La mezzanotte
(manifesto di un movimento)
di Alberto Gandiglio
Quasi mai si può raccontare al passato una storia che ancora deve svolgersi. Beh, questo è uno di quei rari casi. Il perché è semplice, bisognerebbe sempre dire ad alta voce ciò che si desidera, è una specie di karma, comunicarlo, condividerlo, solo così potrebbe avverarsi. Quel che ne esce fuori è un racconto tra realtà e immaginazione, ma il confine non è netto, sta a voi decidere quando è reale e quando inizia il sogno.
Si dice che chi ben comincia è a metà dell’opera, ma non è sempre così. Il 2019 era stato sicuramente un anno poco fortunato per me, iniziato su una panchina panoramica in collina, da solo, a fumare un sigaro. Per me era libertà, nessuna festa cui partecipare facendo finta di essere felici che un altro anno se n’era andato, no, solo una strana sensazione agrodolce di malinconia e gratitudine per i bei giorni passati. Buon 2019 Alberto.

La mattina dopo ero a scalare nuovamente da solo in falesia a Borgone, malinconico di non so più cosa e sereno come sempre, in forma come mai prima. Nei giorni successivi, in cui mi erano state concesse delle ferie, scalai diverse vie note e impegnative in bassa valle, fino al 13 gennaio. L’inverno era stato caldissimo e quella maledetta domenica sarei dovuto essere a pranzo, per la prima volta, con i genitori di Irene, la ragazza che frequentavo da un anno, la quale sarebbe partita il giorno successivo per Londra, con un contratto di lavoro di un anno in tasca. Tutto perfetto, non fosse che noi alpinisti non ne abbiamo mai abbastanza, era bastato un messaggio a scatenare la tragedia: “Ciao Cami, via veloce in Valle Orco? A casa tassativamente per pranzo”.
E’ chiaro che a pranzo a casa non ci arrivai mai, anzi, esattamente a mezzogiorno, invece di stringere la mano della mia ragazza di nascosto dai suoi genitori sotto il tavolo, mi trovavo in aria. Volavo. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio, e una cengia di roccia di 50 centimetri posta 8 metri sotto di me non fu decisamente uno degli atterraggi migliori.

La faccio breve, con Irene mi lasciai a marzo, ognuno incapace di sopportare i desideri dell’altro, lei che seguiva il suo sogno di passare un anno all’estero, e io che volevo solo sentirmi libero attaccato a qualche parete, due desideri troppo grandi per riuscire a coltivare anche una relazione. Nello stesso mese lasciai anche il lavoro, il mio piede sbriciolato, che mi avrebbe garantito almeno tre comodi mesi di mutua, si scontrò con il mio genetico senso del dovere, che ebbe la peggio. A lavoro, dove ero autista, col piede ingessato non potevo far altro che stare al computer, ma non era senz’altro la mia mansione. Dopo una settimana a schiacciare bottoni presi le mie stampelle e mi alzai per l’ultima volta da quella comodissima sedia.
Ciao pareti, ciao lavoro, ciao Irene, ciao sicurezze di una vita.
A casa con molto tempo libero e nulla da fare continuavo a ripetermi che non dovevo sentirmi in colpa per ciò che era successo, non me l’ero cercata, era lei, la sfortuna, che mi aveva trovato, nel posto sbagliato, al momento più sbagliato di sempre. Fatto sta che avevo di fronte a me una situazione che si presenta poche volte nella vita: una pagina bianca, la possibilità di reinventarmi, di ripartire da zero, puntando in qualunque direzione io volessi.

Si sa che le cose, se le si desidera ardentemente, si avverano, così trovai, appena reimparato a camminare, un lavoro vicino a casa dove facevo ciò che mi piaceva e con un orario congeniale per unire dovere e piacere. La roccia riiniziai a toccarla a maggio dopo mesi di inattività fisica, ma intenso allenamento mentale sulle pagine ingiallite di qualche libro di montagna. Una volta tolta la ruggine scoprii sorprendentemente che non avevo perso la mia forma, ma anzi, ero migliorato, più consapevole, ora, dei rischi e di come prevenirli.
Quell’estate, nonostante gli strascichi che l’infortunio mi lasciò, scalai diverse vie impegnative e temute in ambienti severi con compagni di cordata sempre diversi. A fine luglio, con mio cugino, tornai ad aprire una via nuova negli amati rilievi adiacenti alla pianura. L’esame era superato, ero in forma, fisica e mentale. La sera continuavo a leggere storie e miti dei miei eroi degli anni Settanta e Ottanta, capelloni, baffuti, vestiti trasandati, intellettuali e incredibilmente dotati di forza, eleganza e inventiva per superare di slancio, con mentalità e stile nuovo per noi italiani, pareti mai considerate.
Quell’estate non pestai neanche una volta neve o ghiaccio. Mi ero dedicato solamente all’arrampicata su roccia. Ma precipitazioni precoci crearono condizioni ottimali per effettuare salite alpinistiche in quota. Bisognava approfittarne.

Come compagno di cordata tornò, dopo più di un anno, Enea Carone. Lo conobbi due anni prima, in un bar. In quel periodo avevo come compagno di cordata Daniele, non avrei potuto chiederne di migliore, allora cercai di liquidare Enea facendo il superiore e elencandogli qualche salita che avremmo effettuato da lì a breve, itinerari poco o nulla conosciuti, con un numero di ripetizioni che si potevano contare sulle dita di due mani. Ma, incredibilmente, erano le stesse salite che sognava e aveva in programma lui, e che dicesse il vero non vi erano dubbi, i suoi occhi brillavano di entusiasmo.
Facemmo allora qualche bella uscita insieme con i nostri rispettivi soci di cordata, aprendo anche nuovi itinerari. Gli ideali erano gli stessi, ma avevamo stili molto diversi, lui molto riflessivo, preciso, puntiglioso, io ero istinto puro, più rude, impulsivo.
Le nostre strade si allontanarono fino all’inverno successivo, dove una serie di inevitabili conseguenze ci portò di nuovo in montagna insieme. Finalmente con Enea avevo trovato il giusto feeling. Entrambi avevamo avuto disavventure per colpa dei nostri stili, la mia impulsività mi costrinse a tre mesi con un piede ingessato, mentre la sua precisione esasperata invece gli fece compagnia in qualche bivacco non proprio piacevole. Ci ritrovammo perciò sulla via di mezzo giusta, perfettamente allenati e con un procedere veloce ma sicuro.

Enea era estremamente intelligente, aperto a tutto, uno di quelli che non si curava dei pareri degli altri, allora eccolo che la sera, quando ci ritrovavamo in centro paese a berci una birra lui si presentava in ciabatte, pantaloni lilla a quadrettoni e la sua immancabile cagnolina. Qualsiasi cosa mi passasse per la testa, anche la più stupida e apparentemente irrealizzabile e insensata, lui la analizzava attentamente come si analizza un problema matematico, e, nonostante la sua risposta fosse sorprendentemente sempre la stessa, io attendevo ogni volta con trepidazione il suo verdetto: “Sì Gandi, secondo me si può fare”.
Partimmo allora, verso zone poco o per nulla battute nelle montagne limitrofe a Torino. Non avevamo programmi, orari, aspettative, recensioni, non avevamo nulla, solo il nostro materiale e la nostra strabordante voglia di esplorare, di fare qualcosa di nuovo. Fu così che aprimmo diverse vie di misto, neve e ghiaccio, ma nessuna di queste fu recensita. Lo facevamo per noi, appagavamo semplicemente la nostra voglia di scoprire, di misurarci con l’ignoto. Assecondavamo un bisogno. Pensavamo entrambi che il ripetere le vie classiche, con descrizioni dettagliatissime e infinite recensioni, assassinava l’avventura che disperatamente cercavamo nell’andare in montagna. Ma a pensarci bene dove era finita l’avventura? Tutto sembrava essere stato fatto. Tutto era stato chiodato per garantire la sicurezza di tutti. Chiunque aveva la possibilità di provare e arrivare, in modo più o meno dignitoso, in cima. Ma non è sempre stato così. E noi, grazie al fascino che subivamo dei personaggi del passato, lo sapevamo bene. Chi aveva iniziato ad andare in montagna lo aveva fatto per affrontare l’ignoto e spingersi oltre, per ridisegnare i limiti o dimostrare che non esistono limiti, per mettere in discussione quella che era proposta come realtà, ma altro non era che un artificio, per prendere le distanze da regole inventate, insomma, per onorare l’incantevole quanto inutile dea dell’avventura.

Volevamo dare una svegliata al mondo della montagna, ma come fare? Come potevamo portare ciò che ci affascinava del vecchio alpinismo nel mondo di oggi? E come potevamo adattarlo perché non suonasse anacronistico? Non potevamo di certo andare a schiodare le vie in Sbarua o a Finale ligure, o indirizzare il grande pubblico verso gli angoli più remoti e selvaggi delle nostre valli per cercare quei piccoli rimasugli di verginità. No, i luoghi sarebbero stati i soliti, quelli delle grandi classiche. Ciò che avremmo rinnovato era il modo di salire e di vedere la scalata. Un nuovo modo di viverla. Ma come fare?
Nelle giornate passate in falesia le provammo tutte: scalavamo bendati, scalzi, salivamo placche senza usare le mani, suonavamo strumenti musicali nelle piccole cenge di roccia che trovavamo in parete, attaccavamo vie senza sapere né gradi né difficoltà, ci assicuravamo a spalle, scalavamo slegati, ci calavamo senza assicuratori. Era tutto incredibilmente divertente, ma nulla sembrava potesse avere davvero un senso oggettivo o una certa utilità.
L’ispirazione ci venne grazie alla grande passione che avevamo per la storia dell’alpinismo. I libri ce lo insegnavano, le stesse decisioni, prese in annate e contesti differenti, provocano risultati diversi e imprevedibili. Proprio come fecero i visionari degli anni Settanta, guardammo un po’ più in là, oltre oceano. Cavolo, una piccola manciata di professionisti si sfidava sulla parete più famosa della terra scalando mille metri in meno di 2 ore. Era un attività pericolosissima che richiedeva una padronanza tale da poter essere praticata solo da pochissimi scalatori al mondo. Era l’essenza spogliata di tutto il superfluo. Il cosiddetto stile fast & light, veloce e leggero. Andare leggeri ci interessava senz’altro dopo tutti gli anni passati a percorrere marce eterne con zaini inutilmente pienissimi e pesantissimi, ma di andare veloci non ci interessava più di tanto. Volevamo solo divertirci sfidando noi stessi e le nostre paure, non sfidare il tempo che qualcuno aveva fermato su uno stupido cronometro. Fu così che nacque lo stile che chiamammo fun & light.

Un taglia e cuci tra un passato più remoto e uno più recente con un presente per noi lontano. Il vecchio spirito di avventura, alleggerito dal peso delle regole e del sacrificio della lotta all’alpe, con la libertà del nuovo mattino, ripulita dal desiderio di ribellione. Il tutto condito dalla smaniosa ricerca di un divertimento leggero, figlio dei nostri tempi. Fun. Abbiamo studiato il passato e abbiamo fatto nostri gli aspetti che più ci piacevano delle vari epoche, alleggeriti da ciò che li appesantiva. Leggerezza. Light.
L’embrione si formò in Sbarua, eravamo appesi da 4 ore a staffe, friend, nut, chiodi e cordini su una via di artificiale, una di quelle salite snobbate da tutti, e in quasi mezza giornata avevamo salito appena 50 metri. “Basta fare i maniscalchi Ene, le mani mi prudono, ho bisogno di tirare qualche scaglia di roccia” gli dissi, dopo averlo raggiunto in sosta. Con una calata tornammo finalmente con i piedi a terra, ma ormai la giornata volgeva al termine e il sole iniziava la sua di calata dietro le montagne. Nonostante l’ora avevamo entrambi ancora voglia di macinare metri di parete. Ma come fare? La soluzione si presentò chiarissima nelle nostre menti, ma nessuno dei due parlò. A volte le parole non servono. Basta l’azione. Ci dirigemmo di corsa verso la normale della Rocca Sbarua, lasciato tutto il materiale alla base prendemmo solo una mezza corda da 60 metri doppiata e i rinvii, nient’altro. Sapevamo entrambi cosa fare ed era come se lo avessimo già fatto altre mille volte. Una volta legati ci scambiammo uno sguardo: “Parto Ene”, “Vai pure Gandi, ti assicuro i primi metri a spalle”. Partii e una volta che la corda fu tesa vidi il mio compagno partire a sua volta. Stavamo scalando in simultanea, in conserva protetta. Una pratica ben conosciuta e utilizzata dagli alpinisti, ma non dagli arrampicatori. Il tramonto colorò lo gneiss di arancione, non si possono descrivere i 15 minuti che impiegammo a fare quei 5 tiri di corda, quasi 150 metri. Sembrava che la forza di gravità non esistesse più. Eravamo senza peso. Leggeri. Light. Anche il tempo aveva perso la sua solita cadenza. Alleggerito anche lui. Tutto venne così naturale da non sembrare vero. Ma lo era. O almeno così ricordo io. Nonostante la via fosse relativamente facile, non dimentico lo stupore in cima. La stretta di mano. Cavolo, la gente impiegava 1 ora e mezza a salire quella stessa via, ed era più il tempo che passava appesa in sosta che quello impiegato a scalare. Così invece avevamo azzerato completamente i tempi morti e reso infinitamente più fluida la scalata dandole un flow, un flusso continuo da cima a fondo difficile da descrivere a parole. Il bello è che avevamo ottenuto tutto ciò senza ridurre di molto la sicurezza, avendo sempre tra di noi almeno tre protezioni fisse. Non stavamo compiendo un’impresa per pochi o qualcosa che richiedesse patimenti e sacrifici. Ci stavamo divertendo. Fun.

Fu lì, durante quel tramonto, che nacque il movimento che venne poi chiamato la “Mezzanotte”. Avevamo usato gli stessi mezzi dei creatori del Nuovo mattino degli anni Settanta, ovvero la fantasia. E cercando di simulare i professionisti americani avevamo portato una novità qui sulle nostre pareti. Avevamo polverizzato ogni regola appresa nelle scuole di alpinismo. Pratiche classificate da tutti come “cose da non fare” ora si potevano fare. E la spinta primitiva era data da una domanda, non da una risposta: Perché no?
Diverse scalate servirono a rodarci e fare nostra questa tecnica e la filosofia che la accompagna. Iniziammo col ripetere vie lunghe che già conoscevamo, e capimmo ben presto che con 25 rinvii potevamo scalare fino a circa 180 metri di parete senza mai fermarci un secondo. In appena mezz’ora. Un giorno tra i più magici che ricordo di quel periodo fu quello che ci vide impegnati la mattina nel nostro tanto amato terreno d’avventura a risalire una goulotte di ghiaccio probabilmente inesplorata nella valle di Viù, e il pomeriggio, stanchi ma non per questo meno affamati di avventura, dirigerci a sant’Ambrogio. Il tempo di mettere qualcosa sotto i denti e via, su per gli eterni 600 metri della via della Sacra di San Michele. Che completammo in poco più di 2 ore e 30. Una sensazione unica, che raramente si prova e difficilmente si può descrivere.
Visto i tempi decisamente più snelli della classica scalata a tiri di corda iniziammo a concatenare in giornata più vie. Una domenica mattina, a Rocca Sbarua, attaccammo la Gervasutti alle 10 e alle 13.30 sbucavamo in cima, dopo aver salito e sceso nel mentre anche la Rivero e la Cinquetti, ovvero le classiche di tutti e tre gli speroni di Sbarua. Avevamo scalato circa 500 metri di parete in appena mezza mattinata. La polenta al rifugio Melano quella volta fu più che meritata. Nel frattempo le cordate che superavamo ci guardavano come alieni o incoscienti, o entrambe le cose. In realtà non c’era incoscienza in quello che stavamo facendo, o almeno, non più di quella che serve a chiunque pratichi uno sport come l’arrampicata. In fondo stavamo salendo praticamente con le stesse sicurezze che avevano loro. Ma si sa, la novità, il diverso, spaventa sempre.

L’immagine di due ragazzi barbuti e perennemente sorridenti che sembravano volare superando cordate su cordate sui tre torrione della Sbarua fece presto il giro della piccola comunità di arrampicatori torinesi. Subito furono presi per due folli e probabilmente la cosa sarebbe morta lì, dal week end successivo ognuno avrebbe continuato ad andare a scalare nel metodo classico, ma una quarantena dovuta ad un virus costrinse tutti a casa per due mesi. L’idea ebbe allora tempo di maturare nella mente di quelli che avevano sentito la notizia: effettivamente non sembrava così male, perché, una volta tornati in montagna, non provare? Fu così che, una volta riaperte le gabbie, qualcuno, recandosi ad arrampicare, iniziò a sperimentare il metodo dei professionisti californiani. Incredibilmente funzionava. Era semplice, veloce e divertente. Fun & light. Adatto a tutti e su ogni tipo di via… o quasi.
Questo stile fun & light iniziò a diffondersi, ora le solite vie, nonostante non fossero cambiate, presentavano un altro tipo di ingaggio, sicuramente maggiore rispetto a prima, senza però mettere a repentaglio la vita di nessuno. Quei due ragazzi erano riusciti a ridare brio all’alpinista e all’arrampicatore medio, riportando come per magia quel senso di avventura che sembrava essere sparito, e forse lo era davvero. Era bello sedersi, di domenica pomeriggio, davanti ad una qualsiasi delle più conosciute pareti di roccia del Torinese e vedere un mare. Sì, un mare. Il flusso continuo di cordate che saliva e scendeva ininterrottamente ricordava le onde sulla spiaggia che si allungano e ritirano.
La mezzanotte era calata. Ma il chiaro di luna la rischiariva facendola risplendere di una luce diversa rispetto a quella dei primi raggi di un nuovo mattino. Più serena.
La giornata era trascorsa con tutte le sue turbolenze, portando con sé un senso di consapevole appagamento. Siamo nani sulle spalle dei giganti.
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Il mondo ha bisogno di persone che coltivino sogni e che si impegnino per raggiungerli, bravi ragazzi! Nuove avventure vi aspettano. Buon cammino
Articolo molto interessante, belle foto, grazie per la condivisione! Complimenti!
Per essere un articolo che inneggia al light, l’ho trovato di una rara pesantezza…