La madre di tutte le pareti
(scritto nel 2000)
Ero reduce da un agitato pomeriggio nella Monaco dell’Oktoberfest, seguito da un’ancora più agitata notte alla ricerca di un qualsiasi posto per dormire che non fosse sotto un ponte. Gli aceri della Grosser Ahornboden erano il colore forte di una giornata grigia e ventosa. A chiudere la conca è un precipizio di mille metri, la parete nord est della Grubenkarspitze, teatro già delle grandi imprese di Toni e Franz Schmid (futuri salitori della Nord del Cervino) nel 1931, e di Franz Baumann, Bruno Wimmer, Heinz Zembsch e Klaus Minnermayer nel 1966. Alla vista di quella parete impressionante, ricordo l’emozione e il mal di testa della lenta salita allo Hohljoch, nell’attesa di vedere il sogno della mia vita, la grande parete, quella Lalidererwand che tanto posto aveva fino ad allora occupato nei miei sogni di folle ricerca del grande passato.
Al valico, con Bibiana Ferrari eravamo nel cuore del Karwendel bavarese e finalmente ci apparvero gli 800 metri della muraglia. Anche in quell’occasione ebbi il segno di quanto profondo sia l’amore che porto per un’idea. Di fronte al Capitan, in California, ebbi l’impressione, vedendolo la prima volta, che fosse più alto della pur esatta quantità di metri che mi figuravo. La Lalidererwand era invece un mondo di favola ad un’indescrivibile potenza, uno scherno che sghignazzava proporzioni irraggiungibili, un mistero nitido per pochi eletti. Guida alla mano cercavo, nella minaccia della pioggia e nella necessità di raggiungere il rifugio, di dare coordinate topografiche e storiche ad una visione che tendeva a sfuggire lontano nel vento furioso e ululante.
Questo complesso insieme (900 kmq) di quattro catene parallele di montagne è compreso tra Innsbruck e il confine con la Germania, mentre a ovest il corso dell’Isar lo separa nettamente dal Wetterstein. La più meridionale delle catene, tutte disposte da ovest a est, è la Nördkette, proprio sopra Innsbruck, vicino al gruppo della Erlspitze, vicino a Seefeld. La seconda è quella di Gleirsch-Halltal-Kette. La terza, Vomper Kette, comprende le pareti principali, tra le quali spicca la Lalidererwand, e la vetta più alta, la Birkkarspitze 2749 m. La quarta è la Nördliche Kette. É con il Karwendel che le Prealpi Bavaresi assumono il massimo carattere, una severità fatta di roccia assai simile a quella delle Odle, con grandi e tetre pareti grigiastre, solcate da scoli d’acqua spesso ghiacciati, che precipitano in lunghe valli meno severe, a volte dolci nel tripudio dei colori autunnali. L’origine del nome è controversa: mentre alcuni rilevano tracce in antichi documenti di toponimi come Karavant o anche Garwendelau, altri più poetici vorrebbero una derivazione dal detto Endlose Käre und Wände (pareti e valloni senza fine). La storia alpinistica ricalca le modalità comuni all’arco alpino, con la variante di aver spesso preceduto i salti di qualità nelle singole epoche. I pionieri furono Julius Pock, Hermann von Barth, Hermann Delago e Ludwig Purtscheller. Una seconda generazione comprese il conquistatore del Campanile Basso, Otto Ampferer, poi Otto Melzer e Ingenuin Hechenbleickner.
Subito passiamo sotto la parete a destra del Grubenkarpfeiler, 650 metri di parete con la via di Mathias Rebitsch e Karl Dressel (1945) e quella di Klaus Werner e Christa Minameyer (1973).
Angelo Dibona, nei suoi magri appunti autobiografici, solo due volte afferma di essersi in certo qual modo superato. La prima volta è sulla Lalidererwand (1911): qui egli afferma che «la vittoria sulla Lalidererwand superò quella di Cima Una». La seconda volta in occasione dello spigolo est del Dent du Requin (1913), nel Monte Bianco, che definisce la sua salita «più faticosa».
La via Dibona alla Lalidererwand, impresa compiuta assieme ai soliti clienti Max e Guido Mayer ed a Luigi Rizzi, richiese alla grande guida cortinese l’uso di qualche chiodo, quando sul Croz dell’Altissimo lo stesso Dibona non ne aveva usato neppure uno: cosa confermata da Paul Preuss e Paul Relly, durante la prima ripetizione sul Croz. La Lalidererwand fu in quegli anni il fulcro attorno al quale ruotavano i grandi problemi dell’arrampicamento estremo. A parte l’outsider Dibona, la figura più rappresentativa di quel tempo è Otto Herzog che su queste pareti, tra il 1913 e il 1930, produsse una quantità di vie nuove di altissimo livello tecnico. Egli non fu certo l’unico, perché questo è il campo addestramento della mitica Scuola di Monaco. Che fosse la parete più vicina a Monaco, caso o non caso, era un fatto. Qui, e non sulle Dolomiti, dopo la grande impresa di Dibona, ci fu il vero avanzamento verso il sesto grado. E a distanza di anni possiamo dire che la differenza tra la Scuola di Monaco e gli italiani era molto più consistente di quanto allora già ci si accorgesse.
Ecco, appena a sinistra della Lalidererwand vera e propria, praticamente la continuazione, la Nord della Dreizinkenspitze, di Otto Herzog e Gustav Haber. Su di essa corre il diedro Ha-He (Ha-He Verschneidung), dalle iniziali dei primi salitori, che fu superato in tre giorni nel 1922 e fu ripetuto soltanto trent’anni dopo. Quello fu il primo vero sesto superiore, 400 metri decisamente più difficili della Furchetta, del Sass Maor, dei tratti impegnativi della Civetta. Ma la Dreizinkenspitze è nelle Prealpi Bavaresi e pochi in Italia e nel mondo ne seppero subito qualcosa. Ora lo so, lo vedo.
E poi la Lalidererwand. Individuo la Klaus Werner-Gedächtnisführe, di Joseph Ritter e Günther Schweisshelm (1976), e subito dopo la via di Armin Erdenkäufer e Otto Sigl (1966).
Ancora a destra è del 1929 la diretta di Toni Schmid ed Ernst Krebs. Il progresso della Scuola di Monaco era davvero inarrestabile. Si resta confusi, oggi, a guardare, anche solo dal basso, questa realizzazione su una muraglia davvero spaventosa. Dopo Alptraum di Reinhard e Gerhard Pickl (1979, una specie d’incompiuta che in alto piega a sinistra sulla Schmid-Krebs), ecco la Dibona, unico varco possibile per quei tempi. Ma che linea, in quale posto mostruoso è stata tracciata. Sembra che l’unico percorso ammissibile abbia comunque rilevato tutti gli orrori verticali e strapiombanti delle rocce circostanti, un crepaccio che concentra su di sé le ostilità dell’impossibile attorno. È quasi con sollievo che rivolgo lo sguardo alle ultime vie della parete, prima del fantastico spigolo settentrionale. Anzitutto osservo i due capolavori di Mathias «Hias» Rebitsch almeno uno dei quali non dispero un giorno di poter ancora ripetere: il Nordverschneidung, che Rebitsch tracciò nel 1947 con Franz Lorenz, un itinerario di 700 metri che si potrebbe già definire di VII grado; e, più a destra, la Gerade Nordwand, altri 700 metri su aperta parete saliti nel 1946 in due riprese, la prima con Sepp Spiegl, la seconda con Kuno Rainer (la prima integrale fu di Hermann Buhl con Luis Vigl, 1947). In mezzo a questi due itinerari, così diversi di concezione e di metodo, si svolgono la Nordwand di Mathias Auckenthaler e Hannes Schmidhuber, 1932 (risposta tedesca ai primi sesti gradi italiani sulla Civetta e sulla Marmolada) e la Charlie Chaplin di Heinz Mariacher e Peter Brandstätter, 1977, un capolavoro del free climbing moderno. Siamo alla conclusione: lo spigolo nord, una via di V grado spesso ripetuta per la sua estetica linea, quell’Herzogkante che nel 1911 fu la prima via della parete ma che la chiude e la chiuderà per sempre a occidente. Così come io chiudo frettoloso le pagine della mia guida.
È con le mani semiassiderate che entriamo nella Falkenhütte: stringo in una morsa di desiderio il libricino che ha appena finito, nel modo più asettico e sintetico, di raccontarmi in tedesco le mirabili gesta degli eroi moderni. L’immaginazione ha balzato più volte avanti e indietro da quelle righe alle rocce, dalle foto in bianco&nero a ciò che avevo letto sui libri, in un viaggio senza più alcun tempo in cui l’espressione geografica del momento si confondeva di continuo con i gesti di una mia fantastica salita e con l’immedesimazione nel tempo in cui i protagonisti lottavano con la parete o ne studiavano dalla base le difese.
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Be’, Capo, mi sembra di capire che quella volta la scuola di Monaco abbia colpito ancora… ma a suon di birre.