Questo articolo è stato pubblicato su Ascent 2013. Ascent è il compendio dei migliori scritti di alpinismo e arrampicata apparsi su Rock and Ice. Solo pochi articoli, scelti tra quelli stampati su Rock and Ice appaiono online. Per visionare l’intera gamma di scritti e immagini di Rock and Ice iscriviti qui.
North America Wall
prefazione di Douane Raleigh, editor di Rockandice.com
(pubblicato su Rockandice.com)
Una delle cose più preziose che ho è un moschettone ovale di tipo blind-gate con impresso “RR”. Le iniziali, ovviamente, stanno per Royal Robbins. Il moschettone era suo e parla di un’epoca, all’incirca dal 1957 al 1971, quando lui possedeva non solo il moschettone ma lo stesso Yosemite. La parete nord-occidentale di Half Dome era praticamente sua, perché tutte le vie di quella muraglia erano sue. Così era il lato sinistro di El Cap, dove aveva aperto Salathé Wall, e realizzato la prima solitaria della grande parete lungo il Muir Wall nel 1968. Poi c’erano le sue innumerevoli realizzazioni in arrampicata libera, fatte con dei gloriosi scarponcini da trekking, le “RRs”, una vera e propria perla.
Quando ho recuperato il moschettone, che Robbins aveva lasciato su un passaggio della sezione inferiore di Early Morning Light nel 1971, ero con l’amico Mark Herndon, nel 1982: Robbins era da tempo scomparso dalla scena della valle, dopo aver smesso di arrampicare ed essersi dato al kayak, un’attività più consona alla sua artrite.
L’eredità di Robbins è enorme ma la sua carriera arrampicatoria è stata relativamente breve, cosa che sorprende la maggior parte degli scalatori di oggi. Ha iniziato a scalare nel 1947, ha fatto la sua prima salita in Yosemite nel 1952, le prime cose serie nel 1955 e ha smesso di arrampicare a quel livello meno di 20 anni dopo, quando era solo a metà dei suoi anni “trenta”. Tanti scalatori sono rimasti in gioco molto più a lungo di così, e la quantità delle loro salite si può paragonare alla sua. È la sua influenza che è davvero incalcolabile.
Da notare che Basic e Advanced Rockcraft , scritti da Robbins nei primi anni ’70, vendettero oltre 400.000 copie e trasmisero conoscenze come la doppia con freno moschettone e la risalita a jumar, tecniche che ora sembrano ovvie ma che furono perfezionate solo a mezzo di salite rischiose. I libri e il modo in cui Robbins scrisse sull’arrampicata, spinsero lo sport a una forma più pura. Robbins era uno stilista ed è stato uno dei primi alpinisti a insistere sul fatto che ci fosse più da esplorare sul come si arrampica che non il fare prime salite. Potresti scalare vie più velocemente. Aumentare l’impegno eliminando l’uso di corde fisse. Eliminare i passi in artificiale. Ridurre al minimo i chiodi a espansione e ciò per cui è necessario forare la roccia.
“Mi sono reso conto”, ha detto a Mountain nel 1971, “che l’ultima sfida in alpinismo è quella che richiede il massimo impegno nel numero massimo di qualità umane”.
Robbins era altamente e apertamente competitivo. “Facevo parte di quel gruppo che ha reagito alla menzogna delle generazioni più anziane per le quali non c’era competizione”, ha detto. “Gli scalatori che sentono che la competizione non ha posto in arrampicata e vogliono evitarla, si stanno prendendo in giro… Per la maggior parte è solo una moda”.
Rapido a criticare gli scalatori che vedeva usare cattivi metodi: apprezzava ben poco Ed Cooper, un outsider che non aveva mai fatto nulla in Yosemite ma aveva trascorso 38 giorni in assedio alla Dihedral Wall . Robbins ha portato la sua etica all’estremo quando ha iniziato a segare via quello che considerava un numero eccessivo di chiodi a espansione su Early Morning Light di Warren Harding. Salvo smettere di farlo dopo quattro lunghezze, avendo constatato che quello che aveva fatto Harding, ben lungi dall’essere una banale scala a chiodi, era invece una chiodatura significativa, più ostica e difficile di quanto Robbins avesse mai incontrato.
Quando John Long arrivò in Yosemite nei primi anni ’70, Robbins e la sua generazione – tra cui Yvon Chouinard, Tom Frost, Warren Harding, Chuck Pratt, Glen Denny e altri – avevano già lasciato il posto. La valle, dice Long, era vuota. Altre vie erano lì per essere create ed era compito della nuova generazione intraprenderle e spingerle fino a difficoltà stratosferiche. Mentre Long e la sua banda di climber chiudevano i conti con Astroman, facevano la prima salita in giornata del Nose e in generale frantumavano i limiti di tutto ciò che poteva essere arrampicata libera, non erano sotto pressione per via di come sarebbero entrati nella storia, bensì per ciò che Robbins avrebbe pensato. Il loro mantra, dice Long, era “Non deludere Robbins. Abbiamo dovuto mantenere il tasso di difficoltà il più alto possibile”.
Nella storia che segue, tratta dalla sua autobiografia del 2012, My Life, Volume Two, The Golden Age, Robbins ricorda uno dei suoi più grandi successi su roccia, la prima salita della North America Wall di El Cap. Quando Robbins attaccò quella parete c’erano solo due linee su El Cap: il Naso, fatto da Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore nel 1958, impiegando 47 giorni e fissando corde per quasi tutta la lunghezza della parete, e la Salathé Wall, scalata nel 1961 da Robbins, Tom Frost e Chuck Pratt. Sul Salathé, la cordata di Robbins aveva fissato le corde da Heart Ledge fino a circa un terzo di altezza, poi le hanno staccate per il tentativo definitivo verso l’alto e l’uscita. Far cadere le corde fisse rappresentava un nuovo livello di impegno e rischio: se non ce l’avessero fatta, o se ci fosse stato un incidente, ci sarebbero voluti giorni prima che un salvataggio li raggiungesse. La prospettiva di rimanere bloccati in quel mare di pietra era reale e spaventevole.
La North America Wall, tuttavia, ha significato un passo ancora ulteriore in termini di azzardo e fiducia. La parete era più ripida, più dura, più incerta e la linea era meno ovvia di quanto qualcuno avesse mai tentato. Robbins, che a quel tempo era al massimo dell’ambizione, era ansioso di essere il primo a salire quella grande parete per poterla “aggiungere al proprio curriculum di successi”. In effetti, certamente pensava più in termini di “fare salite per la fama che di farle solo per divertimento”.
A tal fine, aveva deciso di non utilizzare alcuna corda fissa. Avrebbero spinto al massimo, giocandosi tutto con la salita continua.
Tuttavia, Robbins aveva comunque effettuato alcune ricognizioni. Durante la prima, con Glen Denny, si era alzato di 130 metri prima di volare per la fuoriuscita di un chiodo. Denny si era ustionato le mani nel trattenere la sua caduta. Successivamente, Robbins e Denny, con Frost, arrivarono fino a metà della parete, con l’uso di 18 chiodi a espansione e tornando poi a doppie da una cengia che avevano battezzato Easy Street. Ma dopo quel tentativo erano pronti a fare la storia.
North America Wall, prima ascensione
di Royal Robbins
(22-31 ottobre 1964)
Avevo pensato alla North America Wall per tutto l’anno o anche più a lungo. Non volevamo usare le corde fisse, ma non sapevamo nemmeno se potevamo arrampicarla, quella parete. Dopo aver fatto Proboscis l’anno prima, nel 1963, e prima ancora la parete nord-ovest diretta dell’Half Dome e la Salathé, ho intuito che in Yosemite eravamo a una specie di boa, da girare per alzare il livello. Ma non sulla North America Wall in particolare. C’erano troppe incognite. Ad esempio, non sapevamo dove fosse la via o anche se ci fosse una via: la parete sud-est di El Capitan mancava dei continui sistemi di fessure della parete sud-ovest e della Salathé. Inoltre, nessuna via sul Capitan era mai stata aperta senza almeno una parte di corde fisse. Bene, volevamo un’avventura e scalare la parete sud-est di El Capitan senza cordoni ombelicali era un modo sicuro per viverla.
Il “noi” consisteva in Tom Frost, Chuck Pratt e me. Glen Denny non era disponibile. Ci guardammo intorno, invitando Pat Ament dal Colorado. Non poteva venire, quindi abbiamo chiesto a Yvon Chouinard. Sì, Yvon sarà il nostro quarto. È stato bello averlo nella squadra. Per prima cosa Yvon non era un “regolare” della Valle, infatti aveva fatto la maggior parte delle sue prime scalate nei Teton. Quindi non potevamo essere accusati di reclutare solo veterani dello Yosemite. Sapevamo, dall’esperienza passata di Chouinard, che era un abile scalatore, nonché un disegnatore e realizzatore di chiodi. Ma aveva qualcos’altro: aveva una certa autostima. Era difficile da quantificare, ma ce l’aveva. E se qualcuno crede in se stesso, anche altri credono in lui. Non abbiamo fatto eccezione e avevamo ragione. Sulla North America Wall, Yvon si è dimostrato degno e anche più. Frost era partner di Yvon negli affari e nella produzione di attrezzatura da arrampicata, così come il suo compagno di scalata durante la prima salita della parete ovest di Sentinel Rock. Ero andato parecchio con Tom, che non solo era un ottimo scalatore, ma aveva anche un acuto senso dell’umorismo. Il nostro team era completo e potente. Avevamo bisogno di una vera squadra forte per questa muraglia.
La valle era ancora in preda a un’estate torrida. Faceva molto caldo, specialmente su El Capitan, che è esposto a sud. Alla fine, il 22 ottobre, non potevamo più aspettare: novembre e il suo cattivo tempo sarebbero presto arrivati. Abbiamo trasportato carichi alla base della via nel caldo afoso. Yvon e Tom hanno scalato il primo tiro e tutti e quattro abbiamo bivaccato all’attacco. Yvon quasi non dormì.
La mattina dopo, con il sole implacabile che ci colpiva, continuammo. Tom e Yvon in testa, mentre Chuck e io seguivamo con i carichi. Sui successivi due tiri uscirono due chiodi. Le cadute furono fermate senza conseguenze, ma i chiodi che saltavano via dimostravano la delicatezza della chiodatura.
Il caldo ci stava prosciugando. Se avesse continuasse quella calura, i nostri 60 litri di acqua non sarebbero stati sufficienti. Normalmente pianificavamo un quarto e mezzo di gallone per uomo al giorno (1,5 litri scarsi, NdT). Quindi in condizioni “normali” (come per esempio sulla parete nord del Sentinel Rock) 60 litri sarebbero bastati per 10 giorni. Ma con il caldo di una via esposta a sud potevano non bastare.
Raggiungemmo Mazatlan Ledge, a 160 metri di altezza, e vi passammo la notte. Il secondo giorno dovevamo andare avanti Chuck e io, con Frost e Chouinard addetti al trasporto carico, il che significava salire con i jumar con il saccone appeso alla vita. Pratt superò uno strapiombo a caverna e io guidai il tratto successivo su una fila di bolt (il bolt è il chiodo a espansione, NdT) messi da noi nel tentativo precedente, fino a raggiungere Easy Street, una serie irregolare di cenge a 210-220 metri di altezza. E meno male che era “facile”, dato che eravamo entrati in quella zona di diorite che, a causa della sua forma più scura sulla parete sud-orientale, simile all’America del Nord, dà il nome alla North America Wall. La diorite è di natura meno affidabile del granito di El Cap, di colore più chiaro, cui eravamo abituati. “Facile” significava che non dovevamo mettere molti chiodi nella diorite, che tendeva a frantumarsi in blocchi. Siamo saliti in qualche modo sul bordo e abbiamo bivaccato.
Rallentati dal nostro numero e dall’issaggio dei sacconi, abbiamo raggiunto il nostro precedente punto massimo (Big Sur Ledge) solo sul tardi del quarto giorno. Tom partì da Big Sur, avviandosi nella parte sconosciuta. Cominciò arrampicando in diagonale a sinistra finché non fu a una ventina di metri da noi, quindi posizionò un bolt. A quel punto lo abbiamo calato fino a quando fu alla nostra altezza ma a 10 metri di distanza. Quindi, siccome la parete era strapiombante e lui non riusciva ad appoggiare i piedi su nulla, lo abbiamo tirato verso di noi con la corda di servizio che aveva legata in vita fino a quando mancava poco che lo potessimo toccare: a quel punto lo abbiamo rilasciato di colpo. Dopo diversi tentativi ha preso bene le misure ed è stato in grado di atterrare su una lista e lì posizionare un chiodo. Abbassammo di nuovo Tom, gli facemmo fare un altro pendolo su un muro liscio dove riuscì a mettere un bolt. E da lì tornò da noi, a Big Sur, felice e soddisfatto.
Il mattino del giorno dopo (il quinto) cominciai a salire sulla corda che Tom che aveva fissato al bolt una ventina di metri sopra di noi. Chuck mi seguì e assieme completammo la traversata su granito di colore chiaro salendo per circa 70 metri fino al diedro inclinato a destra conosciuto come Black Dihedral, la struttura che Tom aveva definito come “la cosa più orrida che io abbia mai immaginato in arrampicata”. Così siamo tornati nella diorite, con la sua roccia insidiosa. Era buio quando tornammo a Big Sur.
Il giorno successivo, il sesto, Tom e Yvon salirono sul Black Dihedral. Si sporgeva così radicalmente a destra che l’assicuratore e la squadra di trasporto erano al sicuro dalle rocce e dai detriti fatti cadere dal leader. Frost e Chouinard raggiunsero la fine del Black Dihedral dopo il tramonto. Quando Chuck e io arrivammo, sistemammo quattro amache sospese su chiodi piantati nelle fessure del tetto: la chiamammo The Black Cave (la caverna nera). Con le torce potevamo scorgere alcuni millepiedi strisciare sul tetto sopra, ma almeno non riuscivamo a vedere in basso. Dovevamo aspettare fino al mattino. Nel frattempo Yvon, Pratt e io dormivamo bene nelle nostre amache rip-stop in nylon, che Liz aveva creato e cucito appositamente per questa scalata. Mentre Tom si attaccò alla sua amata e collaudata amaca di cordino elastico.
Al mattino potevamo vedere anche la base della parete, ormai 550 metri sotto di noi. Era un luogo esposto, davvero nel vuoto. Salire era turno mio e di Pratt, quindi Chuck partì chiodando dal nostro bivacco sospeso fino al bordo di Black Cave. Gli abbiamo passato la macchina fotografica in modo che potesse scattare quella famosa foto di noi sulle tre amache. Quindi ce la restituì e seguì una fessura a lato. Potevamo vedere le gambe e i piedi di Chuck muoversi orizzontalmente da sinistra a destra. Poi è scomparso andando dritto verso un muro liscio, dove ha messo due bolt e fatto sosta su staffe. Ho seguito con riluttanza. In effetti, ora toccava a me, Tom e Yvon avevano fatto la loro parte il giorno precedente nel portarci fino a Black Cave.
Quando ho raggiunto Chuck gli ho fatto i complimenti perché era stato proprio bravo. Ci guardammo intorno: il cielo si stava oscurando, le nuvole si stavano addensando e soffiava vento da sud. Sembrava che poco distante da noi stesse piovendo, ma se avessimo potuto raggiungere The Cyclop’s Eye (l’occhio del Ciclope), una grande incavatura nella parte superiore della parete, pensavamo di poterne stare al riparo grazie agli strapiombi al di sopra. Abbiamo scalato il più velocemente possibile, ma la doccia è iniziata prima che raggiungessimo l’Occhio a fine giornata. Era ben buio quando Tom e Yvon, usando le nostre corde fisse, ci raggiunsero trovando anche loro riparo.
Al mattino la vista sotto di noi era di 650 metri. Quella notte avevamo ascoltato sulla rice-trasmittente il nostro amico Mort Hempel che cantava canzoni popolari. Questo mi fece pensare che mentre io ero in parete Liz era giù nella valle. In effetti non pensavo molto a lei: su questo genere di pareti non pensavamo mai molto alle ragazze, piuttosto ci concentravamo per sopravvivere. Ed era abbastanza, ve lo garantisco. È in seguito che si pensa alle donne… e allora sì che le cose si fanno serie!
Mort ci aveva informati che il brutto tempo da cui eravamo protetti sarebbe durato diversi giorni. Non era una buona notizia, ma per il momento ci andava di lusso, potendo dormire bene.
Il mattino dopo, l’ottavo, aveva smesso di piovere ma le nuvole persistevano. Immagino che non abbia piovuto quel giorno. Non lo so. Quello era un problema per Frost e Chouinard. Chuck e io rimanemmo dove eravamo, protetti dalla sporgenza. Yvon andava da primo, mostrando la sua padronanza su terreno infido e friabile. Tom lo seguì e guidò la seconda lunghezza della giornata. Poi Yvon, raggiungendo la cima dell’Occhio, posizionò qualche chiodo in mezzo a blocchi sporgenti di dubbia tenuta. Era di nuovo passato il tramonto quando Tom e Yvon fecero ritorno al nostro bivacco protetto, alla base del Cyclop’s Eye.
La nona mattina era nuvolosa e attraverso la nebbia vedevamo che il bordo della valle e le alte vette avevano addosso una bella spolverata di bianco. La neve copriva la nuda cima dell’Half Dome. Chuck e io eravamo bagnati e freddi e avremmo voluto rimanere tranquilli, ma era tempo di muoverci, quindi salimmo le corde fisse dei nostri amici fino alla cima dell’Occhio. Qui, Chuck ha organizzato una sosta sulle staffe. Da quella posizione ho continuato traversando a sinistra e chiodando con discreta creatività esili fessurine, scivolando sulla roccia bagnata e sui licheni e spesso lottando con l’acqua ghiacciata che si riversava giù dalle nevi sommitali. La traversata è stata davvero lunga, andavo sempre più lontano da Pratt, che stava ancora fermo sulle staffe. L’esposizione era terrificante. Quando ti arrampichi verso l’alto ti abitui all’esposizione, ma quando attraversi la vista sotto di te è sempre una novità e ti abitui con maggiore difficoltà.
Alla fine ho potuto andare dritto, e ho raggiunto una specie di grotta vicina alla fine della parete. Abbiamo chiamato il nostro fortunato ricovero The Igloo. Aveva un pavimento piatto e sabbioso che dava spazio a quattro persone e un grande masso piatto per tetto. Ci aspettavamo altra pioggia, dunque l’Igloo sarebbe stato un buon posto se avesse ripreso violentemente a piovere. I nostri amici che trasportavano i carichi presto si unirono a noi e passammo la notte lì.
La mattina del decimo giorno invece era soleggiata, una fortunata svolta di eventi per la quale eravamo tutti sollevati. Assorbivamo i raggi del sole e ci godevamo lo stravacco sulla roccia piatta sopra l’Igloo. Eravamo a meno di 100 metri dall’uscita. Quel giorno ho dovuto andare davanti io, prendendo il posto di Tom come compagno di Yvon. Tom diceva di non sentirsi bene, ma io in qualche modo avevo i miei dubbi. Infatti penso che sia stato solo generoso, concedendomi di guidare la cordata anche nelle ultime lunghezze, perché quella via era stata una mia idea. In ogni caso partii, iniziando con un grande passo a destra sotto la calda luce del sole. Poi mi allontanai dai miei amici sulla roccia piatta fino a quando raggiunsi un punto di sosta e feci venire Chouinard. Yvon condusse fino agli strapiombi finali, che invece ho poi fatto io, con molta difficoltà, pensando: “Bene, questo darà a coloro che verranno dopo qualcosa a cui pensare”.
È stato complicato piazzare chiodi. Ebbi la brillante idea di stare appeso agganciando la mia cintura in vita direttamente al chiodo sul quale gravavo, facilitando così un posizionamento più distante del chiodo successivo. Mi è sembrato abbastanza intelligente, ma Dennis Hennek, durante la seconda salita, lì non ha avuto problemi. (Ero in cima, a guardarlo.)
C’era un po’ di neve in cima a El Capitan, mentre una bella coltre bianca copriva l’High Sierra, ma il cielo era blu e il sole era caldo. Scendemmo da El Cap passando per le East Ledges e raggiungemmo la valle la sera stessa, molto soddisfatti. È così per le belle salite: ti fanno sentire pienamente soddisfatto.
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pezzo molto bello asciutto senza fronzoli grande salita
Ogni grande impresa si è compiuta da cordate affiatate “che funzionavano”. Non è affatto scontato che una cordata funzioni sempre bene, anzi è una situazione difficilissima da verificarsi in pratica.
Parlo per esperienza personale ma quando la cordata funziona ci si sente più forti e sicuri e anche la fatica fisica diventa molto meno gravosa.Mi capita di tornare a casa, a volte, distrutto fisicamente e moralmente dopo aver fatto la guida su una facile e breve via ferrata con persone con cui non ho nulla da spartire a livello di vita, mentre mi succede, a volte, di fare una lunga via impegnativa con un alpinista appassionato (anche se non di elevata capacità) e rientrare a casa felice e magari con la voglia di spaccare legna.
Dai toni dei racconti si capisce che queste cordate funzionavano.
Trovo semplicemente fantastico il modo di scrivere degli anglosassoni.
Certo che andavano davvero forte!