La scoperta dell’arrampicata sportiva

Una vita d’alpinismo – 119 – La scoperta dell’arrampicata sportiva

Gli inizi
Con i primi anni Ottanta inizia ad affacciarsi un nuovo fenomeno: l’arrampicata sportiva. Ed è Arco l’epicentro di questa rivoluzione, perché è qui che sono aperti i primi monotiri a spit. Mentre un Luggi Rieser o un Angelo Giovanetti, ciascuno a suo modo, esasperano il concetto di free climbing, cioè salire sul sempre più difficile senza usare protezioni fisse, il manipolo di Bassi, Manolo e Mariacher porta l’arrampicata in basso, visibile anche agli agricoltori e ai turisti. Nascono le falesie di San Paolo e Nuovi Orizzonti, ma anche la Spiaggia delle Lucertole a picco sul Lago di Garda.

Alessandro Gogna su Scheissegal, 1a ascensione, Monte Sordo, Finale Ligure, 11 febbraio 1984

La gente del posto entra in contatto con altre realtà ed è il segno e l’inizio di uno stravolgimento totale in Valle della Sarca. I calcari della valle, a volte straordinari, a volte friabili, cominciano ad essere conosciuti ovunque, complice naturalmente l’azione dei media, e alle prime guide alpinistiche della zona (che risalgono a questo periodo) si aggiunge la mitezza del clima, fattore di grosso richiamo anche per alpinisti di fuori zona, anche d’oltralpe. Ed è così che si registrano vie subito graduate con la scala francese (quella sportiva) accanto alle ciclopiche realizzazioni come Zylinderweg o Sodoma e Gomorra (tanto per citarne solo due), entrambe di Rieser e compagni sulla Cima alle Coste. Ma è solo questione di tempo: nel marzo 1982 Mariacher e Bassi aprono a 150 metri da terra sul Colodri la variante Specchio delle mie Brame (all’uscita della via Renata Rossi): 6b+ e, soprattutto, i primi spit nella Valle piantati con calata dall’alto. E’ l’inizio ufficiale dello “sport climbing”, non solo in Valle del Sarca.

Heinz Mariacher in arrampicata su Tom e Jerry, Spiaggia delle Lucertole, 17 gennaio 1984

Nel 1983 ormai il dado è tratto, così è aperta la via Zanzara e Labbradoro, attrezzata da Manolo e Bassi dall’alto, con spit ma senza trapano, dando così inizio vero e proprio all’arrampicata sportiva in terreno alpinistico.

Alpinismo che nel frattempo continua a dimostrare quanto è florido con un Maurizio Giordani che apre Fiore di Corallo in Mandrea e la via della Rinascita alla Cima alle Coste, facendo comprendere quanto alpinismo e sportività (si badi bene, alpinismo e sportività, non sportività e alpinismo) ormai stiano avvicinandosi.

Manolo su Non seguitemi, mi sono perso, Spiaggia delle Lucertole, 17 gennaio 1984

Il passaggio fondamentale è quel cambio di prospettiva che avviene quando si comprende che le brevi falesie rocciose, comode da raggiungere, hanno un potenziale enorme. Pulendole e attrezzandole si ottiene un terreno di gioco nel quale il livello tecnico si alza vertiginosamente. È il 1982. Heinz Mariacher, Luisa lovane, Maurizio Manolo Zanolla, Roberto Bassi, Aldo Leviti e più tardi Bruno Pederiva: sono loro i pionieri dell’arrampicata sportiva attorno ad Arco che leggono nelle poche decine di metri di roccia un confronto verticale le cui diversità con l’alpinismo alla fine favoriranno uno sviluppo tecnico prima inibito dalla paura del volo. E lo fanno sulle tante placche lisce e verticali da pulire, attrezzandole dall’alto, poi affrontandole rigorosamente dal basso con stile, etica e piena disponibilità al volo, prima del tutto tabù. Tra il 1982 e il 1984 il gruppo diventa abitante stanziale della Valle, permanendovi per settimane intere, sempre attento anche alle novità che arrivano dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

Luisa Iovane sulla via Honky Tonky, Spiaggia delle Lucertole, 17 gennaio 1984

Aldo Leviti e Renato Bernard aprono la via Nuovi Orizzonti (6b) nella palestra di fronte a Ceniga. Bassi e Mauro Degasperi alla Spiaggia delle lucertole attrezzano Honky Tonky (6b), la prima via totalmente a spit che poi salirà Mariacher slegato. Sono i primi itinerari in falesia in cui vengono posizionate le protezioni dall’alto e successivamente liberati. Nuovi Orizzonti, San Paolo, Swing Area, il Pilastro delle Vergini, la Spiaggia delle Lucertole sono le prime falesie, mentre sulle placche e i tetti delle Marmitte dei Giganti mettono le mani Bassi e Leviti (cui seguiranno più avanti Diego Depretto e Luigi Colà).

Manolo in arrampicata su Peter Pan a San Paolo, Arco

Il gioco è di salire in libera, senza resting, pronti a tornare a terra per ripartire in caso di volo: questa è la legge MaMaBa (Manolo, Mariacher, Bassi). Con queste regole ferree sono saliti itinerari da brivido: Mariacher libera Non seguitemi, mi sono perso (7b), i 25 metri di Super Swing, muro bianco di 7b+, aderenza e tecnica di difficile intuito, Tom Tom Club, che alla seconda lunghezza, con una difficile sequenza di movimenti in placca, raggiunge il 7b, e infine il 7c di Tom&Jerry, patria di microappigli e movimenti delicati su rovesci. La Signora degli Appigli (7c) è capolavoro storico di Manolo, con un singolo ancora oggi molto difficile; Draculella, 7a al primo tiro e 7c+ al secondo, su placca estrema tecnicissima, è un altro capolavoro di Manolo, come pure i ventisei metri di aderenza di Nisida 7c. Sono gli itinerari più difficili d’Italia e siamo solo agli inizi. Intanto, a nord di Arco, Roberto Bassi sul finire del 1984 scopre la Gola di Toblino, che inizia a chiodare assieme a Leonardo Di Marino; la nuova area viene presto visitata anche da Manolo, che libera Tursen (7b), Sfinge (7c), e da Mariacher, che a sua volta libera 007 (7b+). Bassi chioda anche i primi tiri nella falesia di Santa Massenza, dove sale Lucky Strike (7c). Questa falesia verrà sviluppata da Danilo Bonvecchio. Stefano Pegoretti chioda le prime vie di San Siro. Nel 1984 Zanichelli pubblica la prima guida, Arrampicare in Valle di Sarca, scritta da Roberto Bassi e curata dalla mia Melograno Edizioni.

Manolo in arrampicata sulla via del Pipistrello a San Paolo, Arco

Roberto Bassi
Era nato a Milano il 27 luglio 1961. Naturalizzato trentino, è uno degli scopritori delle immense possibilità della galassia di roccia di Arco ma anche, e soprattutto, uno dei principali interpreti di un nuovo modo di intendere la scalata. Con Heinz Mariacher, Manolo, Luisa Iovane e Bruno Pederiva fa parte di quel gruppo (visionario e controcorrente) che dette impulso all’evoluzione dell’arrampicata in falesia e in parete. La Valle diventa presto la sua casa, il suo obiettivo un sogno che lo assorbe totalmente, tanto da divenire uno stile di vita: nato alpinista nel giro di tre anni diventa arrampicatore sportivo. È autore della già citata guida Arrampicare in Valle di Sarca. Lo stesso titolo Zanzara e Labbradoro è comune al film e al libro che Lia Beltrami ha realizzato su di lui. Morì ad Aldeno (TN) il 27 settembre 1994 in un incidente automobilistico.

Alessandro Gogna sulla Cascata di Bramafam (Bardonecchia), 24 febbraio 1984

Heinz Mariacher
Nasce a Wörgl (Tirolo, Austria) il 4 ottobre 1955 ed è una leggenda dell’alpinismo contemporaneo. Figura fondamentale dell’evoluzione dell’arrampicata nelle Dolomiti tra gli anni Settanta e Ottanta, con le sue salite ha contribuito all’innalzamento delle massime difficoltà superabili in arrampicata libera. Tralasciando le sue solitarie, tra le vie aperte, citiamo la via Charlie Chaplin sulla Nord della Lalidererwand (Karwendel) e le sue tante sulla parete sud della Marmolada (Harlekin del 1977, Hatschi Bratschi del 1978, Don Quixote e Vogelwild del 1979, Abrakadabra del 1980, Ombrello e Moderne Zeiten del 1982). Vanta anche, nel 1982, la seconda ascensione invernale della storica via Soldà sulla parete sud-ovest della Marmolada. Suoi compagni sono colossi del tipo di Luggi Rieser e Reinhard Schiestl, affiancati ben presto dalla fidanzata Luisa Iovane. Ha poi dedicato la sua attenzione all’arrampicata sportiva, esplorando sistematicamente le pareti di Arco e della Valle di San Nicolò e partecipando alle prime gare.

La cabane des Dix. Foto: Marco Milani.
Il Mont Blanc de Cheilon con il tracciato della via Steinauer sulla parete nord

Luisa Iovane
Nasce a Mestre il 27 giugno 1960. Ha un background alpinistico di grande rispetto anche prima di conoscere il suo Heinz. Quando lui è impiegato come geometra lei studia, si laurea infatti in geologia, ma solo nel 1992. La Iovane è una grande teorica della dieta: “A volte mi accontentavo di una mela al giorno, oppure compravo un bel cannolo alla crema e, dopo una giornata di assoluto digiuno, lo mangiavo con religiosa lentezza la sera prima di andare a letto”. Certo, questo rigore alimentare sarà assai responsabile degli otto titoli di campionessa italiana di arrampicata che Luisa avrebbe conseguito, dal 1987 al 1996, senza dire degli altri piazzamenti in Coppa del Mondo fino al 2006. All’inizio Heinz e Luisa salgono le grandi vie classiche delle Dolomiti in velocità, cercando di rosicchiare anche solo cinque minuti, senza essere tanto rigorosi sull’attaccarsi o meno ai chiodi: “Per un po’ andava bene, ma alla fine sai che palle!”. In seguito l’etica si fa più precisa, inizia l’epoca delle grandi ripetizioni in completa arrampicata libera: nello stile rotpunkt i chiodi non si toccano, neanche per riposare, e nello stile onsight il primo sale in libera e a vista, senza ricognizione preventiva. Siccome Luisa è una delle primissime donne italiane in grado di condurre su difficoltà di livello superiore, è obbligatorio indagare sui suoi sistemi di allenamento. C’è anche il periodo in cui la sua dieta giornaliera consiste in “schiuma di cappuccino”, che “riempie ma non ingrassa”, per poi approdare, e ormai sono anni, ad “appetitose pentolate di cavolo, carote e cipolle, le sole verdure che non mancano mai perché si conservano per mesi in cantina”. La giornata era una continua sessione di allenamento, con trazioni, pesi e arrampicata su prese artificiali. Diversa era la dieta di Heinz, cui tra una trazione e l’altra Luisa cucinava qualcosa di meno asfittico: però il nostro si riprendeva nei lunghi viaggi da solo per lavoro, in America…

La Cascata del Sole ai Serrai di Sottoguda

Tra arrampicate sportive, cascate di ghiaccio e scialpinismo
L’acquisizione della vendita in Italia del marchio Francital da parte di Cassin mi portò a contatto con una realtà nuova che si stava delineando. Sapevo del nuovo modo di frequentare le falesie che aveva avuto inizio in quel di Arco. L’incarico di fotografare Manolo e Heinz Mariacher su questo nuovo terreno di gioco mi mise a contatto con ciò che quegli amici stavano inventando.

Il 17 gennaio 1984 fu dedicata alle fotografie ai capi Francital da loro indossati, in una location del tutto particolare, la scogliera della Spiaggia delle Lucertole, a poca distanza da Torbole. Riuscii però a salire almeno una via, Honky Tonky: mi sentivo un po’ anziano insieme a quei mostri sacri (Manolo, Mariacher, Bassi e la Iovane, tutti assieme…), ma mi difendevo arpionando quei microappigli e cercando di usare i piedi come vedevo fare a loro… Il giorno dopo altre foto sulla falesia di San Paolo.

Tra gli ultimi larici verso la Rocca Meja (Alpi Cozie), 7 aprile 1984

Il 22 gennaio ero con Anne-Lise sulla Cascata delle Scale del Moncenisio, mentre il 28 in più numerosa compagnia (Anne-Lise, Walter Vergnano, Cristina Mùndici, Alberto Collo e altri tre amici) mi ritrovai a salire con gli sci il Briccas (o Trucchet da Brich) 2426 m, in Valle Po. E il giorno dopo, con la sola Anne-Lise, la Pitra de l’Aigle (vicino a Sestrière).

L’avvenuta conoscenza con Walter Vergnano (futuro Sovrintendente della Fondazione Teatro Regio di Torino) mi portò a scalare con lui a Finale, dove l’11 febbraio ebbi modo di aprire un itinerario che avevo adocchiato da tempo. Questo si svolge per tre lunghezze di corda sulla parete sud di Monte Sordo: lo chiameremo Scheissegal.

Verso l’ormai non più lontano Colletto della Meja, 7 aprile 1984

Mi fece particolarmente piacere il 24 febbraio 1984 andare con Ezio Comba a fare la Cascata di Bramafam, vicino a Bardonecchia. Al pari di alcune altre cascate della valle anche il Bramafam porta una data storica, 16 gennaio 1979, e fu con buone probabilità la prima vera cascata di ghiaccio a essere scalata in valle di Susa, con l’ovvia firma di Gian Carlo Grassi. La salita in se stessa è molto bella, anche se pur breve (60 m) e di difficoltà contenute: quello che invece delude è il deturpamento ambientale della zona circostante. Si inizia attraversando una discarica, per poi arrampicare con sullo sfondo in sequenza: ferrovia, strada e autostrada sopraelevata, ma se si riesce a sopportare il tutto, i due tiri che compongono la struttura sanno ripagare. Ezio lo conoscevo di striscio, e il motivo era che lui era stato compagno del mio “maestro” Gianni Ribaldone in parecchie salite, tra le quali anche la Hasse-Brandler alla Cima Grande di Lavaredo.
Il 4 marzo, altra prima a Finale con Walter Vergnano, questa volta al Bric Grigio, una via che chiamai Spitfobia: sembrava che l’avessi fatto apposta per poi vedermela una decina d’anni dopo circondata e intersecata da vie a spit…

Anne-Lise Rochat sale verso la cresta est del Lyskamm orientale, 20 aprile 1984

Il 10 marzo risalivo da Arolla (in Svizzera) con Anne-Lise verso la cabane des Dix: l’obiettivo era di salire nientemeno che la parete nord del Mont Blanc de Cheilon 3870 m, per la via storica e pochissimo ripetuta di Ludwig Steinauer e Wolfgang Gorter (28-29 settembre 1938). Avevamo quindi tutto l’equipaggiamento da grande Nord, ma non avevamo roba per bivaccare. Un’ultima riflessione ci convinse che forse era meglio rinunciare e accontentarsi della cresta sud-ovest… Quindi ancora sci + un po’ di arrampicata su roccette.

Il 17 marzo tornai ad Arco: quel posto mi era proprio piaciuto. E avevo anche capito che lì potevo imparare ancora tante cose… Con Roberto Bassi e Mauro salimmo la via Renata Rossi al Colodri, con la variante Specchio delle mie Brame, davvero spettacolare. Per via di un resting non riuscii sull’ormai storico Specchio, ma pazienza. Per me era tutto nuovo, a dispetto delle stagioni passate in Verdon.

Anne-Lise Rochat sulla cresta est del Lyskamm orientale, 20 aprile 1984. Sullo sfondo la Punta Gnifetti.

Il giorno dopo volli andare a dare un occhio alla mecca orientale delle cascate di ghiaccio, i Serrai di Sottoguda sotto a Malga Ciapela, in zona Marmolada. Con Stefano Renzi salii le due-tre lunghezze della prima a destra (Cascata del Sole).

Il 7 aprile, altra scialpinistica nelle Occidentali, questa volta al Colletto della Meja (a sud-est della Rocca la Meja), raggiunto da nord con Walter Vergnano, Cristina Mùndici, Anne-Lise, Alvar Berlanda e un certo Franco.

L’ultima scialpinistica della stagione la feci con Anne-Lise il 19 e 20 aprile 1984. Dal rifugio Gnifetti al Colle del Lys e poi con picca e ramponi la cresta est del Lyskamm Orientale.

Anne-Lise Rochat sale sulla cresta est del Lyskamm orientale, 20 aprile 1984

Ad ogni modo fu una primavera segnata dalla generale insoddisfazione della mia situazione affettiva e della mia condizione abitativa. Non c’era verso: Rho, via della Ghisolfa 26, proprio non mi piaceva. Qualcuno mi diceva che non ero capace di stare da solo, ma questo non credo proprio fosse vero. La crisi di rigetto cominciava dal momento che uscivo dall’autostrada o dalla tangenziale, continuava in quell’impersonale ascensore, per poi esplodere in quei locali razionali che non volevo arredare più di tanto per paura di fare poi troppa fatica a disarredare. Non c’è peggior binomio della solitudine fisica abbinata alla desolazione di un non-luogo. Mi ero portato in casa il materiale relativo alla guida di Popi, Disgrazia-Bernina, stampa prevista per aprile 1984, nonché la pigna di disegni e dattiloscritti che costituivano il corpus di 93 arrampicate scelte in Dolomiti (di Lele Dinoia e Valerio Casari), uscita prevista per maggio 1984. Infine avevo traslocato solo i libri e le riviste che mi potevano servire per la stesura di A piedi in Valtellina, alla quale lavoravo alacremente. Per fortuna Giuliana Scaglioni ci dava una mano per la segreteria.
C’era il rito della telefonata quotidiana con Popi, in genere verso le 6.30 di mattina, ma poteva essere anche prima. Anche per lui non era un periodo sereno. Sadicamente facevamo a gara a chi telefonava prima e per questo ci tenevamo per la mattina presto tutte le domande e i dubbi, o semplicemente le cose da decidere assieme. Prima della telefonata era obbligatorio, appena svegli, farsi una golata di un superalcolico qualunque, poi comunicarne all’amico tipologia e qualità: era questo il primo argomento discorsivo dopo il gutturale “ciao”. Dopo la telefonata accendevo la prima Marlboro della giornata (e allora erano veramente cancerogene…), quindi iniziavo a scrivere, versandomi durante la mattinata qualche altro bicchierino. Di colazione, manco parlarne. Insomma, non si può dire una vita sana da sportivo. L’unica sicurezza che avevo era che dovevo dire al più presto la parola fine a quell’andazzo che, tra l’altro, mi allontanava da quei pochi risultati sportivi che magari avrei potuto permettermi. Qui sotto è la tabella delle mie uscite di quel periodo, in genere finalesi.

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La scoperta dell’arrampicata sportiva ultima modifica: 2023-01-27T05:02:00+01:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “La scoperta dell’arrampicata sportiva”

  1. E stasera in una fiction di Rai 1 ricompare Mesciulam…. Quello del Diedro Mesciulam. A proposito si scoperta del l’arrampicata sportiva a Finale…

  2. Preferisco le montagne facili dove posso salire in solitaria, il monte Bianco per esempio. Nel 1986 raggiunsi la cima per celebrare il bicentenario della prima ascensione, ma soprattutto per contemplare tutto l’arco delle Alpi occidentali che si perdeva nel mare, il trionfo della natura e della bellezza. Confesso però che sulla Cassin al Badile eravamo in due e usammo pure la corda. Ora sono invecchiato e cammino spesso sulle spiagge della Versilia, ma non vedo la cima del monte Bianco.

  3. Grazie per il racconto e le magnifiche foto.
    Anch’io trovo sempre interessante osservare i materiali.

  4. Ognuno è libero di dare priorità al paradigma che preferisce. Fra quelli possibili ve ne è almeno un terzo nel quale aspetto sportivo e ambiente sono inscindibili. 
    Applicando il criterio del sig. Ugo, un tale come Michel Piolà, tanto per fare il primo nome che mi viene in mente, avrebbe dovuto essere reindirizzato a forare i pilastri dell’autostrada essendo egli un inquinatore dell’ambiente in cui si è mosso, evidentemente del tutto disinteressato all’ambiente in cui ha realizzato il suo modo di andare in montagna. Tradotto: a Michel Piolà non ha mai importato nulla di aprire vie nel massiccio del Bianco, avrebbe potuto fare la stessa attività con medesima sua soddisfazione sui pilastri della A10 in Liguria. Cosi come a gente come Patrick Edlinger o Jean Christophe Lafaille non ha mai importato nulla di aprire, provare e liberare vie a Ceuse, avrebbero potuto fare la stessa cosa e vivere le stesse esperienze anche sul sasso dietro casa loro. Potrei continuare….
    Io poi, per quanto vale la mia esperienza, ho affiancato alpinismo con arrampicata sportiva, vissuta in tutte le sue sfaccettature (allenamenti folli e diete compresi) ma non mi ha mai sfiorato nemmeno lontanamento il desiderio di praticare in palestra outdooor, desiderando sempre la roccia vera e l’ambiente naturale sia che esso fosse una cima delle alpi, il calcare del Verdon o semplicemente uno dei tanti minigrottini immersi nella macchia mediterranea di Finale Ligure.
    Nel messaggio 2 poi leggo un verbo “dirottare” che sa tanto di spingere verso, con tanto di spinta fisica….abbastanza inquietante. Sempre nello spirito per cui il modo giusto di andare in montagna è solo quello di colui che giudica.
    Ripeto, credo che le valutazioni che leggo in questi messaggi (come in molti altri in cui spesso qualcuno si arroga la capacità di leggere e valutare le motivazioni che spingono le persone alla scalata) siano date da chi ha scarsa (per ben che vada) esperienza di quello per cui danno giudizi. 
     

  5. Consiglio vivamente al signor Enri (4) di rileggere l’articolo del 25 u.s. sull’Outdoor Education e soprattutto l’interessante intervento di Michele Comi sulla necessità di superare “il paradigma sportivo, in cui tecnica e performance sono parole chiave, si può immaginare un paradigma diverso… Cambiare paradigma significa… contemplare la natura”. In altri terminii ti suggerisco di non confondere il fine con il mezzo: non andare in montagna per arrampicare, ma arrampica per andare in montagna!

  6.  Leggendo…e Guardando queste “Foto di “Climber Leggendari…solo ammirazione per tutti loro.. e la  Storia dell’ arrampicata…!  Grazie.!

  7. ….Senza inquinare l’ambiente naturale?
    ma sarebbero i climber ad inquinare l’ambiente naturale?
    Io veramente la farei finita con sta storia. Allo stesso modo potrei dire che sono stufo di vedere scialpinisti in inverno inquinare valloni immacolati.
    Mi chiedo tra l’altro se chi scrive cose simili frequenta regolarmente il verdon o ceuse tanto per dire due nomi  e per questo scrive che i climber inquinano.
    Io mi sono fatto l’idea che chi parla del l’arrampicata solo come sport non ha mai arrampicato in vita sua. E per arrampicare non intendo andare alla domenica e fare tre vie…
    Mah…
     

  8. @2 …musica per le mie orecchie!
     
    Sono un impallinato di storia dei materiali (intesi sia alpinistico/arrampicatori che sciistici/scialpinistici) e dell’abbigliamento. In questa serie di articoli di Sandro, nelle foto mi sto concentrando sulle scarpette d’arrampicata. A giudicare da queste foto, fra ’83 e 84, le EB stanno andando piano piano in pensione. Manolo le indossa alla Spiaggia delle Lucertole, ma poi anche lui passa alle nuove, gialle e viola. Ai piedi dei top-climber c’erano sempre più le scarpette La Sportiva. Vero progresso tecnico (come penso io) o si trattava solo di una questione di marketing (vista la condivisione del nome Mariacher)?

  9. All’inizio lo sport assume un ruolo positivo perché libera l’arrampicata dalla tradizione eroica e moralista dell’alpinismo tradizionale. Ma alla fine emergono gli aspetti negativi: per molti versi lo sport è un’aberrazione che all’amore per la natura sostituisce l’amore per la tecnica. Meglio allora dirottare gli sportivi nelle palestre artificiali senza inquinare l’ambiente naturale dove coltivare un paradigma differente fondato sulla contemplazione estetica.

  10. Bellissimo polpettone in cui mi vedo piacevolmente di striscio.
    Ho sempre detestato di appartenere a gruppi distinti ma tutti questi personaggi li vedevo passare e ne invidiavo la socialità che a me era aliena. 
    Non sono mai riuscito ad avere più di un compagno/a,  con cui arrampicare, alla volta.

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