La stasi dopo la seconda guerra mondiale
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-31)
Un evento come il secondo conflitto bellico non poteva lasciare immutata la situazione dell’alpinismo nei vari Paesi. Ancora una volta vi furono differenti posizioni, a seconda degli esiti del conflitto. Non va dimenticato che alcuni Paesi si trovarono impegnati in una durissima lotta di liberazione, la quale molte volte si svolse proprio in montagna.
Comunque, a prescindere da vittoria o sconfitta, ciascun Paese si trovò di fronte ad un duro lavoro di ricostruzione. Dal punto di vista alpinistico, i «grandi» che avevano agito prima del conflitto, in maggioranza erano usciti di scena per differenti motivi: chi era caduto in guerra, chi era morto in montagna, chi ormai aveva abbandonato l’alpinismo essendo in età avanzata. Vi fu un vuoto, una fase di stasi, in cui fu difficile per le generazioni del dopoguerra riallacciare i fili con il passato e riprendere l’attività alpinistica. D’altronde le situazioni economiche erano di una difficoltà tale, per cui ci si trovava pressoché impossibilitati ad avvicinare la montagna.
Ma poi, come sempre accade, a poco a poco le cose andarono migliorando. Ci si trovava però di fronte ad un problema assai grave. Molti giovani avevano creduto nella lotta di liberazione ed avevano veramente sperato nella creazione di un mondo migliore. La loro lotta era stata pura, diretta contro ogni forma di sopraffazione, speranzosa di abolire le classi sociali e la burocrazia. Invece a poco a poco andava profilandosi una delusione amara: ancora una volta il meccanismo dei partiti assorbiva i combattenti più accesi, ancora una volta, in nome dell’ordine e della democrazia, la macchina burocratica riportava un ordine che ricalcava assai da vicino gli schemi del caduto regime. La «primavera di bellezza», in cui si era creduto, aveva avuto una breve durata. Era sì stata splendida, ed aveva dato per un po’ l’illusione della libertà e dell’unione. Ma era stata solo un’illusione di breve durata. Inevitabilmente ricomparivano interessi personali, privilegi, nepotismi, ambizioni di carriera. E proprio quelli che più degli altri avevano sofferto e combattuto ora si trovavano isolati, soli, quasi derisi dai soliti «furbi» che nell’ombra avevano atteso il momento migliore per ricomparire e per giocare la parte dell’eroe quando tutto ormai era compiuto. Per molti si apriva la realtà della fabbrica, dell’alienante società dell’industria.
L’amarezza dell’illusione portò inevitabilmente questi ragazzi all’alpinismo ed alla montagna, la Grande Consolatrice. Fu facile per essi unirsi in gruppi, che avevano spiccatissime caratteristiche proletarie. Ne uscì soprattutto un alpinismo assai aggressivo, che puntava decisamente al risultato, senza perdersi in alcuna divagazione di ordine filosofico. L’alpinismo era più che mai il mezzo per affermarsi davanti a se stessi e agli altri, per darsi un valore, per credere in qualcosa, per sentirsi qualcuno, per fuggire dallo squallore delle grandi metropoli.
Fu così che nell’alpinismo si riversò un enorme potenziale di insoddisfazione, di rabbia e di rivolta. Il desiderio di realizzarsi attraverso l’impresa e la «performance » portò ad una situazione non molto felice, ad una schiavitù in cui ad ogni costo bisognava vincere, ad una situazione in cui non era concesso ammettere le proprie debolezze ed i propri errori. In questi gruppi alpinistici di élite (come i Ragni di Lecco, i Pel e Oss di Monza, il Gruppo Alta Montagna di Torino, gli Scoiattoli di Cortina) si sviluppò un ambiente assai tipico, fortemente maschilista, dove era di regola lo scherzo pesante, la dimostrazione della propria forza fisica, l’esibizione costante, l’atteggiamento da «duro», il disprezzo di ciò che è delicato, dolce, di ciò che sa di femminile e dell’accettazione serena della propria debolezza.
È un momento amaro per l’alpinismo, anche se proprio da questa condizione estremamente frustrata scaturirà una serie di realizzazioni di eccezionale valore tecnico. Ma questo è più che naturale, date le basi su cui si procedeva. Ed è anche naturale che l’artificialismo in un contesto del genere possa prendere il sopravvento, in quanto permette di ottenere risultati più spettacolari con minore rischio. A poco a poco, quindi, l’arrampicata artificiale prenderà il sopravvento sulla libera, fino a giungere ad alcune imprese dove l’artificialismo sarà totale. Ma anche in questo caso bisognerà ancora distinguere: alcuni anche in artificiale sapranno giocare a mani pulite, ricorrendo all’uso del chiodo ad espansione solo dove questo si rivelerà veramente indispensabile; altri, invece, presi ed ipnotizzati dal desiderio di vincere, di affermarsi e di essere famosi, non baderanno tanto per il sottile e si impegneranno in imprese un po’ ridicole ed assurde, cercando di stupire il pubblico profano e di impressionarlo.
Vi saranno naturalmente anche i conservatori, i quali cercheranno di frenare la tendenza e di dare ancora all’arrampicata libera un valore preminente.
Ma non basta. Nella ricerca di affermazione e di individualità (ed anche nella ricerca dell’avventura e dello sconosciuto) forse per una pretesa (ma non vera) mancanza di problemi da risolvere, si giungerà all’alpinismo invernale e a quello solitario. Ma tutti questi tentativi non porteranno che alla saturazione attuale, impregnata di rabbia e di insoddisfazione.
Solo ora, finalmente, si comprende che la scalata può essere una magnifica via di conoscenza, che la parete ha un valore intrinseco a sé stante, come esperienza che ciascuno vi compie, a prescindere da ogni grado di difficoltà, a prescindere da ogni valore storico e temporale che definisca prime salite o salite successive.
La parete è sempre identica, sia che venga salita una volta, come mille volte.
Solo la comprensione che non esiste separazione tra me e la parete che affronto, solo il capire che non vi è alcuna differenza tra l’arrampicatore e la roccia, può portare fine a questa corsa senza senso verso una meta che in realtà non esiste affatto.
I francesi ripetono gli itinerari aperti dai maestri dell’anteguerra
Probabilmente il fatto di uscire vincitori anche dal secondo conflitto bellico ebbe una certa influenza sullo spirito che animò l’alpinismo francese del primo dopoguerra. Si può infatti constatare come i rappresentanti francesi dell’alpinismo, pur essendo alpinisti di notevole valore e di grandissima capacità tecnica, si siano espressi in questo periodo soprattutto nelle ripetizioni di quei grandi itinerari aperti nell’anteguerra da Cassin, da Gervasutti, da Ratti, da Soldà, e che ancora non erano stati ripresi.
Invece, come vedremo, per evidenti motivi di rivalsa, i rappresentanti dell’alpinismo italiano, austriaco e tedesco, subito si impegneranno nuovamente nell’apertura di nuove vie di estrema difficoltà su tutta la catena alpina.
Tornando all’alpinismo francese, i nomi che in questo periodo giungono alla ribalta, sono quelli di Gaston Rébuffat, di Édouard Frendo, di Lionel Terray e di Louis Lachenal, tutti cittadini, alcuni già divenuti guide e stabilitisi definitivamente a Chamonix. Essi comunque aprirono anche un gran numero di vie sulle Alpi Occidentali, anche di difficoltà estrema, ma il loro valore certamente non è paragonabile a quello delle vie aperte nell’anteguerra e nemmeno a quello delle vie aperte dagli italiani e dai tedeschi del primo dopoguerra, ed anche poi dai francesi della seconda generazione: i Paragot, i Berardini, i Magnone, i Desmaison e i Couzy, i quali veramente sapranno portare l’alpinismo francese in posizione dominante, al fianco di quello italiano che, con la figura di Walter Bonatti, raggiungerà un livello quasi fantastico. Invece Rébuffat, Terray, Frendo e Lachenal sono da considerare soprattutto dei ripetitori: d’altronde ci vuole anche un grandissimo coraggio a riprendere delle vie che erano state definite come qualcosa di irripetibile, di quasi impossibile, realizzate solo da quei «mostri sacri» che erano Cassin, Heckmair, Gervasutti, Ratti e Soldà. Da parte di questi giovani arrampicatori francesi ci fu dunque grandissimo coraggio, ma anche infinita umiltà, in quanto essi si avvicinarono a queste vie non certo con la tracotanza e il fiero cipiglio di chi si sente superiore, ma con rispetto e timore, in netta condizione di inferiorità psicologica. Insomma essi ancora subivano il fascino e la grandezza di quei nomi ed ancora non avevano preso coscienza della propria reale capacità, la quale li poneva certamente all’altezza di superare quelle difficoltà ed anzi di spingersi ancora più in là. Ma il loro compito sarà proprio quello di infrangere il tabù e di prendere coscienza dell’effettivo valore a cui l’alpinismo francese era giunto. Per i motivi che già abbiamo espresso anche nell’introduzione, toccherà poi ai loro successori, disinibiti e coscienti della propria forza, portare il discorso ancora più avanti e realizzare imprese di livello tecnico ancora superiore.
Eccezionale è la progressione di Rébuffat (1921-1985). Dapprima egli compie la prima ripetizione dello sperone Walker (via Cassin) alle Grandes Jorasses, con l’amico Édouard Frendo, poi, addirittura in qualità di guida con il cliente Bernard Pierre, realizza la prima ripetizione della parete nord-est del Pizzo Badile (via Cassin) lottando con estrema durezza contro il maltempo e sfiorando la tragica situazione della prima salita, e infine, ancora con Bernard Pierre, la prima ripetizione della via Ratti-Vitali sull’Aiguille Noire de Peutérey, dalla quale resterà fortemente impressionato.
Ancora Rébuffat ripete la via aperta sulla Nord dell’Eiger, con un nutrito gruppo di francesi e con un gruppo di tedeschi guidati da un altro «duro» della scorza di un Heckmair: quell’Hermann Buhl di cui presto parleremo. Anche sull’Eiger Rébuffat deve combattere fino allo stremo delle forze, ma ne esce vincitore e indenne. Va detto che Rébuffat, assai intelligentemente, è riuscito a fare dell’alpinismo il suo mezzo di vita, in ogni senso, sia spirituale che economico. Alpinista completo su ogni terreno, ha praticamente realizzato ascensioni su tutte le montagne del mondo, ed ancora oggi, oltre la cinquantina (anzi più vicino alla sessantina che alla cinquantina), può permettersi di ripetere la via Bonatti sul Petit Dru o il Pilone Centrale del Frêney al Monte Bianco (1)!
Intelligentemente Rébuffat ha saputo fondere azione e cultura in modo magistrale: conferenziere, cineasta, scrittore di montagna, egli è un personaggio noto in tutto il mondo e non solo negli ambienti alpinistici.
Rébuffat si è diretto anche ad un pubblico più vasto di quello strettamente alpinistico ed ha cercato, riuscendovi con successo, di portare la montagna anche a chi ancora non l’aveva conosciuta.
Diverso è il discorso per Lionel Terray (1921-1965) e per Louis Lachenal (1921-1955). Essi sono stati soprattutto uomini presi dal demone dell’azione, irrequieti, sempre alla ricerca dell’impresa. La loro cordata era leggendaria e formidabile, velocissima, capace di risolvere qualunque problema. Anch’essi passarono vittoriosi alla Nord delle Jorasses, all’Eiger, al Badile, nelle Dolomiti, nel Delfinato.
Soprattutto Lachenal era un uomo estremamente inquieto, in costante competizione con se stesso e con gli altri. Ma anche alpinista di rara forza e resistenza, abilissimo arrampicatore sia su roccia che su ghiaccio. Comunque, anche se Terray e Lachenal aprirono moltissime vie nuove sulle Alpi Occidentali, essi, come Rébuffat e Frendo, vanno soprattutto considerati dei ripetitori. Il destino ha voluto che Lachenal perdesse la vita cadendo in un crepaccio dell’innocua Vallée Blanche e che Terray precipitasse con Marc Martinetti dalla parete dello Gerbier nelle Prealpi Calcaree Francesi. Rébuffat è in vita ed arrampica ancora (2). Forse a volte la foga dell’azione porta inevitabilmente verso una sola conclusione…
Prima di passare all’esame dell’alpinismo francese degli anni Cinquanta e Sessanta, dobbiamo inquadrare la situazione italiana e tedesca, e l’apparizione di Walter Bonatti.
Note
(1) Gaston Rébuffat è morto di malattia nel giugno del 1985, all’età di 64 anni.
(2) Vedere nota 1.
Sempre avvincenti, i racconti di Motti, così conditi di contesto storico-culturale e fatti personali degli alpinisti.
Fabio, quando si racconta ci vuole una grande fermezza per esimersi da giudizi personali e, in ogni caso, anche in maniera inconsapevole, si tende a puntare il fascio di luce su qualcosa escludendo, così, qualcos’altro.
Stupende anche le immagini.
Chi “sa” ha un’opinione molto diversa dalla tua.
Preciso, in modo più puntuale ancora: “storia dell’alpinismo di vertice nelle Alpi”, tema sul quale, dopo 250 anni, i fatti di rilievo sono ormai noti a tutti. A parte che “Storie” come intendi tu ne trovi a bizzeffe, rivolgersi a un libro di Motti per esser resi edotti sulle scalate di (esempio) Bonatti è scelta davvero incomprensibile. Leggi i libri di Bonatti e ottieni le informazioni alla fonte. Gli alpinisti di vertice sono relativamente pochi e i libri di importanza capitale non sono infiniti. (PS: discorso completamente diverso, invece, per lo sconfinato mare magnun dell’attività “non di vertice”, dove effettivamente c’è molto da ricostruire e, proprio per questo, mi interessa e mi coinvolge molto di più nella mia attività di ricerca: ma è proprio un tema completamente diverso).
No, non hai ragione: se ti piacciono le Storie dell’alpinismo (preciso ancora una volta: dell’alpinismo di vertice) con quella particolare impostazione, il mercato ne è pieno. Sbagli a pretendere quel taglio editoriale dal libro di Motti. Motti è un purosangue, non fa il cavallo da tiro.
——— LE TRE LEGGI DI CARLO ———
1. Carlo ha ragione e vuole per sé l’ultimo commento.
2. Carlo ha sempre ragione e vuole sempre per sé l’ultimo commento.
3. Carlo ha ragione soprattutto quando non ha ragione. E vuole per sé l’ultimo commento soprattutto quando gli converrebbe stare zitto.
Rimango ora in attesa del suo commento.
Forse, per la prima volta nella vita, scriverà:
“Stavolta hai ragione tu”. 😀 😀 😀
Ma sono cose diverse (alpinismo e II Guerra), come fai a mescolarle? Cmq gli eventi salienti dell’alpinismo sono raggiungibili in pochi testi, non è necessario spulciare miliardi di documenti. Io trovo ridicolo rivolgersi a un libro di storia dell’alpinismo per conoscere le scalate di Gervasutti, Bonatti e Rébuffat. Piuttosto leggi i rispettivi libri (che non sono milioni, ma alcuni) e ottieni le informazioni alla fonte. Forse avevano un senso le Storie dell’alpinismo come le intendi tu decenni e decenni fa, quando occorreva mettere ordine nella matassa. Ma ormai quel compito lì è stato fatto. Che senso avrebbe, oggi, riscrivere una “nuova Storia dell’alpinismo con quell’impostazione? Nessuno. Il lettore giovane che non conosce gli eventi storici basta che consulti le biblioteche (o che chieda ad alpinisti più scafati) e troverà i testi utili per lui. Oggi quello che può comportare un valor aggiunto non è fare l’elenco delle imprese alpinistiche, ma è l’analisi (soggettiva, dell’autore) degli eventi e soprattutto dei personaggi. Anche l’analisi dei trend, cioè come “cambia” il modo di andar in montagna 8anche ad altissimo livello) in funzione dei cambiamenti della società e, su questo piano, i collegamenti sono molto interessanti e forse relativamente poco esplorati. Motti, con questa sua opera, da un lato ha specifiche posizioni oggi “datate” (una per tutti quella su Gervasutti), ma dall’altro si situa già nel solco della storiografia alpinistica “interpretativa” e non semplicemente ripetitiva fatti. Era già avanti, rispetto al passato. Non ha sbagliato Motti nell’aver imboccato questa strada, ma sbaglia (nel rivolgersi al libro di Motti) il lettore che cerca un libro di storia alpinistica come lo intendi tu. Se quella dell’elenco delle imprese è l’esigenza del singolo lettore, non si deve rivolgere a libri con questo altro taglio.
“Gli eventi sono agli atti.”
Nel caso dell’alpinismo, gli atti sono essenzialmente i resoconti, i racconti, le autobiografie, le fotografie dei protagonisti.
Seconde in ordine di importanza, vengono le testimonianze, per esempio quella di chi nel 1786 osservò col binocolo da Chamonix l’ultima parte dell’ascensione di Paccard e Balmat, quella di chi nel 1924 scorse per l’ultima volta Mallory e Irvine sull’Everest mentre andavano incontro al loro destino, quelle di chi nel 1936 scrutò la parete N dell’Eiger durante la tragedia di Toni Kurz e dei suoi sventurati compagni.
Quanti sono questi atti? Nell’alpinismo sono centinaia di migliaia, probabilmente milioni.
Non si può pretendere che chi voglia accostarsi alla storia dell’alpinismo se li studi tutti. A tale scopo esistono gli storici. Costoro poi scrivono libri in cui divulgano i risultati delle loro ricerche.
Chi desidera incominciare a conoscere la storia dell’alpinismo prima si affida ai libri di storia (scritti dagli storici), poi eventualmente – se col tempo cresce il suo interesse – a qualcuno dei milioni di resoconti (scritti dai protagonisti) e delle decine di migliaia di autobiografie degli stessi protagonisti.
… … …
Tu di certo conosci molto bene la storia della Seconda guerra mondiale. L’hai imparata sui libri degli storici oppure compulsando i milioni di atti dell’epoca?
La tua è una visione datata (molto datata). Se uno mi dicesse “guarda ti regalo il mio ultimo libro, intitolato Storia dell’alpinismo, in cui ho messo solo i fatti”, io quel libro lì non lo aprirei neppure. Se ci sono “solo” i fatti o cmq principalmente i fatti, che valor aggiunto può avere un libro del genere? E’ solo una ripetizione di cose già scritte e riscritte. Non c’è necessità di “nuovi” libri che raccontino i fatti già noti: se i lettori non conoscono i fatti, magari per giovane età 8dei lettori), che si sveglino e vadano a leggerseli in originale.
In ogni caso queste miei considerazioni riguardano principalmente la fascia top level dell’alpinismo, come fosse la Formula 1 dell’alpinismo. Faccio invece un discorso molto diverso su tutto quel mare magnun che sta “sotto” (a volte anche “molto sotto”) all’alpinismo da F1. Mi riferisco alla matassa di attività “media”, a volte istituzionalizzata (Sezioni, Sottosezioni, Scuole ecc), a volte neppure quello. E’ un tipo di attività cui mi sono appassionato da alcuni anni in qua e che mi prende sempre di più. Lì sì che può esser necessario ricostruire i fatti (gli eventi) e infatti così cerco di fare. A volte mi pare di esser un chirurgo che ricostruisce i tessuti, cercando di rifarli proprio come erano. Ma si tratta di un alpinismo dove i fatti NON sono così noti, anzi, spesso, sono proprio misconosciuti o, quanto meno, molto confusi e l’opera di ricostruzione degli evento lì sì che è fondamentale. Ciò nonostante anche in quel caso cerco sempre di dare una mia chiave di lettura degli eventi, non mi limito alla semplice ricostruzione asettica e basta. Infatti a me quello che interessa dell’andar in montagna è la componente “umana” d(io la chiamo “antropologica”), non la componente tecnica. E questo vale a tutti i livelli.
A me del libro di Motti (incentrato sull’alpinismo da F1) interessa la visione di Motti, anche quando non la condivido, e non i fatti oggettivi che già conosco e soprattutto non mi interessa se Motti li descriva tutti o meno. Gli eventi sno agli atti.
Carlo, stiamo parlando di un testo base intitolato Storia dell’alpinismo.
Storia, non critica storica.
… … …
La storia va sempre divulgata, perché molti, soprattutto i giovani, la ignorano oppure se ne dimenticano.
Non prenderti come riferimento: la grande maggioranza degli alpinisti non sa chi furono Paccard, Grohmann, Mummery, von Glanvell, Kugy, Lauper, Charlet, Welzenbach, Boccalatte, Tissi, Terray, Aste, ecc. Tutt’al piú ne conoscono soltanto i nomi.
Altrimenti andrebbe perduto uno dei piaceri dello scalare i monti: chi furono i nostri predecessori, che cosa fecero, che cosa pensavano, quali furono i loro sogni, come vissero e come morirono.
Le notizie storiche ormai le sanno anche i muri. Basta sfogliare un qualsiasi raccolta di itinerari, compresi i (bellissimi) volumi GMI del CAI-TCI. Forse in questi ultimi i “fatti” sono rintracciabili per montagne e non in un elenco cronologico sistematico, ma insomma un piccolo sforzo va messo in conto anche dal lettore. Dopo 250 anni di alpinismo (circa 200 quando scriveva Motti), ormai i fatti salienti li sanno anche le pietre (unica piccola eccezione può valere per alcuni personaggi collaterali che vengono “scoperti” oggi, ma non sono certo personaggi cardine della storia dell’alpinismo, altrimenti li avrebbero scoperti tempo fa). Le “opinioni” o meglio le interpretazioni dell’autore sono il vero sale delle cosiddette storie dell’alpinismo e, se vengono “prima” dei fatti tanto meglio. Anzi la tendenza attuale è quella per cui i fatti spesso sono dati per scontati, al limite si accenna. Esempio: c’è ancora bisogno di descrivere per filo e per segno la “Corsa alle Jorasses” del 1934-35 o quella alla Nord dell’Eiger del 1938? Al massimo è interessante descrivere i coinvolgimenti emotivi e psicologici dei vari personaggi, ma non i fatti in quanto tali (per questi ultimi spesso si rinvia in bibliografia, a volte anche solo implicitamente). Il bello delle Storie dell’alpinismo è proprio l’opinione degli autori, non i fatti. Il valore intrinseco della Storia di Motti è il pensiero di Motti, non la descrizione dei fatti. Ciò vale anche quando il pensiero di GPM è storicamente datato come nel caso dell’interpretazione che Motti fece di Gervasutti. Chi cerca i fatti (ma, dopo 250 anni di alpinismo, esistono ancora persone che hanno necessità di esser informati sui fatti????) deve rivolgersi ad altri tipi di saggi.
c’è l’ho
si dice spesso che la storia andrebbe riscritta, proprio perchè molti storici, invece di mettere in primo piano i fatti, spesso fanno i critici e tante altre volte omettono, per ignoranza o peggio volutamente. Anche in alpinismo avviene questo. Certo che è lecito dare un’opinione, un giudizio in merito ad un fatto, ad un personaggio, dare un impronta personale in quello che racconti, ma nello stile non nei fatti. I fatti sono fatti e vanno detti, non travisati e non nascosti. Altrimenti si pilota la storia a proprio piacimento.
Suggerisco la lettura di UNA STORIA DELL’ALPINISMO di Giovanni Pàstine, edizioni LiberodiScrivere.
Giovanni (Gianni) Pàstine, past president della Sezione Ligure del Cai, Istruttore Nazionale di scialpinismo e alpinista di lunghissima esperienza è stato un mio “cliente” per diversi decenni. Mentre l’accompagnavo lungo le numerose vie che abbiamo salito sulle Alpi ma anche in altri continenti, ho sempre imparato da lui nuovi dati e fatti storici. Il nostro si può dire che fosse uno scambio continuo di saperi e alcuni dei suoi libri sono stati scritti dietro mie spinte di incoraggiamento. Come il bellissimo ed esilarante Genovesi in Montagna.
In questa sua storia dell’alpinismo, già dal titolo, si capisce che c’ha messo del suo, ma è anche vero che ha conosciuto di persona molti dei protagonisti e con diversi ha scalato o sciato assieme.
Ne avevo scritto una recensione nel mio sito, eccola:
https://marcellocominetti.blogspot.com/2015/10/una-storia-dellalpinismo-un-libro.html
Carlo, forse non mi sono spiegato al meglio. Il mio pensiero è il seguente:
“Prima i fatti, poi – ben distinte – le opinioni”.
Invece nel testo di G.P. Motti le due cose sono mescolate. Anzi, addirittura a volte mi sembra che vengano presentate prima le opinioni.
E i fatti, come dicevo, sono carenti. Chi è digiuno di nozioni storiche non ha la possibilità di farsene un quadro sufficiente ed è probabile che il suo giudizio sia ancor piú influenzato da quello di chi scrive.
Il contrario avviene nell’aggiornamento che ne fece Enrico Camanni: molti fatti (date, nomi, ascensioni), poche opinioni.
… … …
I fatti della storia non possono certo essere descritti in formato Excel. Ai nostri tempi c’era il Bignami: forse bastava per un’interrogazione scolastica, ma non per la propria cultura.
Io appartengo alla linea di pensiero per la quale nel tracciare la Storia (in questo caso “storia alpinistica”, ma vale per la Storia in generale) il singolo autore abbia non solo il diritto, ma addirittura il dovere morale di esprimere commenti e posizioni personali. Sennò viene un testo asettico, sterile, impersonale: come il referto medico, un rapporto di polizia. la storia dell’alpinismo con questa impostazione potrebbe ridursi a un elenco su Excel: prime ascensioni, prime ripetizioni, prime solitarie, prime invernali, ecc.
Scritto uno di questi testi asettici (stile elenco in Excel), non ci sarebbe più spazio per altri autori, perché i fatti sono quelli e se pretendiamo che i testi storici siano asettici (=elenco in Excle), una volta scritto il primo, non è che gli altri possono intentarsi fatti “diversi” dal primo elenco. Viceversa l’importanza culturale, oserei dire perfino la “bellezza intrinseca”, dei testi storici con commenti e valutazioni personali dell’autore, è che ogni testo è “nuovo” rispetto ai precedenti e che i successivi saranno “nuovi” rispetto al testo stesso. Pertanto l’importanza storica dei testi storici consiste non nella contestualizzazione degli eventi (che vanno raccontati il più oggettivamente possibile, ci mancherebbe, ma una volta raccontati, “dopo” non è che possano cambiare), ma nella contestualizzazione dei commenti e delle valutazioni dell’autore. Un esempio per tutti: le valutazioni di Motti sul personaggio Gervasutti (=frustrato, infelice, che scaricava nel grande alpinismo la sua insoddisfazione esistenziale) è “figlia” dell’imperante visione piscologica e psicanalitica dei suoi tempi, (“suoi” di Motti, non “suoi” di Gervasutti), cioè anni Settanta. Oggi fa ridere quella visione, ma storicamente è importante, perché codifica l’interpretazione anni Settanta non solo di Gervasutti, ma probabilmente dell’intero alpinismo, interpretazione molto molto diversa da quelle elaborate successivamente. Il lettore attento, colto e profondo, coglierà nelle “diverse” storie dell’alpinismo non tanto l’evoluzione dell’alpinismo, ma l’evoluzione del pensiero umano nelle diverse interpretazioni dei fatti alpinistici. La Storia di Motti va letta non perché racconti i fatti dell’alpinismo (che erano noti e stranoti già ai suoi tempi), ma perché li racconta con la visione di Motti, a sua volta figlia del periodo in cui è vissuto Motti: e’ “lì” il suo bello.
Mi è sembrato limitativo aver definito Terray, Lachenal, Freddo e Rébuffat dei semplici ripetitori. Terray e Rébuffat furono anche autori di opere divulgative notevoli. Fra i grandi dell’anteguerra sarebbe stato logico citare fra gli altri anvhe Pierre Allain.
Alla Storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti sono stati contestati essenzialmente due difetti:
1) carenza di nomi, date, fatti;
2) troppi giudizi personali, anche a sproposito, come nel caso di Giusto Gervasutti.
È vero? Non è vero? Ciascuno legga e poi si formi la propria opinione.
Per quanto mi riguarda, credo che siano veri sia il punto 1 sia il 2. Però ritengo che, nel suo insieme, il libro di Motti sia comunque stupendo e di grande importanza, anche per la formazione culturale del giovane alpinista.
… … …
“Formazione culturale del giovane alpinista”?
In un’epoca in cui nella società vince chi urla, la cultura latita, imperversa l’ignoranza e contano quasi solo i soldi e i risultati materiali, che sto vaneggiando?
Il resto è storia nota ma il racconto ha creato la necessaria suspence per attendere la puntata successiva.