La “Linea del tempo”

La “Linea del tempo”
di Rosario Fichera

Sono le quattro del mattino. Mi giro e rigiro, con gli occhi spalancati, nella brandina, cercando di non fare rumore per non disturbare le altre persone che dormono profondamente nella camera affollata dell’ultimo piano del rifugio Pedrotti, in questi giorni di agosto preso letteralmente d’assalto da numerosi alpinisti ed escursionisti.

L’amico Franco Nicolini, guida alpina e maestro d’alpinismo che gestisce il rifugio insieme alla moglie Alessandra e i figli Elena e Federico, mi aveva avvertito: “Se decidi di venire su, dimmelo per tempo, il rifugio è pieno e all’ultimo momento avrei difficoltà a trovarti un posto”.

Naturalmente non l’ho fatto così, mentre tento invano di sonnecchiare sulla brandina di fortuna, in attesa della sveglia, penso che da ora in poi dovrò rispettare rigorosamente una regola che può risultare utilissima in alta quota: ascoltare sempre il consiglio di un amico, soprattutto se gestisce un rifugio.

A pensarci bene, però, non è tanto il russare dei due alpinisti tedeschi del letto a castello accanto a tenermi sveglio, ma la curiosità delle ultime parole con le quali Franco mi ha augurato, ieri sera, la buona notte: “Domani faremo la nostra intervista alla base di quella che io chiamo “l’isola galleggiante” delle Dolomiti di Brenta”.

Nonostante l’insistenza non c’è stato verso di convincere il mio amico a svelarmi il nome di quest’isola galleggiante. A me piacciono i misteri, ma il problema è che non mi fanno dormire.

Mi trovo al rifugio Pedrotti per scrivere una breve storia sull’alpinismo nelle Dolomiti di Brenta. Impresa difficile, naturalmente, e allora chi meglio di Franco Nicolini, alpinista e “concatenatore” straordinario di cime, campione di scialpinismo che delle imprese difficili ne ha fatto uno stile di vita, può aiutarmi a realizzarla?

Non avevo calcolato, però, il dazio da pagare, una bella nottata in bianco, con tanto di misteri a tenermi compagnia. A questo punto non mi resta che aspettare, facendomi cullare – di ogni necessità bisogna far virtù, specialmente in montagna – dalle “piacevoli” vibrazioni sonore dei miei compagni di camera.

Improvvisamente suona la sveglia del mio orologio e, aprendo gli occhi di soprassalto, mi accorgo che l’effetto soporifero dei miei vicini di branda l’avevo in effetti sottovalutato. Sono già le cinque e trenta, mi vesto in fretta, per arrivare primo in bagno. Lavata veloce e via giù, in sala da pranzo dove trovo Franco già pronto per offrirmi una buona tazza di caffè latte fumante.

“Dormito bene?» mi chiede, sorridendo. Non capisco, tuttavia, se lo dice in tono canzonatorio, ma sono ancora troppo addormentato per intavolare un botta e risposta.  

“Sì – gli dico -. Allora, adesso mi puoi svelare la “tua” isola galleggiante?” aggiungo.
“Se sei pronto, la vedrai presto”.

Calziamo gli scarponi, zaino in spalla e via per il sentiero, illuminato dalla luce ancora fredda dell’aurora, mentre i primi raggi del sole si preparano a colorare di rosa le guglie delle Dolomiti di Brenta. Tutte le cime sono immerse in un silenzio assordante, rotto, di tanto in tanto, dal tintinnio dei moschettoni e dei chiodi appesi agli imbraghi di alcuni alpinisti che ci precedono. Avvicinandoci li riconosco, sono i due tedeschi, gli autori della “ninna nanna” che mi ha tenuto compagnia per tutta la notte.

Franco procede veloce, così li raggiungiamo. Io già stento a stare al suo passo, ma davanti ai due alpinisti d’oltre Alpe simulo, alla grande, una smagliante forma fisica e al momento di superarli raccolgo tutta l’aria che ho nei polmoni, salutandoli con un affabile “Guten Morgen! Habt ihr gut geschlafen?”, ripetendolo poi in italiano, “Buongiorno, avete dormito bene?”.

Non attendo la risposta, rivolgo un amichevole cenno di saluto e aggiustandomi lo zaino sulle spalle continuo soddisfatto a seguire la mia guida che mi ha già distanziato di alcuni metri.

Il paesaggio è magnifico: davanti a noi la Bocca di Brenta, uno dei valichi più frequentati del massiccio montuoso, si apre come un ventaglio semichiuso tra la Brenta Bassa e il più imponente massiccio della Brenta Alta, collegando la Valle dei Massodi alla Valle di Brenta, dove siamo diretti.

Superato il valico, mentre scendo lungo i ripidi ghiaioni, lanciando un’occhio al sentiero e uno ai profili eleganti di Cima Margherita protetta alle spalle dalle poderose pareti di Cima Tosa, comincio a formulare qualche sospetto sulla misteriosa “isola” di Franco.    

Ben presto alla nostra sinistra il grandioso versante est del massiccio della Tosa prende il sopravvento, togliendo letteralmente il fiato per la sua bellezza. Per un attimo avverto l’irresistibile richiamo di questa sirena che vuole tutta per sé l’attenzione, ma come Ulisse non mi lascio sedurre e seguendo l’istinto del giornalista, allungo lo sguardo oltre, soffermandomi sul gigantesco pilastro roccioso che, staccandosi verso nord da Cima Tosa, si protende come uno scoglio sulla valle: è il Crozzon di Brenta, con il celeberrimo Spigolo nord.

Avvicinandomi, non ho più dubbi, capisco finalmente che il Crozzon è la nostra meta. E in effetti la montagna, quando ormai non manca molto per il rifugio Brentei, appare come una costola staccata dalla terraferma che, immensa, galleggia in un mare di ghiaioni. Ha ragione Franco e considerando anche la conformazione della parete ovest, convengo che questa struttura rocciosa somiglia proprio a un’isola galleggiante. D’altra parte queste montagne si sono formate circa 260 milioni di anni fa in un ambiente marino simile a un atollo tropicale, parlare quindi di isole è più che appropriato.

Ho risolto così il mistero, ma non riesco a godermi la soddisfazione per averlo svelato che mi assale una nuova curiosità: perché Franco mi ha portato per l’intervista al cospetto del Crozzon di Brenta?       

“Perché su questa montagna hanno arrampicato tra i più grandi nomi che hanno scritto la storia dell’alpinismo nelle Dolomiti di Brenta, dal 1882 ai giorni nostri» mi dice all’improvviso come se stesse leggendo nei miei pensieri.

“Quindi mi vuoi dire che il Crozzon di Brenta è una specie di Bignami della storia dell’alpinismo nelle Dolomi di Brenta?” gli chiedo.

“In un certo senso sì: attraverso alcune delle vie di scalata più belle che sono state realizzate sul Crozzon, e di cui parlo nel mio libro Le perle del Brenta, volendo possiamo ripercorrere, in linea generale, la storia dell’alpinismo in Brenta. Ogni via di scalata rispecchia, infatti,  i propri tempi, per l’approccio che avevano dell’alpinismo i loro autori, i materiali utilizzati, il modo di concepirla e d’interpretarla, segnando così un’epoca» risponde Franco.

La prospettiva mi affascina. Ci sediamo, apro il bloc-notes e comincio a prendere appunti. Sarà l’effetto del Crozzon di Brenta, ma Franco sembra un fiume in piena. Inizio così la mia intervista.

“Allora da dove cominciamo il nostro viaggio?” gli chiedo.
“Dalla Cima Tosa” mi risponde Franco.
“Scusa, ma non hai detto che avremmo ripercorso le scalate sul Crozzon di Brenta?”.

“Appunto, ma la prima cima del Crozzon ad essere conquistata, quella sud, fu raggiunta, nel luglio del 1882, da Oskar Baumann e Matteo Nicolussi passando proprio per Cima Tosa che, a sua volta, fu scalata  per la prima volta nel luglio del 1865. Ecco perché è importante partire da Cima Tosa, una montagna la cui conquista, insieme alla traversata della Bocca di Brenta, compiuta nel 1864 da John Ball, insieme ai fratelli Matteo e Bonifacio Nicolussi, rappresenta uno dei momenti fondamentali della prima fase della storia dell’alpinismo nelle Dolomiti di Brenta, quella dell’esplorazione”.

“Quanto tempo dura questa fase?”
“Per il giornalista e scrittore Franco de Battaglia dal 1864, con la traversata della Bocca di Brenta, al 1881, con la costruzione del rifugio Tosa. E io concordo con questa tesi”.
“Un periodo, quindi, abbastanza lungo, di circa 20 anni che, se non slaglio, sono stati dominati soprattutto dagli alpinisti inglesi e tedeschi, come John Ball, Julius Payer, Douglas Freshfield. E gli alpinisti locali?”.

Franco riflette, poi continua: “La pubblicità, le cronache dei giornali e dei resoconti ufficiali dei club alpini dell’epoca hanno dato più spazio a questi alpinisti-esploratori, ma le loro imprese sarebbero rimaste incompiute se non ci fosse stato il ruolo determinante delle guide locali, come i fratelli Matteo e Bonifacio Nicolussi, di Molveno, protagonisti dell’esplorazione del Gruppo di Brenta”.

Io lo incalzo e osservo: “Esplorazioni, però, che iniziarono a fare più come cacciatori che come guide”.

“È vero, andavano a caccia di camosci, ma in loro, così come sarà per altre famiglie di guide, come gli Alimonta, i Vidi, Dallagiacoma, Ferreri, Zeni, Donini, c’erano tutte le caratteristiche della guida alpina moderna: il desiderio della scoperta, dell’avventura, la capacità di assumersi le responsabilità senza fare correre al cliente rischi inutili, il rispetto della montagna, con la consapevolezza che la natura, se voleva, poteva essere implacabile, severa, ma allo stesso tempo dolce e affascinante. Ma oltre le guide-cacciatori, un ruolo importante in questa fase di scoperta delle Dolomiti di Brenta lo hanno avuto anche gli alpinisti italiani come Giuseppe Loss, Nepomuceno Bolognini, Germano Parisi, Giovanni Carlina. Il primo a conquistare Cima Tosa, non dobbiamo dimenticare, è stato il 20 luglio del 1865, proprio Giuseppe Loss, insieme ad altri sei compagni; e appena qualche giorno dopo, la cordata formata da Germano Parisi, Giovanni Carlina con altri cacciatori ripete l’impresa”.

Io, però, manifesto i miei dubbi. “Sì, ma la scalata alla Tosa di cui si parla di più, non è quella di Loss e tantomeno della coppia Parisi-Carlina, ma quella del 4 agosto di John Ball, William Edward Forster e Matteo Nicolussi, la terza cordata ad essere arrivata in cima. Ball affermò di non avere mai sentito parlare della salita di Loss e di non avere trovato in vetta nessun segnale di passaggio di chicchessia”.

Franco annuisce. “Hai ragione, ma l’inglese, rispetto all’alpinista italiano, aveva la forza degli sponsor e della pubblicità. Loss, tuttavia, cercò di affermare il primato, pubblicando il resoconto della sua impresa sulla rivista La valle di Non e non ci sono dubbi sull’autenticità di ciò che ha fatto”.

“Ma veniamo al 1881: perché sostieni che con la costruzione del rifugio Tosa finisce la prima fase dell’alpinismo esplorativo? Non è che, senza volerlo, “tifi” per questa tesi anche per il tuo ruolo di gestore del rifugio Pedrotti?”.

Franco sorride. “Assolutamente no, anche se l’esperienza di rifugista ha rafforzato questa idea che ho sempre avuto. Con la costruzione del rifugio Tosa si chiude la stagione dell’esplorazione e inizia la fase della conquista delle vette. Come ha scritto Franco de Battaglia, gli “esploratori se ne vanno e arrivano gli scalatori”. Ciò che caratterizza questa nuova fase dell’alpinismo è l’affermazione delle proprie capacità sulla montagna, la risoluzione dei grandi problemi alpinistici, come la scalata al Crozzon di Brenta, fino a quel tempo irrisolta. Per mettere in pratica queste imprese, la logistica, così come avviene ancora oggi, costituiva un fattore determinante, essenziale: avere a disposizione in quota un campo base avanzato, come un rifugio alpino, poteva rappresentare la chiave di volta per il successo della scalata. Il rifugio rappresentava, ieri come oggi, non solo un punto di ristoro, ma soprattutto un luogo dove potersi riposare, dove trovare protezione e aiuto in caso di necessità. Il debutto di questa nuova visione dell’alpinismo andò in scena  proprio sul palcoscenico del Crozzon di Brenta, la cui cima è costituita da una cresta di tre punte: la sud, la cima di mezzo e la nord, la più alta. La conquista della prima cima avvenne, come ho detto prima, il 16 luglio del 1882 ad opera di Oskar Baumann e Matteo Nicolussi. Dopo quella prima impresa seguirono altri tentativi per domare la seconda e la terza vetta, quest’ultima raggiunta solo l’8 agosto del 1884 dal professor Karl Schulz e Matteo Nicolussi, anticipando di un soffio un altro famoso alpinista del tempo, Alberto de Falkner”.

“Quanti anni è durata questa fase della conquista?”.

“Fino a tutti gli anni Venti del secolo scorso: in questo periodo le pagine della storia delle Dolomiti di Brenta si riempiono di nomi memorabili, come Carlo Garbari e Nino Pooli, gli scopritori nell’agosto del 1897, insieme alla guida Antonio Tavernaro, della via di salita al Campanile Basso, senza riuscire però a superare gli ultimi 35 metri che li separavano dalla vetta. Cima che poi fu vinta nel 1899 da Otto Ampferer e Karl Berger, studenti di Innsbruck. Un altro grande nome di questo periodo è stato Luigi Scotoni che nel 1908, proprio qui sul Crozzon di Brenta, scalò in solitaria lo Spigolo nord, aperto nel luglio del 1905 da Fritz Schneider e Adolf Schulz. E poi ancora il grande Angelo Dibona che si ricorda soprattutto per la sua magnifica scalata, nell’agosto del 1910, della parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo, con Luigi Rizzi, Guido e Max Mayer. Ma questo è anche il periodo dell’indimenticabile e inimitabile Paul Preuss autore, nel 1911, di alcune salite memorabili, nelle quali secondo la sua visione esistevano solo due entità che dovevano confrontarsi: l’uomo e la montagna. Sono soprattutto due i capolavori che lo hanno consacrato nell’olimpo dell’alpinismo: l’omonima via sul Campanile Basso, un vera opera d’arte, aperta in solitaria e poi, secondo me, quella sul Crozzon di Brenta, sull’imponente parete nord-est, insieme a Paul Relly. Come puoi notare il nostro Crozzon di Brenta è sempre protagonista”.

“Già!» commento sempre più interessato. Poi chiedo: “In questo periodo nascono altri rifugi sulle Dolomiti di Brenta?”.

“Sì, nel 1906 la sezione di Berlino dell’Alpenverein costruisce il rifugio Tuckett; per tutta risposta nel 1907 la SAT realizza il rifugio Garbari ai XII Apostoli”.

“L’alpinismo cosiddetto di conquista si protrae fino a tutti gli anni Venti del secolo scorso e dopo cosa accade?”.

“Negli anni Trenta arriva l’alpinismo dell’individualismo”.

“In che senso? Mi sembra una definizione, come dire, piuttosto severa”.

“Non sono il solo a pensarla così. Sempre Franco de Battaglia ha scritto che il comune denominatore di questo periodo è l’individualismo nell’impresa alpinistica, perché la montagna non è più vissuta come un qualcosa con cui confrontarsi, alla Preuss per intenderci, ma come una proiezione dell’Io. Ogni scalata esprime le paure, il coraggio, le fantasie, le passioni, l’esibizionismo o l’umiltà di chi la compie. La montagna diventa un terreno di gioco nel quale esprimersi, dove realizzare azioni eroiche, audaci, esteticamente affascinanti, e dove la competizione tra cordate viene vissuta forse con più intensità rispetto a prima”.

“Durante questa fase storica si avvicendano nomi famosissimi dell’alpinismo?”.

Il tono di voce di Franco si fa più incalzante. “Sì, nomi nei confronti dei quali nutro una profonda ammirazione e che ancora oggi rappresentano dei punti di riferimento per ogni scalatore. Sono davvero numerosi, è impossibile ricordarli tutti, posso citarne alcuni, come i fratelli Detassis, con il grandissimo Bruno, Catullo e Giordano e poi Ettore Castiglioni, Giorgio Graffer, Ulisse Battistata, Gino Pisoni, Marino Stenico, Enrico Giordani, Matteo Armani che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione del rifugio Agostini”.

“Dall’entusiasmo con cui ne parli sembri affascinato da questo periodo storico?”.

 “Sì, non lo posso nascondere, tutti questi nomi sono stati per gli alpinisti della mia generazione delle icone, con i loro difetti e i loro pregi”.

“C’è qualcuno di loro che definiresti il tuo preferito?” chiedo, immaginando già la risposta.

 “Beh, sì: Bruno Detassis”.

“Perché?”.

“Perché da lui ho imparato che nella scalata bisogna cercare il facile nel difficile; perché ha aperto vie meravigliose, come la Via delle Guide sul nostro Crozzon di Brenta, nel 1935 insieme a Enrico Giordani; perché è stato un antisignano dello scialpinismo, compiendo, nel 1956, con il fratello Catullo, Angelo Righini e Fortunato Donini, la traversata integrale delle Alpi con gli sci; perché è stato uno dei realizzatori e più convinti sostenitori, lavorandoci direttamente, con una visione straordinaria, della nascita delle “Via delle Bocchette” per permettere anche agli escursionisti di vivere l’esperienza unica e indimenticabile di entrare a contatto con il cuore delle Dolomiti di Brenta (una “visione dantesca” diceva) lasciando le cime agli alpinisti. Bruno della Via delle Bocchette diceva: “Le Bocchette non sono alpinismo, sono quelle che portano all’alpinismo”. Ma la sua figura mi ha pure affascinato perché ha sempre dedicato attenzione ai giovani, insegnando loro l’umiltà e la regola che nella cordata non c’è né primo, né secondo, perché se non passa il secondo il primo deve tornare indietro e viceversa”.

Io annuisco ammirato, poi continuo: “Torniamo al nostro Bignami delle Dolomiti di Brenta, il Crozzon, e facciamo il punto della situazione: attraverso le scalate di Oskar Baumann e Matteo Nicolussi del 1882, quella solitaria di Luigi Scotoni del 1908 e quella di Bruno ed Enrico Giordani del 1935 abbiamo ripercorso tre fasi importanti della storia dell’alpinismo nelle Dolomiti di Brenta, arrivando grosso modo alla fine degli anni Quaranta. C’è adesso una via sul Crozzon che c’introduce negli anni Cinquanta e Sessanta?”.

“Certo, il bellissimo Diedro Aste sulla parete nord-est, aperto nell’agosto del 1959 da Armando Aste e Milo Navasa. Questi sono gli anni dei grandi Armando Aste, Hermann Buhl, Cesare Maestri, il ragno delle Dolomiti, uno dei primi ad introdurre al tempo la scalata artificiale, ma anche uno dei maggiori artefici dell’alpinismo in solitaria, ripercorrendo le orme di Preuss. Da quest’ultimo punto di vista è rimasta memorabile la sua straordinaria discesa in libera, nel 1956, lungo la Via della Guide sul nostro Crozzon di Brenta dopo avere gettato nel vuoto la corda. Salire e scendere in libera, senza corda, per lui rappresentava un rischio calcolato, affermando: ‘Ogni volta che ho sentito di non essere in grado di superare un passaggio senza rischiare di cadere, mi sono ritirato'”.

“La scalata artificiale ha vissuto il massimo della moda tra gli anni Sessanta e Settanta?”.

“Sì, durante questo periodo l’alpinismo ha preso una strana direzione,  si è iniziato a scalare ultilizzando “il ferro”, materiali duri, penso agli scarponi con le anime di acciaio, ai chiodi a pressione, alle staffe, dove ciò che contava era passare ad ogni costo, anche ricorrendo a mezzi artificiali. Occorreva molta tecnica e bravura per praticare questo tipo di alpinismo, ma non l’ho mai prediletto”.

“Gli anni Settanta sono stati anche quelli delle difficilissime prime invernali?”.

“Sì. In questo periodo nelle Dolomiti di Brenta si sono affermati bravissimi alpinisti come Valentino Chini, Marco Pilati, Franco Gadotti, Ezio Alimonta, Bepi Loss, Renato Comper, Alberto Dorigatti, Andrea Andreotti e numerosi stranieri, come per esempio il fortissimo belga Claude Barbier o ancora Heinz Steinkötter, con la moglie Vitty, diventati poi “trentini” di adozione. Con loro inizia il periodo delle prime invernali, imprese belle e come hai detto tu difficili”.

“Poi arrivano i mitici anni Ottanta. Dico mitici perché sono i tuoi anni, quelli della tua generazione”.

Franco fa una smorfia di simpatia. “Sì, ma guarda che ancora io sono in piena attività, non ho ancora appeso le scarpette al chiodo, così come molti miei amici alpinisti della stessa età”.

“Certo, certo… In quegli anni, oltre a te si affermano in Brenta nomi come Ermanno Salvaterra, Elio Orlandi, Marco Furlani, Maurizio Giarolli, solo per citarne alcuni. Come lo definiresti questo periodo storico dell’alpinismo in Brenta?”.

“Della fantasia”.

“Perché?”.

“Perché negli anni precedenti quasi tutte le vette del Brenta erano state scalate in lungo e in largo, in qualsiasi stagione e in diversi stili. Rimaneva poco spazio per le prime, ad eccezione di qualche invernale, come la prima invernale alla via Fehrmann sul Campanile Basso realizzata nel dicembre del 1970 dalla cordata composta da Andrea Andreotti, Piero Franceschini e Tarcisio Pedrotti. Come essere allora originali? Così si è dato libero sfogo alla fantasia e oltre all’evoluzione della tecnica di scalata, con il superamento del mitico sesto grado, ci siamo dedicati ai concatenamenti, alle salite a tempo, alle combinate, aprendo le porte al cosiddetto alpinismo moderno”.

“Negli anni Ottanta sul nostro Crozzon sono state aperte delle belle vie?”.

“Certo, una delle perle che descrivo nel mio libro: la bellissima Via Slovena, sulla parete nord-est, aperta nel 1984, quasi totalmente in arrampicata libera, da Pavle Kozjek e Aleš Dolenc, ad oggi con una sola ripetizione. Sulla stessa parete, siamo adesso arrivati nella nostra storia agli anni Novanta, esattamente nel 1993, Maurizio Giordani e Stefano Pellegrino hanno poi aperto un nuovo tracciato, la Linea nera, scoprendo qualche giorno dopo che in parte era stata già percorsa dai due sloveni. Ormai in Brenta l’alpinismo si è aperto a una nuova dimensione”.

“Quale?”.

“Quella dei giovani “2.0”, degli anni Duemila e anche in questo caso il Crozzon di Brenta ci permette di vivere questa fase: nel 2011, sulla parete ovest, i fratelli Simone e Thomas Franchini hanno aperto la Via delle Regole,  di sicuro una delle vie più difficili del Brenta, sia per le difficoltà tecniche, sia per la componente psicologica; via percorsa solo con le protezioni tradizionali. In questi ultimi anni si è oltrepassata una nuova frontiera della scalata, superando in libera difficoltà un tempo ritenute impossibili, ma in molti di questi giovani “2.0” si ritrovano quei valori che hanno caratterizzato gli oltre 150 anni di storia dell’alpinismo in Brenta, come se si fosse compiuto una sorta di continuo passaggio di testimone. E in fondo è proprio questa la bellezza dell’alpinismo, una progressiva evoluzione nel tempo sulla stessa linea di chi ci ha preceduto”.

“Una linea che tu, Franco, oggi hai cercato di ricreare sul Crozzon di Brenta e che potrebbe anche diventare una nuova via di scalata?”.

“E perché no, la potremmo chiamare La linea del tempo“.

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La “Linea del tempo” ultima modifica: 2023-03-26T05:38:00+02:00 da GognaBlog

2 pensieri su “La “Linea del tempo””

  1. Bellissimo Articolo!
    Il nome e cognome dell’autore sembrano essere siciliani.

  2. Stuzzicante idea quella di inserire la descrizione storico-geopgrafica in un dialogo fra amici. Cattura l’interesse dei lettori, anche di chi conosce già le vicende in quanto tali. Bell’esperimento, riuscito.

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