Un mondo senza differenze approda a una piatta eguaglianza, ma non è affatto detto che sia pacificato.
L’illusione di poter sterilizzare tutto
(dalla corrida al “gender”)
di Alessandro Barbano
(pubblicato su huffingtonpost.it l’8 novembre 2021)
Ragionando se stare con il torero, o piuttosto con il toro, mi ritrovai in una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Perché la corrida era, nella suggestiva apologia di Ottavio Di Brizzi sul Foglio, un nutrimento spirituale e simbolico di una civiltà, in grado di giustificare la mattanza taurina almeno quanto il nutrimento dei corpi legittima quella di milioni di vitelli e agnelli. Ma, nella demitizzante replica di Vittorio Feltri su Libero, l’agonia pubblica dell’animale tornava a essere una tortura di immotivata crudeltà, tanto da indurre il giornalista a confessare di aver provato un piacere enorme di fronte all’incornamento di un torero. Confesso di essermi fermato su questo bivio narrativo senza sapere che strada intraprendere. E qui sono da giorni a pensarci sopra, soppesando gli argomenti del mito e quelli della ragione. Tra i primi, quello che fa dire a Di Brizzi che, senza l’economia e la cultura della tauromachia, “il toro da combattimento non esisterebbe più, estinto come migliaia di esseri perdenti nella gara della selezione naturale”. Tra i secondi, quello che riporta alla memoria di Feltri la premura con cui i contadini della bergamasca risparmiavano ai bambini la scena dello sgozzamento dei maiali, ancorché poi a tavola tutti avrebbero gradito una fetta di salame.
Quest’ultima contraddizione, ancorché rimossa, torna di questi tempi impellente. Perché pone la nostra antropologica disposizione a nutrirci di carne animale in rapporto con un imperativo morale a sterilizzare la violenza, sempre più diffuso. Sul quale, di primo acchito, non potremmo tutti che convenire. Chi mai potrebbe non desiderare un mondo senza violenza? E tuttavia credo che questa tentazione pacifista ci abbia, per così dire, un po’ preso la mano, e sia diventata un’ideologia tecnocratica che ci illude di sottrarci alla relazione e, quindi, alla lotta per la sopravvivenza. D’intuito la vedo declinarsi in modo diverso in tutti i nostri spazi di vita. Nella dimensione politica è illusione di sterilizzare il potere con il populismo. E dico illusione, perché il populismo a Palazzo finisce per essere, di tutti i poteri, il più arbitrario. Lo ha compreso anche chi ignorava, o dimenticava, che l’unico modo per domare il potere, senza soccombere, è quello di riconoscerlo e di dividerlo, come riesce solo all’imperfetta democrazia rappresentativa.
Nell’universo esistenziale la tecno-ideologia si traduce nell’idea di sterilizzare il dolore dalla vita. La rivolta dei no vax è lo specchio sovrapposto di questa immane rimozione collettiva della finitezza umana. Si rifiuta il vaccino anche perché la protezione parziale che offre suona come il tradimento dell’illusione di immunizzarci in modo assoluto dalla fragilità e dalla morte.
Nella sfera civile il credo è invece la sterilizzazione della violenza. Come ha spiegato Luca Ricolfi su la Repubblica, questa ideologia si esprime anzitutto nel linguaggio. L’idea che, estirpando la violenza dal linguaggio, si approdi a una compiuta pacificazione della vita è un’illusione prometeica, perché il linguaggio è la prima forma di tecnica che l’uomo conosca. Senonché la sterilizzazione della violenza dal linguaggio coincide con l’eliminazione delle sue differenze, in quanto presunte fonti di discriminazione, e la sostituzione con espressioni linguistiche neutre. Un’estremizzazione comica di questa tendenza è l’invito a usare l’asterisco, o la U, al posto delle vocali finali dei nomi che, con una declinazione binaria, identificano il maschile o il femminile: medicu, avvocatu, ingegneru e, se non fosse una specie in via di estinzione, dovremmo dire anche toreru. In quella U c’è la sostanza dell’ideologia del gender, così come la traduce la cosiddetta legge Zan: e cioè l’identità di genere quale mera “identificazione percepita e manifestata di sé”, anche se non corrisponde al sesso, e indipendentemente dall’aver avviato un percorso per cambiare sesso. Vuol dire che, emancipandosi dal sesso, l’autodeterminazione di genere diventa un puro costrutto sociale e approda a un soggettivismo assoluto.
Ma il massimo di soggettivismo stacca il linguaggio dalla storia, cioè dal percorso che i diritti hanno compiuto per affermarsi. Mi chiedo che cosa nella storia rappresenti il femminile. Possiamo convenire che l’emancipazione del femminile sia un quasi assoluto, poiché segue e promuove l’intero sviluppo della civiltà liberale? E uso l’avverbio “quasi” per rispetto del relativismo che si deve a ogni verità laica, non senza fare notare, però, che la densità di questo valore è immune, tranne che nell’Afghanistan dei talebani, dalle pretese di qualsivoglia maggioranza. Per illiberale e reazionaria che fosse, nessuna egemonia politica potrebbe arretrare sul percorso dell’emancipazione.
Mi chiedo però se la neutralizzazione della differenza sessuale nello spazio civile, e la sostituzione con un’identità percepita soggettivamente, non sortiscano il rischio di un azzeramento del femminile, cioè del valore simbolico di quelle libertà che, in nome del femminile, sono state raggiunte in tre secoli di lotta.
Aggiungo che un mondo senza differenze approda a una piatta eguaglianza, ma non è affatto detto che sia un mondo pacificato. Poiché sotto la crosta della sua neutrale indifferenza ribollono quelle tensioni e quella violenza che il protocollo convenzionale rimuove e occulta, ma non spegne.
Questa intuizione purtroppo non mi dà alcuna certezza sulla mia disposizione a tenere aperto, o piuttosto chiuso, il sipario sulla corrida. Però illumina un’altra contraddizione che la cancellazione delle differenze apre in quella che sta diventando la religione civile della nostra epoca: la sostenibilità. Questa viene raccontata da una parte come rivendicazione di nuovi diritti, essendo invece una frontiera di nuovi doveri, dall’altra come la perdita della centralità dell’uomo nell’ecosistema.
Mi chiedo se una concezione che negasse il primato dell’umano, in nome dell’azzeramento simbolico delle differenze tra uomo e animale, non rischierebbe di mettere in discussione alcune conquiste acquisite della nostra civiltà. Mi chiedo ancora, per esempio, come considereremmo l’aborto in un universo simbolico dove la vita di tutti gli esseri viventi assumesse – come di fatto sta già assumendo – un valore «ontologico» inedito nella storia. Potremmo difenderne la legittimità, di cui nessun liberale può in coscienza dubitare, senza valorizzare la signoria dell’umano e la differenza, non certo solo biologica, della condizione femminile? Potremmo ancora sentire attuali i presupposti della nostra cultura, stando con i piedi fuori dalla storia, e senza più essere, noi uomini e donne, la misura di tutte cose che ci stanno attorno? Confesso di non avere per queste domande risposte soddisfacenti. Nel dubbio, penso che comprerò un biglietto per la corrida, facendo segretamente il tifo per il toro.
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