Le solide virtù del Sergente della neve
(Rigoni Stern, l’Italia schiva dell’Altipiano)
di Ernesto Ferrero
(pubblicato su La Stampa il 31 gennaio 2019)
Spessore 2, Impegno 1, Disimpegno 2
«Siamo abituati a trattare con autori molto vanesii, abbonati all’Eco della stampa e che non perdono una sillaba di quanto si dice e si scrive di loro in tutta Italia, e abituati a molestare critici e recensori per far parlare di loro; e il suo caso, di Lei così modesto e appartato che ottiene tanto spontaneo successo, è davvero un caso nuovo e confortante. Ma come? Lei non sa d’essere lo scrittore del giorno? L’uomo più discusso, esaltato, celebrato su tutti i giornali italiani?».
È il 4 luglio 1953 quando Italo Calvino scrive a un nuovo autore della casa editrice Einaudi che abita ad Asiago, dove lavora nell’Amministrazione provinciale delle Imposte dirette. È un trentenne cacciatore e alpinista che ha fatto la guerra come sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone, distaccato in un avamposto sul Don nel gennaio del 1943. Le sue memorie, Il sergente nella neve, sono state pubblicate da Elio Vittorini nella collana sperimentale dei «Gettoni». Il successo che Calvino annuncia, con le autorevoli recensioni di De Robertis e Bocelli, è di 2.000 copie, seguite da una ristampa di 3.000.
A novembre Rigoni gli risponde mandando un racconto, L’ultimo urogallo, che quando lo ha scritto gli piaceva abbastanza, e adesso invece gli sembra un poco puerile: «Mi accorgo che più leggo buoni autori più vedo la mia insufficienza nello scrivere». Calvino gli risponde che il racconto è un po’ troppo semplice e prevedibile, ci può cavare di più, legga Il vecchio e il mare di Hemingway. La cosa più bella è il rapporto tra cacciatore e natura. Rigoni si rimette al lavoro. Ci vorranno altri dieci anni per avere il suo secondo libro, Il bosco degli urogalli.
È sempre rimasto così, Mario il tolstoiano. L’uomo e lo scrittore sono veri, autentici. Hanno la stessa limpida voce, quella di un saggio Virgilio alpino dal cuore grande che non si preoccupa di farlo sapere in giro. Sanno entrare in perfetta consonanza con la natura e la storia degli uomini, sanno «leggere» la vita degli animali del bosco e l’anima delle piante: la quercia, la betulla, l’abete rosso, il peccio. Perché un brano musicale e un albero sono creati dalle stesse leggi.
Rigoni è tornato a parlare ai suoi fedeli con le settanta Lettere editoriali di una plaquette fuori commercio, affettuosamente curata da Eraldo Affinati, che Einaudi ha riservato agli amici (sotto, uno stralcio di una lettera). In tempi di forte inquinamento morale, civile e culturale, è come andar per boschi insieme a lui e respirare a pieni polmoni. Suoi interlocutori principali sono Calvino e il redattore capo di Einaudi, Daniele Ponchiroli. Con loro Rigoni discute la lenta maturazione dei suoi libri, sponsorizza amici scrittori di guerra, vagheggia romanzi famigliari, come la storia di un avo medico che morì assassinato a Londra; insegue a lungo il progetto di un film tratto dal Sergente, cui lavora come sceneggiatore anche l’amico Ermanno Olmi e che poi non si farà; batte cassa con discrezione perché Einaudi non paga mai.
A Calvino continua a chiedere consiglio come a un fratello maggiore: «Forse avrei bisogno di muovermi dal mio paese, conoscere gente, soffrire fisicamente per raffinarmi i sensi. Sono contento solo quando vado a lavorare nei boschi o a caccia o quando coltivo l’orto… Dammi un consiglio: quest’estate avrò un mese di ferie: tenerlo per la caccia? O per la legna per l’inverno? O scrivere chiuso in una stanza?». Ci marcia un po’, Rigoni, perché l’equilibrio tra arte e vita gli viene naturale. «Beato te che fai una vita così serena!», lo invidia Calvino. Lui si accusa di pigrizia, e racconta d’essere stato una settimana a Milano ma di essersi stancato più che a lavorare nel bosco.
Nel 1969 lo ricoverano in ospedale perché il cuore gli si è fermato sette volte, ma «ora va e non perde un colpo». Vuol dire che il vecio ha la pelle dura e nemmeno il demonio lo vuole. Visto che non gli permettono di andare in montagna, cacciare e fumare, per Natale a Einaudi chiede quattro bottiglie di barolo invece dei soliti libri. Il buon vino gli evoca ricordi torinesi dei tempi di guerra. Intanto lavora a un libro sulla «pidocchiosa e miserrima guerra d’Albania», «la storia di un caporale portaordini (io, ingenuo imbecille)». Ai figli degli amici regala buon miele di montagna. Nel 1971 torna in Russia per la terza volta: «Solamente ora, forse, mi rendo conto quale è stata la nostra anabasi». Scrive Ritorno sul Don. Da Torino lo rassicurano: «Il sergentmagiù è sempre lui, pieno di umanità e ottimo scrittore».
La cosa che gli piace di più è raccontare la natura di casa anche per lettera: «Dopo che il cuculo l’ha risvegliata, la primavera è arrivata improvvisa; gli urogalli sono verso la fine del periodo degli amori e le femmine preparano il nido per la covata. Le capriole hanno incominciato a partorire. Solo che l’Esercito Italiano di Merda è venuto a scaraventar bombe coi cannoni americani, e sulle montagne alte non c’è pace… Le api raccolgono in abbondanza sul tarassaco officinale in attesa della fioritura del timo e del lampone. Il gallo Ramsete II fotte più volte al giorno le sue sette galline, tanto che gli ha spellato le schiene».
Quando facevo la naia a Torino
di Mario Rigoni Stern
Asiago, 11 gennaio 1970
Caro Ponchiroli, ho ricevuto la scatola dei libri: quattro titoli in tre copie. Bene, ti ringrazio sul serio. Il San Giacu non lo conoscevo, non sapevo che esistesse. Nelle sere di malinconia e di solitudine li berrò, e mi ricorderò il tempo di quando giravo il Piemonte vestito da alpino, tra il 1939 e il 1941; di quando andavo per le Colline oltre il Po (caserma Monte Grappa, Piazza d’Armi, Nichelino, ponte?, Cavoretto) con i muli della naia e a bere una volta per quelle osterie. Forse, quello che incontravo con la faccia scura (come un dottore con il mal di pancia) era Cesare Pavese. Ma nelle tampe in fondo a via Nizza (piazzale Bengasi?) e dalle parti della Caserma trovavo gli operai della Fiat e una sera, dopo due bute, uno mi parlò di socialismo e che cosa credeva di essere quel Mussolini (el Ceruti) ; mi fece capire quanto imbecille e cretino io fossi, e che prendere la Russia non era una passeggiata. Pochi giorni dopo ero sulla tradotta per l’Est e venne, il vecchio operaio, a salutarmi a Porta Nuova.
Ecco, vedi, queste cose mi hanno fatto ricordare le dodici bottiglie di vino piemontese che mi hai fatto spedire. Te ne sono grato. Anche a Giulio Einaudi. […] Ciao e sani. Tuo Rigoni.
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Oltre alle storie della guerra, ha scritto molto di uomini di montagna con una dignità letteraria irraggiungibile. Un grandissimo sotto molti punti di vista.
Ho letto e riletto negli anni la maggior parte della sua opera, con sempre crescente ammirazione ed affetto. Davvero uno dei Grandi.
Sarà che ho anch’io fatto l’alpino e che ho sul cappello anch’io il numero 6 del sesto Reggimento, ma Rigoni Stern, quando ha scritto il Sergente nella Neve ha fatto quello che ogni uomo equilibrato e provato, avrebbe fatto: ha raccontato cos’era successo in Russia, andata e ritorno. Per chi ne è tornato. Anche un mio zio andò e tornò, e i suoi racconti non finivano mai mentre mi mostrava, spiegandomene i dettagli, le foto sbiadite di Centomila gavette di ghiaccio che mi lessi a 10 anni. E non ero un lettore e forse mai lo divenni. Però cosi crebbi. Con anche altro zio partigiano di cui seppi della sua attività al fianco di Aldo Gastaldi sulle alture liguri, solo a pochi giorni dalla sua morte.
Così ci si forma pian piano e si cresce nel mondo in cui ci si trova a vivere. Mica è uno scherzo.
Fa parte , dei “Grandi..Uomini “….! della letteratura . Indimenticabile…….C. Saluti..G.
Uno scrittore, ma soprattutto un uomo indimenticabile.
Rigoni Stern, quando posso gli rendo omaggio nel piccolo cimitero di Asiago . Dovrebbe essere un esempio per tutti, non ci si stanca mai di leggerlo.