L’alpinismo solitario

Si ricorda che Motti scrisse Storia dell’Alpinismo nel lontano 1977: qui necessariamente le imprese solitarie si fermano a quell’anno.

L’alpinismo solitario
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-39)

Il cammino della libertà
Si dice che la scalata solitaria sia un po’ una vocazione. Ed è vero. Vi sono alpinisti assai abili che però non hanno mai arrampicato in solitaria. Essi stessi non saprebbero rispondere perché: forse perché hanno paura, forse perché senza il legame della corda si sentono incapaci di salire per un solo metro, forse perché lo considerano un rischio inutile.

Eppure non vi è nulla di più elegante dell’arrampicata solitaria. È un dialogo, meglio un monologo, che richiede perfetta conoscenza di se stessi, un autocontrollo degno di un santone indiano, una mente fredda e analitica e allo stesso tempo l’ingenuità, l’incoscienza e la freschezza spirituale di un bambino. Gli psicologi dicono che lo scalatore solitario non ha in sé l’idea della morte ed è per questo che può permettersi di osare fino a quel punto senza provare paura. Altri sostengono il contrario, ossia che egli cerca la morte come massimo desiderio realizzabile nella sua esistenza. Comunque, chiunque abbia visto arrampicare un solitario, ha provato un’emozione strana, quasi un’angoscia che porta a coprirsi gli occhi e a non guardare. Forse il timore che egli possa cadere non è null’altro che un inconscio desiderio che egli cada, suggerito da chissà quali recessi del nostro animo.

Hermann von Barth

Ma vi è modo e modo di arrampicare da soli. C’è chi giunge alla scalata solitaria perché in tal modo può affermarsi ancora di più, per dimostrare ad altri tutta la sua bravura, il suo coraggio e la sua potenza. C’è chi invece si sente portato ad arrampicare da solo da una forza invisibile, poiché si accorge a poco a poco di non aver bisogno di alcun compagno. Come sempre c’è chi cerca l’affermazione attraverso l’impresa e c’è chi invece trova nell’arrampicare da solo un momento di perfezione e di armonia a prescindere da dove l’azione si svolga e dove l’azione stessa lo porti. Infatti vi sono due modi di procedere in solitaria. Nel primo modo ci si serve di alcune complesse manovre di autoassicurazione, per prevenirsi in caso di caduta. Quasi tutte le scalate solitarie più famose sono state realizzate in questo modo.

Soprattutto in arrampicata artificiale, l’autoassicurazione è praticamente indispensabile, in quanto ci si deve affidare ai chiodi, la cui tenuta è pur sempre dubbia. Non si può dire se questo sistema sia meno elegante e corretto dell’altro; certo, il rischio è indubbiamente minore. Ma anche in questo modo di procedere vi è qualcosa di magico ed estremamente interessante: la scalata non si svolge più ai ritmi regolari dati dalle lunghezze di corda. Essa diviene estremamente più lenta: il tempo stesso perde il suo significato e l’arrampicatore esce dalla normale dimensione ed entra in un altro cosmo, regolato unicamente dal suo stesso procedere. Egli sale, scende, risale, pianta i chiodi, li svelle, issa il sacco, palpa il materiale ed i chiodi quasi con un erotismo maniacale, sviluppa una percezione fortissima che gli permette di cogliere sensazioni ed immagini altrimenti invisibili ed irraggiungibili.

La sua mente si svuota completamente di ogni pensiero, l’azione si fonde meravigliosamente con l’attimo del pensato e non vi è più separazione alcuna tra pensare ed agire. Questo senso di «avere la mente vuota» è ben noto ad ogni alpinista che abbia arrampicato in solitaria per un lungo periodo di tempo. Anche l’angoscia e la paura se ne vanno a poco a poco e tutto allora pare estremamente semplice e nudo nella sua vera realtà, spogliato da ogni concetto e da ogni sovrastruttura data dalla cultura. I gesti assumono una loro efficacia dettata dalla più grande semplicità; il sole, l’acqua, la roccia, la neve, il vento, paiono realmente come tali, ma vivi, presenti, ed è facile dialogare con essi come si dialogherebbe con una persona.

Qualcuno parla di potere allucinogeno dell’arrampicata solitaria, dato dagli scarti dell’adrenalina che resterebbero nel sangue, motivati dal continuo controllo della paura e dell’angoscia. Qualcosa di simile accadrebbe anche nelle pratiche orientali tipo lo yoga o il buddismo-zen. Insomma, esisterebbe una sorta di euforia data dall’arrampicata solitaria. Ma ciò ci pare fin troppo semplice. Vi è sicuramente alle spalle qualcosa di molto più profondo.

Il secondo modo di arrampicare in solitaria è quello di privarsi di ogni mezzo di assicurazione e di ogni aiuto artificiale: è la scalata libera pura, di cui Preuss fu maestro insuperabile, dove si procede soltanto con l’aiuto delle mani, dei piedi, e dell’intelligenza. Indubbiamente siamo ai vertici dell’eleganza.

Emilio Comici

Molti censori e molti difensori della morale hanno duramente condannato questo tipo d’alpinismo. Ma se si rimane nell’ambito dei propri limiti e non si osa oltre, facendo scattare i meccanismi bloccanti dell’angoscia e della paura, non vi è forse modo più esaltante d’arrampicare. L’alpinista così taglia ogni cordone ombelicale che lo lega alla terra e se ne va libero come un uccello, libero di danzare leggero sul vuoto, in una splendida armonia psicofisica che forse in tutta l’attività umana non trova comparazione. Ma il solitario che arrampica in tal modo non deve aggredire la parete, non deve arrampicare per vincere e per dimostrare a se stesso di essere forte e coraggioso. Gli sarebbe fatale.

Egli invece deve farsi accettare dalla parete, entrare in dialogo con l’aria, con la roccia, con la gravità terrestre, con il proprio corpo. Se ciò riesce (e per molti sarà difficile credere a questo), come per incanto il peso corporeo sembra svanire a poco a poco e si sente come un’energia fantastica che solleva verso l’alto e che si impadronisce del cervello, rendendo ogni gesto essenziale, perfetto, elegante. Ogni cosa va fatta dove deve essere fatta. Scompare l’idea oscura della caduta, della morte, quasi ci si sdoppia e si vede un’immagine di se stessi che esce dal corpo e che precipita giù fino a schiantarsi nelle ghiaie poste alla base della parete. Allora in quell’istante tutto pare divenire un gioco, uno splendido gioco che l’individuo più non dirige e comanda, ma a cui ci si abbandona lasciandosi portare con dolcezza.

Quando si arrampica da soli, violentare un passaggio, cercare di forzare, cercare di passare provando angoscia, può essere estremamente pericoloso. Il solitario, se sbaglia è perduto: nessuno lo può trattenere in caso di caduta. La sua compagna di cordata è la morte. Ma la morte forse non è poi così brutta come si crede e con essa si può certamente discutere, parlare, anche scherzare e giocare. Invece di combatterla come la più grande nemica della vita, è sufficiente accettarla ed invitarla a sedere nella propria casa…

Splendide sono anche le arrampicate solitarie compiute sui grandi pendii di ghiaccio e nei lunghi canaloni di neve, dove la sensazione della solitudine è ancora più accentuata. Ma non è detto che il solitario debba essere solo. Anche se questa forma d’alpinismo forse non ha ancora trovato seguito, dovrebbe essere veramente magnifico arrampicare slegati ma in piccoli gruppi di due o di tre, scambiandosi sensazioni, parlando durante l’arrampicata, spezzando quel fastidioso legame della corda che porta con sé un gravoso carico di simboli e di sublimazioni.

Certo, siamo in tal caso ben lontani dalla tensione emotiva dell’impresa; qui piuttosto vi è una ricerca di gioco anche in un ambiente che sempre si è descritto come pericoloso, impregnato di morte, negato al gioco ed aperto invece alla sofferenza. Ma non è affatto detto che per sempre debba essere così. Bisogna pur provare. Anche se molti diranno: ma quanti solitari si sono ammazzati durante le loro scalate? Molti, certamente. Ma ciò non significa nulla. O forse sì, ma dovremmo chiederlo proprio a quelli che sono caduti.

René Desmaison

I grandi nomi dell’alpinismo solitario
Durante la trattazione più volte ci siamo imbattuti in scalatori solitari, quindi è superfluo trattenersi ancora su nomi come Georg Winkler, Hermann von Barth, il leggendario Paul Preuss, Hans Dülfer, Emilio Comici, Hermann Buhl, Walter Bonatti, Cesare Maestri, René Desmaison. Al massimo possiamo aggiungere qualche dettaglio, ossia che Bonatti ha sempre realizzato le sue scalate solitarie ricorrendo alle tecniche di assicurazione, mentre invece Maestri il più delle volte ha realizzato numerose imprese sia in salita sia in discesa senza alcuna autoassicurazione… «Ho sempre arrampicato da solo senza l’aiuto della corda o di altri mezzi artificiali, sempre completamente in libera sia in salita sia in discesa. Alcuni si assicurano nei tratti più difficili, ma io non l’ho mai fatto. Ogni volta che ho sentito di non essere in grado di superare un passaggio senza rischiare di cadere, mi sono ritirato».

Queste le parole di Cesare Maestri; parole che testimoniano il vero. Stupisce che più avanti, nel corso della sua carriera, egli sia giunto al perforatore meccanico sul Cerro Torre. Ma perché mai chiedere ad un uomo la coerenza? A volte essere coerenti vuol dire rifiutare l’esperienza. Nelle sue scalate solitarie Maestri fu assolutamente rigoroso ai suoi principi e va ricordato come uno dei più grandi solitari della storia dell’alpinismo. Ciò che accadde in seguito, non appartiene all’alpinismo solitario, ma a quello artificiale.

Tra le molte sue imprese dobbiamo ricordare la prima solitaria della via Solleder al Civetta (1952) e la prima solitaria della via Soldà alla Marmolada (1953).

Poi le prime solitarie della via Solleder al Sass Maor, della via delle Guide sul Crozzon di Brenta, compiute in salita e in discesa senza alcun mezzo di assicurazione (V e V+).

Tra i dolomitisti abbiamo già ricordato Armando Aste, autore della prima solitaria della via Couzy sulla Cima Ovest di Lavaredo. Ma per trovare un personaggio della tempra di Cesare Maestri, dobbiamo giungere al belga Claude Barbier (caduto nel maggio 1977 durante una esercitazione di palestra nelle Ardenne), certamente uno degli scalatori solitari più audaci e preparati che mai siano esistiti. Di lui si ricorda soprattutto un’impresa che ha del fantastico e dell’incredibile: nel 1961, in un solo giorno, egli superò, da solo, una dietro l’altra le vie Cassin sulla Ovest di Lavaredo, Comici alla Grande, Preuss sulla Piccolissima, Dülfer sulla Punta di Frida e Innerkofler sulla Cima Piccola.

Nicolas Jaeger

Ogni commento a questo punto ci pare veramente superfluo. L’attività di Barbier sulle Dolomiti è pressoché unica: approfittando del molto tempo libero che aveva a disposizione, l’alpinista belga ha ripetuto tutte le vie dolomitiche di una certa difficoltà ed ha anche aperto innumerevoli vie nuove, soprattutto in gruppi ancora sconosciuti ed inesplorati. Nel campo dell’arrampicata pura su roccia, egli è dunque stato una delle massime espressioni dell’alpinismo. Bisogna anche ricordare le sue prime solitarie della via Comici al Civetta, della via Andrich sulla Punta Civetta e della Carlesso sulla Torre di Valgrande, tutte vie che già in cordata danno notevole filo da torcere a chiunque.

Procedendo nella nostra analisi, incontriamo altri alpinisti che solo occasionalmente hanno compiuto imprese solitarie, seppur di notevole portata, come appunto Michel Darbellay che nel 1963 effettuò la prima della Nord dell’Eiger da solo e come l’italiano Alessandro Gogna che vinse da solo la via Cassin sulla parete nord delle Grandes Jorasses, in magnifico stile, praticamente senza alcuna autoassicurazione (1968).

Cercando invece i solitari abituali, troviamo nell’alpinismo francese di oggi (1) molti nomi di giovani arrampicatori che sembrano prediligere questo tipo di scalata. Citeremo Georges Nominé (purtroppo caduto sulla Nord dell’Aiguille du Midi), autore di difficilissime solitarie sulle pareti delle Prealpi Francesi e famoso soprattutto per aver realizzato la prima del Pilone Centrale del Frêney (1971). Citeremo Jean-Claude Droyer, anch’egli autore di molte solitarie di estrema difficoltà, ma distintosi soprattutto per aver realizzato la prima della Diretta Americana al Dru (via Hemming-Robbins) nel 1971, certamente una delle scalate più dure ed audaci che mai siano state compiute da soli. Va ricordato che Droyer fece pochissimo uso di autoassicurazione e tanto meno di mezzi artificiali, superando da solo e in arrampicata libera lunghi tratti di VI grado ed anche VI grado superiore!

Citeremo Joël Coqueugniot, il fortissimo arrampicatore marsigliese, autore anch’egli di solitarie prestigiose, tra cui spicca la prima della via Contamine sulla parete ovest delle Petites Jorasses (700 metri, V e VI grado in libera). Citeremo Jean Afanassief, vincitore in solitaria dello sperone Croz sulle Grandes Jorasses; ma soprattutto Patrick Cordier e Nicolas Jaeger. Il primo è autore della solitaria della via del Nose sulla parete del Capitan, in California, certamente una delle imprese più grandiose che mai siano state realizzate in questo stile. Comunque anche sulle Alpi Cordier ha superato un gran numero di pareti estremamente difficili da solo: basti citare la recente (1976) prima della durissima via degli Americani sulla Sud dell’Aiguille du Fou.

Georges Nominé

Il secondo, Nicolas Jaeger, realizza innumerevoli scalate solitarie in tempi così brevi da risultare incredibili.

Ha veramente del fantastico pensare che nell’agosto 1975 egli ha realizzato la prima solitaria della via Bonatti-Gobbi sul Grand Pilier d’Angle (che richiese due bivacchi ai primi salitori e che oggi normalmente si supera con un bivacco) in sole 4 (leggi quattro) ore! Ma non basta: giunto in vetta al Pilier d’Angle, è poi disceso al Col de Peutérey, si è portato all’attacco del Pilone Centrale del Frêney, giungendovi alla base alle 12.30. Il giorno successivo, a mezzogiorno, Jaeger era già in vetta al Bianco.

Tra gli italiani è doveroso ricordare il friulano Angelo Ursella (caduto alla Nord dell’Eiger); Sereno Barbacetto, certamente uno dei migliori arrampicatori italiani del momento, autore di numerose solitarie di prestigio sulle Dolomiti; il fortissimo e purtroppo scomparso Enzo Cozzolino, di cui già si è parlato; la guida Giorgio Bertone, anch’egli scomparso, che è stato uno dei massimi rappresentanti dell’alpinismo italiano degli anni Settanta, autore di una velocissima solitaria della via Ratti-Vitali sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey; e ancora molti altri «eroi sconosciuti», come Gian Carlo Grassi, Aldino Anghileri, Renato Casarotto, ecc., anch’essi autori di molte solitarie di elevata difficoltà, che però, per la loro modestia, non sono mai giunte alla ribalta delle cronache. Tra gli inglesi non possiamo dimenticare Eric Jones, autore di prestigiose prime solitarie nel Gruppo del Bianco, tra le quali spicca la prima salita (e da solo) sul Pilastro di destra del Brouillard, un’impresa che molti giudicano inferiore solo a quella di Bonatti sul Petit Dru. Anche Alan Rouse si è distinto realizzando la prima solitaria dello spigolo nord del Pizzo Cengalo.

Il già citato Renato Casarotto (1948-1986, NdR), vicentino, nel 1977 è stato protagonista di un’impresa che lo pone ai vertici assoluti dell’alpinismo solitario. Egli ha percorso da solo l’altissima e pericolosa parete nord dell’Huascarán, la cima più alta della Cordillera Bianca (Ande Peruviane). Rimasto in parete per più di venti giorni senza alcun contatto con il basso, Casarotto ha superato tratti di difficoltà estrema in una parete molto pericolosa e soggetta a franamenti. Nessun alpinista prima di lui aveva mai osato nulla di simile. Casarotto ha dato in questa occasione una dimostrazione magnifica di preparazione psicofisica e di audacia. La sua impresa indubbiamente apre il cammino alle scalate solitarie sui colossi himalayani.

Vogliamo, invece, concludere la breve e succinta analisi con il nome di Reinhold Messner, certamente il più significativo alpinista del periodo in cui viviamo. Le sue realizzazioni in solitaria testimoniano una preparazione psico-fisica, un’abilità sia su roccia sia su ghiaccio, un autocontrollo, una sicurezza interiore ed una padronanza dei propri mezzi, che hanno veramente del fantastico. Probabilmente per Messner non vi è alcuna differenza tra arrampicare da solo o in cordata.

Patrick Cordier

La sua impresa solitaria più prestigiosa è la ripetizione della parete nord delle Droites (1969), una salita che ai primi salitori aveva richiesto ben 5 (leggi cinque) bivacchi e che dai pochi ripetitori viene effettuata con almeno due bivacchi (2). A giudizio unanime si tratta della più difficile e completa parete di «misto» delle Alpi intere, caratterizzata da orridi pendii di ghiaccio traslucido inclinati anche a 70 gradi e da placche rocciose consunte dal ghiaccio, sempre innevate e ricoperte di infido «verglas». Messner riuscì a vincere questa parete in poco più di sette ore, sbalordendo il mondo alpinistico internazionale.

Lo stesso anno compie la prima solitaria della via Vinatzer sulla sud della Marmolada, di cui già conosciamo le difficoltà; ma giunto alla cengia mediana, invece di prendere i facili colatoi e camini che portano in vetta, decide di aprire da solo una variante diretta, con difficoltà di VI grado, A1 e A2! Va sottolineato il fatto che Messner ricorre pochissimo all’autoassicurazione durante le sue solitarie e, d’altronde, i tempi brevissimi di realizzazione lo dimostrano (le manovre di autoassicurazione richiedono molto tempo). Ma non basta. Ancora nel 1969, Messner realizza la prima solitaria della dura via Soldà sulla Nord del Sassolungo, dove rompe il martello ed è costretto a compiere un’ardua variante d’uscita (V e VI in libera); della via dei Meranesi sulla Furchetta e, soprattutto, il suo capolavoro dolomitico del diedro Philipp-Flamm sulla Nord-ovest del Civetta, vinto in poco più di sette ore!

Note
1. Degli anni Settanta.
2. Questo almeno fino alla seconda metà degli anni Settanta. In seguito, grazie alla tecnica della «piolet-traction», i tempi di salita si ridurranno enormemente.

L’alpinismo solitario ultima modifica: 2025-04-16T05:06:00+02:00 da GognaBlog

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18 pensieri su “L’alpinismo solitario”

  1. Je suis tout à fait d’accord avec Giovani Battista RAFFO.
    Il est complétement inutile de décortiquer les décisions de l’alpiniste solitaire.
    Elles ne regardent que lui.

  2. Quando ho ripetuto in solitaria invernale la via Zappelli sulla parete nord del Pizzo delle Saette, l’ho fatta quasi tutta slegato. Mi sono solo assicurato in due brevi tratti che avevo valutato troppo rischiosi. Nel secondo tratto, sulla cresta finale al tiro della paretina a zeta della cresta N.O.   ho vissuto un brevissimo ma intenso momento. Arrivato alla sposta dopo il tratto della zeta, mi rimaneva da superare una corta ma verticale paretina di pochi metri. La grande esposizione e la roccia rotta e sporca di neve, mi ha suggerito di autoassicurarmi. Invece di usare la corda, visto la brevità del tratto, ho fatto un’assicurazione piuttosto improvvisata unendo alcuni cordini che ho collegato alla sosta e all’imbrago. Non avendo calcolato sufficientemente la lunghezza dei cordini, una volta arrivato a prendere il bordo superiore della paretina, i cordini sono andati in tiro e mi sono trovato bloccato nell’impossibilità di proseguire. Riscendere manco a pensarci.  Mi sono trovato perso. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era staccarmi dai cordini, rinunciando alla loro (presunta) sicurezza e uscire fuori sul terrazzino. E’ stata una decisione o la và o la spacca. Mi sono sganciato lasciando cadere i cordini e strigendo a più non posso la roccia sono uscito fuori urlando tutta la tensione. Mi sono sdraiato rimanendo lì un bel pò prima di poter ripartire per il tratto finale.

  3. Piccola correzione (se non mi sbaglio): la prima solitaria della Solleder al Sass Maor dovrebbe essere stata effettuata da Gabriele Franceschini, non da Maestri, peraltro eccezionale solitario.

  4. Che bella lettura. Personalmente mi ha fatto riflettere su una domanda che mi sono fatto spesso, ovvero perché preferisco infilarmi in un canale innevato di medio/bassa difficoltà da solo piuttosto che arrampicare su roccia in compagnia.
    La mente in ambiente innevato, anche quando si cammina, non vaga e si è lì concentrati, tutt’uno con la montagna passo dopo passo. Ho provato lo stesso senza neve compiendo qualche bel giro in solitaria, come una cresta, con passaggi delicati dove le mani non possono sbagliare. Sei lì e la mente non pensa a altro.
    Un altro aspetto bello della solitaria è che tutto parte da te, non parli e ti concentri su cosa fare da solo, custodendo un segreto che nonostante sia percorrere un semplice itinerario accessibile ai più, diventa a quel punto la tua piccola Nord de Les Droits. E un pochino Messner ti senti. 

  5. Per chi lo avesse perso sull’  argomento che poi È la cima della cima nel mondo di chi arrampica: 
     Solitari di Fabio Palma 2005
    Edizioni Versanti Sud

  6. Mimmo1928 è l’Implacabile (in senso positivo).
     
    Quest’anno compirà 97 anni! Gli auguro di essere ancora in vita, ma gli consiglio – alla sua età – di “accontentarsi’ dei sentieri. 

  7. In onore di Mimmo1928, lo sperone sud ovest del Gelas prenderà il suo nome. 

  8. Cla #10 se la vita me lo consente vorrei arrivare anche io come bruno… veramente un grande

  9. Memento mori.

    Quello è scontato, che tu faccia o non faccia alpinismo.

  10. Condivido il parere di Alberto. Io ho fatto pochissime solitarie, non facili ma non di grande sviluppo, in estate e in inverno. Solamente una volta non mi sono autoassicurato. Ero  in discesa. In quel caso ho percepito una grande serenità e sicurezza. In seguito però ho usato sempre la corda. Quello che può accadere è imponderabile e sentirsi sicuri non è una reale assicurazione. E poi ci sono gli agenti esterni, come sappiamo bene. Anche in automobile è così. Personalmente ho una guida abile e sicura che mi piace molto e sono prudente. Però poi la mia sicurezza non dipende solo dal mio sentire, ma da tutto quello che c’è intorno a me. Messner anni fa diceva che dei cento scalatori solitari più forti al mondo, ne erano rimasti in vita solamente due.

  11. Ho fatto diverse solitarie sia su roccia che su ghiaccio/misto e mi sono quasi sempre autoassicurato. La manovra è macchinosa e lenta, ma ho preferito fare così perchè non ho dato per scontato che non potesse accadermi nulla. Ci sono arrampicatori solitari, anche amici miei, che la solitaria o la fanno sciolti oppure niente. Altri raccontano di sentirsi in una bolla che li protegge. Io non credo a questa bolla, od almeno io non mi ci sento, non la percepisco. O più semplicemente non riesco a dominare la paura. La corda anche se poco rinviata, quindi con potenziali pericolose cadute, da quel minimo di coraggio, ti rassicura perchè una possibilità di sbagliare ti è permessa.

  12. Tutte le imprese in solitaria, come quelle di cui si parla nell’articolo, sono degne di ammirazione. Ogni alpinista che le compie è sostenuto da particolari motivazioni e ne ricava gratificazioni personali; non mi sembra essenziale farne l’analisi andando a sviscerare teniche usate e psicologia dell’alpinista.
    Limitiamoci ad apprezzarle!

  13. Interessante e sicuramente attuale.
    Forse nella descrizione del free solo, Motti, si è lasciato prendere la mano quando parla di dialogo con la morte tanto da invitarla a casa e della solitaria di gruppo quando tratta la corda in maniera esclusivamente filosofica: spezzando quel fastidioso legame della corda che porta con sé un gravoso carico di simboli e di sublimazioni.
    Se si decide di usare la corda è perché meccanicamente può salvarci in caso di caduta.

  14. Alle Cinque Terre per esempio il parco organizza squadre di vigilantes allo scopo di controllare anche le scarpe dei viandanti.

    Ma gli fanno anche odorare i piedi per certificare si se li sono lavati in modo da rimandare indietro coloro che non se li sono lavati?

  15. Per fortuna ci sono ancora alpinisti che mantengono vivo per tutti il senso della libertà mentre si moltiplicano le clientele locali che sperimentano nuove forme di autoritarismo. Con il pretesto della sicurezza personale o della protezione ambientale procedono alla restrizione della libertà di camminare in autonomia  e responsabilità. Alle Cinque Terre per esempio il parco organizza squadre di vigilantes allo scopo di controllare anche le scarpe dei viandanti. Ma alla folla non ci sono soluzioni democratiche senza il consenso dei cittadini: piuttosto conviene boicottare le misure repressive oppure alla fine sarà necessario rinunciare a qualsiasi presenza e abbandonare il territorio agli indigeni.

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