La vera storia del norvegese volante

Come il telemark di Hovelsen rischiò di imporsi in Europa e divenne invece un fenomeno da circo.

La vera storia del norvegese volante
di Leonardo Bizzaro
(pubblicato su La Rivista della Montagna, n. 219, dicembre 1998)

Thoeni contro Stenmark, a paragone, era una gara di ciclotappo. La sfida tra quelli di Kitzbuehel e i norvegesi, da una parte i seguaci di Zdarsky e della Lilienfelder-Skilauf-Technik, dall’altra i fieri sostenitori del telemark, poteva essere epocale. Come si fossero incontrati Coppi e Merckx, il Grande Torino e l’Ajax di Cruijff, Mohammed Ali contro Rocky Marciano.

Ma il duello non ci fu. Doveva tenersi l’inverno del 1904 nel paradiso dello sci austriaco, ma i norvegesi rifiutarono. Non bastarono i 500 marchi d’allora che Willi Rickmer – alpinista e geografo, esperto di tecnica dello sci, “inventore” di Kitzbuehel come stazione turistica invernale – aveva messo in palio, aggiungendone poi altrettanti e arrivando infine a 20mila. La federazione scandinava non intendeva mettere in discussione lo stile di Sondre Norheim, che sulle Alpi si affidassero pure alla voltata d’appoggio inventata da Mathias Zdarsky, se ne erano convinti, ma i norvegesi non si sarebbero prestati al gioco. Gli austriaci ritentarono con Karl Hovelsen, un ragazzone di 27 anni nato a Christiania, che in Germania stava mettendo da parte i soldi per trasferirsi oltre oceano. Ma anche a lui la Norwegian skiing association negò il permesso. La battaglia venne rinviata, si fece poi a Muerzuschlag, vicino a Vienna, ma in sordina, l’un contro l’altro due schieramenti austriaci, ché anche lì i telemarker non erano pochi: a rinfrancarli c’erano i libri di Wilhelm Paulcke, fiero oppositore di Zdarskv, il primo, nel 1897, ad aver attraversato l’Oberland con gli sci.

Karl Hovelsen

Come andò a finire, lo san bene i nostri lettori. Anche se la sfida di Muerzuschlag fu un fallimento, la Lilienfelder-Technik di Zdarsky si rivelò in breve vincente e oggi i telemarker sono una piccola minoranza inquieta anche in Norvegia. Ma le cose potevano forse andare diversamente, se a Hovelsen fosse stato concesso di gareggiare con gli austriaci. E se oggi in una nicchia fossero gli sciatori alpini, con la curva in ginocchio a furoreggiare invece sulla neve? Probabilmente non sarebbe accaduto, ma il telemark avrebbe avuto qualche chance in più, se a difenderne le sorti, quell’inverno d’inizio secolo, fosse sceso in pista Hovelsen. Nato a Christiania, il suo futuro era già scritto: il suo sport, ai piedi di Holmenkollen, non poteva essere che lo sci, il suo destino quello dell’emigrante, come altri 102mila norvegesi tra il 1900 e il 1905, salpati verso l’America nella speranza di far soldi con l’oro, l’agricoltura o, in mancanza di meglio, un impiego nella nascente industria dello sci. Tanti altri – 236mila circa tra il 1875 e il 1895 – si erano trasferiti nel Nuovo Continente gli anni precedenti, tra cui alcuni eroi del giovane norvegese: Sondre Norheim, il padre del telemark, che si stabilì in North Dakota nel 1884, con la moglie e sette figli, e i fratelli Mikkel e Torjus Hemmestveit, che lo raggiunsero nel 1889, vincitori tutti e tre, in edizioni diverse, della King’s Cup, la coppa messa in palio da re Oscar II per il miglior sciatore nelle tradizionali gare della collina di Huseby, sopra Oslo. Un prestigioso trofeo d’argento che oltre oceano non arrivò mai: dovettero venderlo per pagarsi il viaggio.

Si trattò di un’autentica migrazione che contò non poco nello sviluppo dello sci americano. Negli anni Ottanta erano decine, lungo le Montagne Rocciose, gli ski club fondati da norvegesi. Ma prima aveva già assunto aloni di leggenda la figura di un altro figlio del nord, John Tostensen Rui, americanizzato in John Thompson e passato alla storia come “Snow-Shoe” Thompson. Nel 1847, a dieci anni, si era trasferito dal Telemark sulla costa ovest. In piena corsa all’oro, per vent’anni trasportò la posta – tra i 18 e i 23 chili sulle spalle – tra Placerville, California e Genoa, Nevada: una novantina di miglia attraverso la Sierra Nevada, di miniera in miniera a distribuire pacchi e messaggi: «Scivolava» scrive nell’ottobre 1886 l’Overland magazine «sostenuto dalle sue lunghe ‘scarpe’ norvegesi con sicurezza e velocità sopra i grandi cumuli di neve».

Un astro dello sci
Una lapide nella Diamond Valley, non lontano da Genoa, ricorda oggi le sue imprese. Morì nel 1876. Un anno più tardi, il 23 marzo, nacque Hovelsen, che dopo una giovinezza tra le nevi, a quindici anni, a Holmenkollen, si iscrisse alla prima gara. Di salto, ovviamente. È il più giovane, la giuria nicchia, lui si butta quando nessuno guarda verso la piattaforma di partenza, ma in quel momento il dente del trampolino è sbarrato da due bambù, la competizione è sospesa per riparazioni alla pista. Le canne volano, Karl anche, un salto senza fine che si conclude senza troppi danni, solo una distorsione alla caviglia. Il presidente della giuria lo vorrebbe uccidere, ma qualche tecnico, tra la folla, vede in quel saltatore pazzo la stoffa del campione, con uno straordinario senso dell’equilibrio in aria. È una capacità che sfrutta con gli amici nelle riunioni di San Silvestro alla capanna nel bosco di Thorvald Hansen, costruttore di sci del Nordmarka, una decina di chilometri da Christiania, nei pressi del lago di Skjennungen. La combriccola si lancia da un trampolino improvvisato su una pietra vicina, la sfida non è tanto la lunghezza del salto, quanto la sua originalità: chi è vestito da vecchia nonna, chi da Babbo Natale, Hovelsen per parte sua si lancia con una fisarmonica, suonando il motivetto di una marcia di John Philip Sousa prima di atterrare, senza sbagliare una nota.

Esibizioni da circo che gli torneranno comode. Ma la forza e l’abilità non lo aiutano solo a far ridere. Nel 1898 dopo una gara di 17 chilometri vinta a Gjoevik, torna a Christiania con gli sci, circa 80 chilometri quello stesso pomeriggio, altri 50 il mattino dopo, mangiando due arance. Ai primi giochi nordici del 1903 vince una massacrante 50 chilometri in 4 h 17′ 06”, un primato che si aggiunge alla vittoria nel salto e nella combinata. È un trionfo. Il re Oscar e Fridtjof Nansen corrono ad abbracciarlo, il Norwegian sports journal scrive: «Hovelsen è ormai l’eroe dello sci di questa stagione».

Locandina del circo Barnum

Poi venne il tempo dell’esilio. Nel 1904 si trasferisce in Germania, in attesa del balzo più lungo, oltre l’Atlantico. Lo raggiunge l’invito di Zdarsky, ma è costretto a rifiutare. Nel giugno 1905 si imbarca ad Amburgo per New York. In luglio arriva a Chicago e trova un letto presso una famiglia norvegese, gli Engedahl, in Edgewood avenue. A novembre, Hovelsen e il padrone di casa, con altri ventisei connazionali, fondano il Norge ski club of Chicago e trovano a circa 60 chilometri dalla città, a Cary County nell’Illinois, una collina perfetta per ricavare un trampolino che diventa punto d’attrazione per gli sciatori del Midwest. Il Norge ski club è tra i più prestigiosi d’America, Karl Hovelsen, nel frattempo diventato Carl Howelsen, ne è il delegato presso la National ski association of Usa e nel 1924, alle prime olimpiadi invernali di Chamonix, un membro del club, Harry Lien, rappresenterà gli Stati Uniti nel concorso di salto. I norvegesi non si negano esibizioni per fare pubblicità allo sci: nel gennaio 1908 costruiscono un trampolino nel pieno centro di Chicago, in Humbolt Park. Saltano gli atleti di cinque ski club del Midwest. Howelsen e Schanke si lanciano appaiati. Ma Howelsen era lì in veste di giudice e il Chicago record herald, pur assegnandogli il miglior salto, di oltre 16 metri, lo definisce «l’ex-campione norvegese».

Già, perché da due anni Carl aveva scoperto un nuovo hobby.

Nansen in Groenlandia

Talento d’acrobata
Nell’estate 1906 in Riverview Park, «il più grande parco di divertimenti al mondo». aveva visto una sorta di montagna russa, con un vagoncino che scendeva vertiginosamente da una torre di oltre 30 metri e finiva in una piscina. Se ne innamora e chiede di usarla come trampolino. Al luna park sono perplessi, ma gli concedono di provare, purché sia lui ad occuparsi dell’assicurazione. Howelsen realizza un paio di sci con la soletta in metallo, si butta dalla cima della torre e plana per una trentina di metri sulla piscina. Poi costruisce il dente di un trampolino alla fine della discesa e si esibisce in una serie di salti oltre i 18 metri, atterraggio sempre in acqua. Lo show piace, gli spettatori sono WiT • numerosi e un giorno arriva un tizio con grandi baffoni, è il direttore del “Bamum and Bailey’s greatest show on earth”. E’ il circo Barnum, il padre dei circhi moderni, anzi qualcosa di più. Offrono a Howelsen duecento dollari alla settimana per saltare da un trampolino eretto sotto il tendone, atterrando in una piscina o su una montagna di cuscini. Il contratto, per lui e due compagni, viene firmato il 12 novembre 1906. Howelsen diventa «the Flying Norseman», il norvegese volante, e debutta addirittura al Madison Square Garden, il 21 marzo, davanti a 20mila spettatori. Il suo nome, quello di Captain Howelsen, è strillato da manifesti giganti di 10 metri per cinque, dov’è raffigurato con il petto carico di medaglie. Lo spettacolo è recensito con toni entusiastici dall’intera stampa della costa orientale, ne parlano The worlduna riproduzione rischiosa, piramidale, prodigiosa dello sport più pericolosamente divertente dell’intero mondo»), il New York evening journalla sfida mortale di Captain Howelsen, che vola come un uccello sugli sci, è una meraviglia»), il New York pressla più sensazionale tra le molte nuove attrazioni fu l’emozionante discesa di Carl Howelsen su un pendio scosceso con gli sci»). Lo show del “norvegese volante” arriva a diventare soggetto di vignette satiriche: sul Brooklvn daily eagle del 23 marzo 1907, c’è il presidente Theodore Roosevelt in volo al posto di Howelsen, in una riproduzione del poster del “Barnum and Bailev”.
Sulle sue spalle il candidato Taft, che il leader statunitense cerca di portare alle presidenziali del 1908.

La tournée tocca 146 città di 16 stati e Howelsen abbandona il circo a fine stagione, ma a causa di uno strappo alla schiena era stato comunque sostituito per qualche settimana da un connazionale, Aksel Henriksen. Non finisce qui la sua carriera, torna ai salti veri. Da professionista vince il campionato americano, a Steamboat Springs gli dedicano addirittura una collina, Howelsen Hill. Poi è la nostalgia a vincere, si imbarca di nuovo per Amburgo e poi per Christiania. Ha 45 anni, si sposa con una ragazza conosciuta a Chicago e continua a saltare, ancora da dilettante, ricominciando la trafila dalle garette. L’ultimo salto è nel dicembre 1955, 30 metri, discreto per uno che ha appena compiuto 78 anni. Lo chiude con il suo elegante telemark e non dice più una parola.

Quella notte morì. La morale di questa storia tiratela voi.

Per leggere su Hovelsen
Karl Hovelsen è un personaggio poco conosciuto, nell’empireo dello sci. Tracce di lui si trovano raramente, cercando fra le pagine di neve, e solo suo figlio Leif gli ha dedicalo un librino, pubblicato nel 1983 dalla National ski hall of fame press, da cui abbiamo tratto la maggior parte delle notizie utilizzate in questo articolo e al quale sembra essersi ispirato anche Massimo Di Marco, che a Hovelsen dedica un capitolo del suo recente La leggenda dello sci alpino, in cui si può leggere anche di Nansen, Paulcke e Zdarsky. Per il resto, le vicende sciistiche dei pionieri tra Norvegia e Stati Uniti si possono seguire sfogliando quell’autentica enciclopedia che è la raccolta degli annuari di Ski club of Great Britain e Alpine ski, curati da Arnold Lunn e poi da suo figlio Peter dall’inizio degli anni Venti al 1971. Li si può trovare – non tutti, purtroppo – sugli scaffali della Biblioteca nazionale del CAI, con sede a Torino.

Leif Hovelsen, The flying norseman, National ski hall of fame press, Ispheming, 1983;
Massimo Di Marco, La leggenda dello sci alpino, Dmk Editrice, Milano, 1997;
Arnold Lunn (a cura di), The british skiyear book, King & Hutchings, Uxbridge, 1924-1971.

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La vera storia del norvegese volante ultima modifica: 2021-12-19T05:32:00+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “La vera storia del norvegese volante”

  1. Il telemark non reinventa lo sci alpino, ben venga l’innovazione, specie per la pratica skialp a tallone libero dove un comodo è caldo scarpone in plastica, di fatto immutato negli ultimi 20 anni, mi consente di sciare in sicurezza, benvenuti gli sci larghi e attacchi 2 pin più leggeri, personalmente non ho abbandonato il 75mm che affianco,da tempo ho abbandonato le piste pur, come tanti provenendo dallo sci alpino.
    Non rimpiango gli scarponi in pelle e i Tua da 205,fanno parte della storia dello sci di montagna( oltre ad essere ben conservati).
    Passato e futuro

  2. Articolo molto interessante e documentato, sentiamo anche la vicinanza e l’influenza di Giorgio Daidola. A parte qualche dettaglio, noi praticanti di telemark ne conosciamo la storia ed è sempre interessante scavare nel passato. Ma non è la storia che mi spaventa, è il futuro che mi interroga.
    Abbiamo sempre presentato il telemark come LA forma più semplice ed elegante per disegnare arabeschi sulla neve. Era vero. Prima. Ha perfettamente ragione Giorgio a dare l’allarme: “per uscire dalla superficialità e dall’artificiosità dello sci moderno” (sic)
    A meno di 30 anni dalla sua rinascita, almeno in Europa, il telemark si sta reinventando… lo sci alpino: scarponi di plastica, attacchi di sicurezza anche su palafitte, sci sempre più larghi, casco…
    Non sto dicendo che devi insistere nel “vintage” soprattutto per il lato sartoriale, ma, nel profondo di me, penso che l’anima dell’autenticità si sia sciolta da tempo sotto il sole invernale. Senza falsa modestia, il pioniere del revival del telemark in Francia quale sono, non si riconosce più nella disciplina. Temo che la bella formula di Paolo Tassi, “Il telemark è passato e futuro dello sci“, rimarrà per sempre una formula…

  3. “Le cose belle e importanti richiedono un minimo di ricerca e di fatica per essere apprezzate.”
     
    Meditate, gente, meditate!

  4. Gran bello scritto, interessante e evocativo. Dimensione Sci era un capolavoro creato da artisti innamorati di irripetibile portata, secondo me.
    Sicuramente il successo della tecnica alpina su quella telemark è dovuto alla minore fisicità che occorre nella prima. Il telemark resta una possibilità,  bellissima, nostalgica e di gran classe, ma che non coinvolgerà mai le masse. Per fortuna.

  5. Il telemark è al tempo stesso il passato ed il futuro dello sci, ha detto la nota guida alpina e telemarker Paolo Tassi in una recente conferenza. Io penso senza ombra di dubbio che abbia ragione. Prima o poi si ritornerà alle origini di una passione, si sentirà il bisogno di uscire dalle superficialità e dalle artificialità dello sci moderno.  Quando sfoglio i 17 numeri dell’annuario Dimensione Sci tutto questo mi sembra chiaro, dimostrato.
    I tempi forse sono ora maturi per riscrivere una storia dello sci moderno e farla conoscere ai tanti che la ignorano. Tanto per cominciare invito a leggere il libretto di Leif Hovelsen denso di amore e riconoscenza per un grande padre. Non è poi così difficile da trovare. Le cose belle e importanti richiedono un minimo di ricerca e di fatica per essere apprezzate.

  6. Bello rileggere quanto pubblicato sul mitico Dimensione sci curato da Daidola. 
    La prima riflessione riguarda la spettacolarizzazione dello sport, che parte da lontano, il grande seguito di pubblico e la pubblicizzazione.
    Il circo itinerante come oggi è itinerante nelle sale cinematografiche un Banff film festival o simili, con la differenza che al circo il numero poteva anche non riuscire mentre nella pellicola di norma ci metto solo l’evoluzione perfettamente avvenuta.
    La seconda riflessione riguarda l’evoluzione dello sci, da strumento unico che consentiva di passare dall’aspetto ludico a quello scialpinistico o di grandi traversate o più banalmente come mezzo di trasporto alla specializzazione degli ultimi decenni.
    L’interesse del telemark è della sua riscoperta nel tardo novecento era legata anche al fatto che era possibile con un attrezzatura relativamente leggera (rispetto agli standard skialp di allora) fare quello che veniva fatto all’inizio secolo scorso.
    Che cosa è rimasto? Sicuramente la passione che ci porta a fare un movimento faticoso ma esteticamente appagante, grati anche di un attrezzatura che ci consente di salire e scendere anche dove scendono gli skialp bloccati.
    È poi, chissà, se in futuro si potrà ripensare alle grandi traversate e non solo alle gite in giornata.
    Lunga vita al telemark. 

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