dubbio di cadere prima o poi in qualche sorta di autocommiserazione o nella condanna della «sfortuna» o nella maledizione al brutto tempo. Ma devo accettare, tramite il pianto, la Giustizia: per amore della Pace.
La giustizia del K2
“O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, alla mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente; (Dante Alighieri, Paradiso, Canto 33, 67-72)”.
Quando un cerchio si chiude, qualcosa muore e qualcosa nasce o ritorna. La vecchia casa, il vecchio amico, il vecchio padre, le vecchie idee sono circondati di luce nuova e la recente avventura è morta. I compagni non sono più mascherati, non sono più muti, difficile è ricordarsi di averli odiati. Il Grande Mosaico si è ricomposto, il pulcino è nato da un «puzzle» i cui pezzi erano dispersi nell’universo della follia dei normali, ogni parte è al suo posto. Questa è la giustizia, anche se l’Oceano è solo una grande lacrima, gli occhi sono umidi di rugiada fresca del mattino.
La guerra è finita, ha trionfato la giustizia. La giustizia umana è un’illusione, è solo speranza egoistica, «do ut des». La giustizia del metà cerchio vorrebbe escludere l’altra metà definendola «ingiustizia». Il «giusto» è solo coincidenza e la coincidenza è il destino e il destino è la realtà e l’incontro-scontro con la realtà è sempre duro, come dicono sia i giovani che i vecchi senza sapere a volte quello che esprimono. Ogni tentativo di adattare la realtà alla creduta giustizia risulta reale ma negativo, proprio mentre lo si crede positivo, proprio come amore e odio convivono e si disputano i nostri sentimenti con il tranello del reciproco travestimento, il lupo con la maschera dell’agnello.
Vedo Michel, in viaggio con me. È molto gentile e modesto, anch’io con lui mi trovo bene: sto bene, anche se siamo sul mare, tutto dondola rassicurante come la culla del treno. Ma siamo sulla Manica, in viaggio dall’Inghilterra al K2. Le sue mani ruvide vogliono versare il tè dal bricco fumante, io sorreggo la tazza ma il dondolio è troppo e un po’ di liquido bollente si rovescia, bagnandomi e scottandomi le mani. Michel apprezza molto il mio gesto, con difficoltà ci esprimiamo e scopro che sa anche un po’ d’italiano, ma l’intesa è più nell’animo che nelle parole. Riesce in italiano ad articolare una domanda precisa: «Hai la nausea?». No, rispondo, «Allora tutto va bene». Come se un sacerdote s’informasse sulla deglutizione dell’ostia che il fedele ha in bocca: il tè è germinativo, è il corpo vivo della vita; ma Michel è un folletto, un coboldo della Foresta Nera, gli piacciono le torte dolci come agli Hobbit di Tolkien, non ha veste sacerdotale: la sua Messa è una funzione assai semplice, una trasfusione del liquido più semplice e più profumato del mondo, più «spirito» del vino, che è corposo e sanguigno.
Reinhold è invece stravaccato per terra, sembra un gatto che si goda il sole; io voglio partire per non so più quale campo alto, ma il mio zaino è leggero, mi sembra ingiusto partire con un simile carico inesistente. «Di cosa ti preoccupi» mi dice «vai così, non importa!». Provo a ribattere, a insistere, ma la mia sollecitudine lo annoia. Alla fine esclamo: «mi hai smontato», sbatto là il mio zaino e per quel giorno non parto più, con un nodo alla gola. Queste due figure così diverse hanno calcato la vetta del K2, hanno parlato al mondo da lassù, la loro immagine sarà diffusa da tutti i giornali e da tutte le televisioni, i loro nomi saranno pronunciati da bocche indifferenti, invidiose, ammirate, innamorate; le loro mani strette da altre con calore oppure per dovere, secche e amiche oppure umide e viscide. Sono sicuro che ciò non li ha cambiati e non li cambierà perché in qualche maniera che non conosco per loro la vetta non era importante e gli onori ancora meno, perché coloro che amministrano in Occidente il tè come sacerdoti orientali e coloro che sonnecchiano al sole dopo tutti gli impegni che si sono presi come capo-spedizione, hanno una potenza interiore che li sorregge in ogni situazione consecutivamente coincidenziale, che è poi l’avventura liberamente scelta. Sarà difficile vedere in essi un me stesso completo piuttosto che semplici parti. Ormai queste si sono riunite, la fatica, il freddo, l’azoto ne sono stati i testimoni muti e giusti. Il K2 è l’unico teatro al mondo in cui la recita assomiglia al giusto; il biglietto costa caro, altre biglietterie sono alle porte e cercano d’ingannarti con prezzi altrettanto cari e duri esami d’ammissione. Ma ho scelto la porta giusta. Con questa appena socchiusa ho seguito il dramma a felice conclusione insieme con pochi altri, spettatori, che non stringeranno mai le mani ai due attori, che mai applaudiranno perché tutti credono di avere una mano sola, che non manderanno fiori nei camerini. In questa corte di giustizia non esistono codice, toghe, avvocati, accusa, difesa: ci sono solo fuoco, terra, aria, acqua, insetti dorati, animali, terribili mostri, fiori a 8 petali, santi, assassini, puttane, angeli, dio e il diavolo, enormi mandala e croci, cazzi e fighe. Questi elementi hanno ciascuno una propria energia che converge nei fili che sorreggono i due burattini sul palco. La sommatoria di esse fa muovere i fili, in un’ascesa che sembra senza fine e l’abilità del burattino consiste nell’assecondare il movimento, non opporsi, arrendersi alle energie. La scoperta è sconvolgente quando ci si accorge che noi siamo i pupazzi, perché noi siamo proiettati sul palco come una pellicola sullo schermo. La ribellione è data dal contrastare anche un solo movimento: il desiderio di fuggire è l’inizio del dolore, si guarda agli altri pupazzi che assistono al film di loro stessi soffrendo. Con essi si crede di poter fare alleanza, far «spedizione». Duro è riconoscere la propria solitudine, i propri torti, duro è amare la platea terribile e mostruosa, durissimo apprezzarne la giustizia, quella vera perché unica e perché si serve di strumenti più forti dell’amore e della morte. Crudele è riconoscere con Edgar Allan Poe che «All that we see or seem is but a dream within a dream», «tutto ciò che vediamo o sembriamo non è che un sogno nel sogno».
Un uomo, bello e selvaggio, nuota in apnea, nudo. Inattesa lo folgora una forte scarica elettrica, un’iniezione di energia. Risale alla superficie, ma non c’è superficie, non c’è sbocco in ambienti aerati. C’è una sorta di involucro ed egli, dopo alcuni tentativi, riesce a romperlo, per uscire poi in corridoi bui, inseguito dall’acqua. Di corsa l’uomo si precipita nei corridoi, s’avventa lungo le scale, esce all’aperto in una sera buia e calma, in mezzo a gente che sghignazza vedendo due pazzesche figure, un uomo orrendo e una strega, affacciarsi alla finestra e, come automi, manovrare i fili di questo mondo, come se noi fossimo i burattini. L’uomo fuggitivo comprende che neppure loro sono i demiurghi: egli è il nostro ufficiale di collegamento, che svolge le sue funzioni assieme a Terry. Anch’egli, lo so, è stato sulla cima del K2, da solo. Una grande vittoria. Il pakistano dalla pelle un po’ scura è salito in fretta, non si è trovato in anticipo, non ha perso un secondo di tempo. Lo specchio del K2 si è lasciato frantumare facilmente da un uomo così.
Reinhold ed io siamo di fronte a questa grande montagna, ormai ci sembra più facile e meno ripida. Dico che probabilmente ci si presenta così per una certa curvatura dello spazio, che non sappiamo spiegarci. Mentre sto per entrare in tenda, un’energia invincibile e benefica mi spinge senza sosta, come in un turbine mi ritrovo all’interno della montagna e qui mi si apre la visione di un altro mondo. Ci sono uomini, donne, una natura: ma è tutto trasformato, c’è una dolce distorsione o un’assenza di veli dimenticati. È certamente questa la Realtà, ma la visione non prosegue oltre. Non sazio, non pago, ma ricco di nuova vita, ritornerò nelle viscere del monte magico e questa volta solo con le mie gambe, pellegrino nell’immenso cavallo di Troia.
“I hope that someone gets my message in a bottle (Spero che qualcuno raccolga il mio messaggio in bottiglia) (The Police)”.
Il ritorno dal K2
“The time is gone the song is over, Thought I’d something more to stay (Pink Floyd, The dark side of the moon)”.
È un’alba triste e penosa, quanto attesa e desiderata, quella che vede la nostra partenza dal campo base del K2. I trenta portatori sono arrivati ieri sera, i carichi sono pronti, ogni discussione sul peso minore o maggiore appianata. A poche centinaia di metri il campo dei francesi sonnecchia ancora: è da lì che viene la paglia sulla quale hanno dormito questa notte i portatori, per sentir meno l’umido del ghiacciaio. Molti sono i bidoni di plastica ormai vuoti: ciascun baltì ne ha preso uno e se lo porterà a casa. Ma la ventina che non riescono a trasportare la nascondono dietro le pieghe del ghiacciaio. Ad un centinaio di metri arde un sinistro falò, con fumi nerastri. Lì vien bruciata la roba che proprio nessuno vuole, ad esempio il bidone segato in due che serviva da gabinetto, oppure le buste di un alimento speciale in polvere che a nessuno piaceva e che non sono state consumate. Altri viveri buoni sono stati più o meno equamente divisi tra i portatori, ma spesso questi non sanno come prepararli e così il brodo in tavolette finisce ammucchiato lì e calpestato. Me ne porterei volentieri a casa, se potessi. È un’alba triste perché nebbiosa, monsonica. Forse tra poco nevicherà, il gigante che per due mesi abbiamo tenuto in assedio è invisibile dietro ad un muro grigio. È penosa perché nonostante tutto, il posto ci è diventato familiare. Rimane un’ultima operazione, ripulire il campo, appena i portatori siano partiti.
È questo il compito più mesto: i fuochi ingoiano le cose più diverse, a volte più care. Puzzolenti scarpe da riposo s’inceneriscono assieme a buste di minestra in polvere, mentre con lo sguardo cerchiamo in giro le ultime cose da bruciare. Dalla paglia si leva un fumo bianco e spesso, mentre dagli oggetti di plastica scaturisce un fumo nerastro e insopportabile che non riesce ad alzarsi nel cielo ma grava pesante sopra il campo deserto. Vedo le prime persone muoversi al campo francese, osservano un po’ i fumi, poi rientrano in tenda. Non è affare che li riguardi. Qualche corvo volteggia gracchiando per poi posarsi su un sasso lontano. Ho già lo zaino sulla schiena e non mi decido a partire, perché in questo fuoco ancora una volta vedo la fine di un’altra idea. La fine di un campo base è la morte di una spedizione, beni di consumo rivelano qui tutta la loro inutilità, errori di calcolo nell’approvvigionamento si manifestano nella loro piena portata, le cose usate muoiono senza salutarti, e così muore anche una piccola parte di noi stessi. Con i francesi ci siamo già salutati, il ghiacciaio è muto, i fuochi languiscono, i corvi si fanno più vicini. Con passo spedito mi avvio verso la civiltà.
Oggi è il mio trentatreesimo compleanno. Tutto è ormai dietro di noi.
Sono appoggiato con la schiena ad un muretto di terra e sassi, sulla sponda di un fangoso e cupo torrente che domattina, ad acque più ridotte, attraverseremo. Ormai la tappa è finita, e per oggi anche la sofferenza. Al di là del corso d’acqua c’è una spaziosa distesa alluvionale, ma anche da questo lato potremo passare una notte comoda. Poco oltre c’è il grande fiume, affluente del Braldo, sul quale è stato teso lo yula, un ponte sospeso, passaggio obbligato per tutte le spedizioni. C’è un discreto vento che rende la temperatura piacevole. Terry mi domanda perché il cielo è azzurro, mentre anche Reinhold si avvicina alla spalliera di terra per godere di un po’ d’ombra. Tutt’attorno si alzano montagne marroni di terra e roccia, solo sulla cima si scorge ancora qualche chiazza di neve. Sui versanti il sole disegna delle ombre sottili. In esse il colore del cielo sembra voglia espandersi, mentre l’aria è invasa dai raggi ultravioletti. Il verde di alcuni arbusti è assai debole, non riesce a vincere la dominante marrone o bluastra; una fila di pini è appoggiata ad una lastronata rocciosa: entrambe hanno le radici in un immenso ghiaione bruno. Quelle povere piante devono bere l’acqua che scola dalle placche e che subito il ghiaione assorbe, non permettendo quindi a nessun essere vivente di vegetare sulla sua superficie riarsa.
Il passaggio del ponte di primo mattino non è stato avventuroso, anche se si attraversa appesi ad una sottile carrucola. Lascio indietro la carovana, sono passato quasi per primo perché mi aspetta una zoppicante marcia fino ad Askole e voglio star da solo con i miei pensieri. Approdato sull’altra riva noto di sfuggita un ragazzino baltì che mi guarda e penso che sia uno di quelli al servizio dello yula. Il sentiero dapprima è pianeggiante lungo il fiume, ma poi si raddrizza per superare un promontorio roccioso e presto mi accorgo che il ragazzino mi sta seguendo. Mi fermo per lasciarlo passare ma quello con un sorriso mi tranquillizza: «You please go, my no hurry go».
Presto il ginocchio comincia a dolermi seriamente, spesso mi volto e vedo la sua testa ricciuta e silenziosa. Dietro a lui è comparso un altro, più anziano, che presto ci supera entrambi. Capisco che loro sono assieme.
«You here no good. My carry?» mi dice indicando il mio zaino. «No heavy, thanks».
Mi ha chiesto se desideravo che mi portasse lo zaino così gentilmente che sono rimasto sorpreso della mia commozione altrettanto spontanea. Perché sento affetto per questo piccolo pastore baltì? Dopo poco gli cedo il mio carico e questo lo fa felice, non credo che sia per il miraggio di una mancia.
Dopo la salita c’è una lunga discesa fino al fiume ed è quasi interamente su sabbia che ci lasciamo andare di peso. Su questo terreno mi muovo veloce, ma credo con movimenti un po’ comici. Così mi volto e sorrido al mio nuovo amico, entrambi ridiamo del mio andare. Dopo un lungo tratto in piano, su sabbia, i due si fermano per riposare un momento, io preferisco continuare.
«My Askole going».
«Yes saab» è la risposta.
Ormai siamo alla fine della valle secondaria, di nuovo il Braldo, dopo aver accolto questo voluminoso affluente, rumoreggia ai nostri piedi. Su e giù per sentieri scoscesi, cenge esposte, gradini faticosi. Ad una sosta il piccolo baltì si accende una mezza sigaretta e aspira con piacere alcune boccate di fumo, sputando tabacco: la cicca è rimasta troppo a lungo in tasca. Già il sole è spuntato dietro le quinte di questa immensa valle, colorandola di beige e azzurro ed è dopo una sudata marcia in saliscendi che raggiungiamo un enorme masso, la località chiamata Korophon. Ridendo, seduto su una pietra, il ragazzo mi chiede se sono «hungry». Rispondo con un cenno, per dire sì e no.
«Glacier finish, chai making. OK?». Rispondo che va bene.
Dopo poco inizia la lunga traversata del Biafo Glacier, un ciclopico ammasso di chilometri di ghiaia, blocchi e ghiaccio, che occorre necessariamente traversare perché il fiume che esce dalla sua fronte è proprio selvaggio e inaffrontabile. Giunti in fondo, all’ombra di alcuni blocchi e di muretti costruiti dall’uomo, ci riposiamo.
«Saab, name?».
«Sandro».
«My name Purnam, his name Gulam Nevi».
«Very good. He father?».
«No, friend».
«How old are you?».
«My twenty».
Non ci credo, ne dimostra molti di meno.
«You here no good. Askole helicopter?».
«No, my Bon-la going. No helicopter».
«You, doctor no?».
«This, doctor no help. Just rest. Chai here?».
«No, there».
Capisco che qui non c’è legna per il fuoco.
Riprendiamo la marcia dopo breve tempo, il caldo è ancora più feroce ed io realizzo che vorrei che Purnam mi accompagnasse fino a Bon-la, per i tre giorni di cammino che rimangono, anche se non ne ho un vero bisogno. Sento che oggi mi pesa meno l’andare, ho compagnia. Arrivati ad un ruscello i due si fermano e subito scompaiono in cerca di arbusti secchi, lasciandomi solo a calcinare al sole, mentre mi tolgo in gran fretta scarpe e calze. Non c’è albero, non ci sono massi sporgenti: solo arbusti grigio-verdi e polverosi. Il Braldo è poco lontano, il suo ormai è un muggito potente e continuo. La ricerca degli arbusti dura parecchio, per rendermi utile vado a riempire d’acqua la loro casseruola. Purnam riappare con qualche magro cespo in braccio. Butta per terra, poi cerca tre sassi rotondi, grossi come il pugno della sua mano. Con un fiammifero accende e il fuoco divampa subito: ma il focolare non è pronto, non capisco perché consumi tutta la legna senza metterci sopra la casseruola. Non ho notato che ha messo tra le sterpaglie i tre sassi. «My going big stone atta making».
Dopo riappare anche il silenzioso Gulam, quando vede il fuoco ormai ridotto a brace non si sorprende e gli butta dentro anche i suoi arbusti. Allora comprendo che volevano solo fare brace. Purnam ritorna con l’impasto pronto, ne prende un pezzo, lo scava a tazza, afferra veloce uno dei tre sassi ormai roventi, lo sistema all’interno della concavità e richiude il tutto a palla. Sono curioso ed emozionato, non ho mai visto preparare il roti in questa foggia e poi comincio ad avere fame. Mi sorprende pure la velocità alla quale l’acqua bolle e presto il pranzo è pronto. A me per primo offrono il tè, zuccherato, e il roti che ha il gusto delle cose più semplici e più buone, anche se qualche granello di sabbia scricchiola tra i denti. Alla fine offro una bustina di «müsli». È molto dolce, Purnam ha proprio bisogno di zuccheri. La brace è ormai cenere quando ci prepariamo a ripartire. I due armeggiano dietro al sacco di Gulam, con corde vecchie e poco rassicuranti. Mi alzo ed estraggo dal mio bagaglio due spezzoni di buona corda di nylon, so di farli felici regalandone uno ciascuno.
Mentre andiamo gli domando da dove vengono, mi fa intendere che su in alto ci sono degli animali da pascolare. Poi gli chiedo se gli piacerebbe venire con me per tre giorni fino a Bon-la, lo pagherei 40 rupie al giorno.
«Haji Lambadar, my work».
«And how much pay you Lambadar?».
«No pay».
«Just atta?».
«Atta, yes».
Il lambadar di Askole, il locale sindaco, non può essere considerato uno sfruttatore, ma un normale «ricco» del villaggio. Dunque non paga i suoi uomini, gli dà solo da mangiare. E lui, il mio amico, ha paura di perdere il suo «impiego». Devo avergli sollevato un bel problema, Purnam è incerto se accompagnarmi o no. Alla fine tutto è rimandato a quando arriveremo ad Askole, a quando chiederà al lambadar il permesso. È ormai il primo pomeriggio quando ci inoltriamo nei polverosi viali di Askole, fiancheggiati da rigogliosi pioppi. Bambini ci vengono incontro con schiamazzo, le donne prima ti guardano da lontano poi si girano dall’altra parte ridendo. So che alcuni miei compagni sono già lì; immagino loro distesi in un cortile, all’ombra, sorseggiando tè e scacciando mosche, circondati da almeno una trentina di contadini curiosi che si grattano, tossiscono e sputano. Non mi sbaglio di molto, la scena è proprio quella, c’è anche il lambadar.
Come era facile immaginare il permesso non è concesso a Purnam. Gli metto 50 rupie in tasca senza che altri vedano: dispiace ad entrambi. Poi mi sdraio anch’io, ormai sono un saab come sempre.
«Saab?».
È Gulam Nevi che mi tocca rispettosamente la spalla. Nell’altra mano tiene due uova fresche, che mi porge quasi con devozione. Il mattino dopo spero fino all’ultimo che compaia Purnam, ma non riesco a vederlo in mezzo alla folla. Vedo solo il viso impassibile del lambadar.
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Grazie Alessandro.
Capitolo memorabile e sincero di questa piccola parte della tua vita. E di altri che non avevo potuto osservare in quel mondo “alla fine” che è il K2.
Il Baltoro resterà in me come un viaggio nell’altro mondo e ritorno, la piccola epica delle mie esperienze, un segreto e una liberazione. Non ero e non sono mai stato in grado di salire il grande monte.
Ma ho guardato la fine del mondo. E sono tornato per ricordarmelo ogni giorno.
Il racconto e’ completo, quindi si commentano solo i dettagli e si va anche fuori tema, un incubo ai tempi della scuola, ogni tanto qualcuno riprende e tira le orecchie.L’autore ,meno male ,non lo fa.
Non mi sembra che i commenti, non tutti, seguano il racconto, io li trovo “leggeri” per non dire altro.
5) chiazze anche ai bordi di piste sci ( alpinismo, discesa e fondo) a minor quota…a volte anche dentro i tracciati ,dato che certi atleti non si fermano e scaricano andando..Pure contribuiscono a variare i colori ,i cagnoni portati a passeggio con i padroni che sfondano la pista battuta.DNA a disposizione di indagini .
I rivoli gialli (…) li trovi abitualmente sulle cime e agli attacchi.
Talvolta, come in una piazzola ad alta quota, originarne lo scorrimento superficiale un po’ più distante sarebbe problematico.
Ma nella normale pratica alpina, quasi sempre basterebbero pochi passi in più.
Purtroppo spesso capita di trovare anche i bignè nella nicchia a due passi dall’attacco, dove avevi sempre lasciato lo zaino. Questo è decisamente più fastidioso.
E temo sintomatico.
“In qualche foto si intravvede sotto la tenda una serie di rivoli gialli..”
E’ l’alpinismo d’alta quota, bellezza
“quan’è bella giovinezza quando tutto va per il verso giusto e niente e nessuno ti rompe le giovanili palle.” scrisse Luigi Meneghello scrittore veneto.Una piccola curiosità:…”sto calzando i ghettoni”..Mi pare che i ghettoni integrali rossi in foto non siano piu’usati tra scarponi e ramponi., davano forse alcuni inconvenienti??O sono stati soppiantati da calzature moderne iper isolate con ghette integrata?In qualche foto si intravvede sotto la tenda una serie di rivoli gialli..giusto evidenziare e scrivere di certi problemi ..censurati invece nelle versioni eroiche- romantiche- retoriche-estetizzanti..come pure l’ambientazione verace dei villaggi “.. nugoli dimosche…contadini curiosi che si grattano, tossiscono e sputano.”
In questi testi sulla salita al K2 c’è lo sguardo dentro l’uomo.
C’è la cruda trasparenza che comporta.
C’è la lotta contro l’interesse personale.
C’è la paura di non poter sfuggire da se stessi.
È una dedica a tutti.
Perché la verità passa da quelle pene e sgretola la matrice di quelle domande.
Riconoscere la struttura nella quale ci identifichiamo è un passo a cui fa seguito la liberta dal conosciuto.
Dove la via all’equilibrio si svela.
Allora il monte Analogo esce dalle nebbie e inizia la salita.
Bellissima conclusione di questo bel racconto. Intima, reale.
Grazie Alessandro
Chi non le ha vissute no può commentare quest’imprese che hanno dell’incredibile, per giunta, nel ’79 con mezzi un po’ meno efficaci di quelli che si usano ora. Saluti , con tanta ammirazione. Ciao