L’inverno degli Ottomila

L’inverno degli Ottomila
(le sei spedizioni ancora in corso)
di Alessandro Filippini

È un inverno davvero avaro per quel che riguarda gli Ottomila, anche se ancora ci sono sei spedizioni in corso. Riassumendo:

Nanga Parbat
Prima della rinuncia per previsioni meteo avverse, per Hervé Barmasse e David Göttler c’è stata una puntata a quota 6200 m (campo 2) sulla immensa parete Rupal e sulla sua via più lunga (la Schell). Ancora quasi 2000 metri per la lontanissima vetta, che intendevano raggiungere in stile alpino (e ovviamente senza ossigeno supplementare).

Il versante Rupal del Nanga Parbat
David Göttler al Nanga Parbat si è esercitato col parapendio

Manaslu
Forse un record di nevicate, se non per quantità (è sicuramente l’Ottomila che ne è più soggetto) almeno per frequenza. E sembra che ne siano in arrivo di nuove. Così finora c’è stata solamente la possibilità di andare fino a campo 1 e poco oltre per Alex Txikon, Simone Moro, Inaki Álvarez e la spedizione di Sherpa guidati da Chhepal, più il polacco Oswald Rodrigo Pereira (che ha resistito, al contrario di altri scalatori che hanno fatto solo brevi comparse).

Simone Moro (a sinistra), Inaki Álvarez e Alex Txikon al campo base del Manaslu
Il campo base del Manaslu sepolto dalla neve

K2
Arrivati tardi, per problemi di visto della taiwanese Grace Tseng, unica cliente anche se risulta “team leader”, gli Sherpa guidati da Nima Gyaltsen hanno fatto due puntate nelle quali i forti venti li hanno respinti prima da campo 1 e poi da campo 2 (sopra il Camino Bill). Tuttavia oggi sono tornati a salire verso c1, divisi in due squadre (la seconda con Grace Tseng parte domani) e sembra che continuino a puntare a un tentativo di vetta alla prossima finestra meteo, anche se c’è ancora da attrezzare la Piramide Nera (che è l’ostacolo principale per accedere alla parte superiore della seconda montagna della Terra), sopra la quale viene solitamente posto campo 3 (7350 m circa). Ricordiamo che da quel campo in poi i 10 nepalesi che hanno realizzato la prima salita invernale del K2 impiegarono 16 ore, più 5 di discesa per tornare a c3… Un anno fa da un tentativo di vetta partito da campo 3 non tornarono l’islandese John Snorri, l’argentino Juan Pablo Mohr e il pur esperto pakistano Muhammad Ali Sadpara, che era stato autore della prima invernale del Nanga Parbat insieme a Simone Moro e Alex Txikon. Ovviamente, sia gli Sherpa sia la taiwanese non hanno la necessaria acclimatazione (anche se Tseng si è allenata in una camera ipobarica. Il che rende necessario l’uso di un alto numero di bombole fin dai campi più bassi.

Il K2 dal campo base pakistano
Grace Tseng con i suoi Sherpa

Cho Oyu
L’obiettivo di due spedizioni di soli Sherpa è quello di aprire sul versante nepalese una via che possa diventare una “normale” alternativa a quella (sicuramente molto più facile) del versante tibetano, spesso inaccessibile negli ultimi anni per decisione delle autorità cinesi, anche indipendentemente dalla pandemia. Le due spedizioni hanno preso posizione in campi base diversi, per cui è logico attendersi che affrontino vie diverse. La prima a essere annunciata è stata quelle di Geljen Sherpa, che però per mancanza di finanziamenti ha dovuto ritardare la partenza fino a che l’intervento di Nirmal Purja, con la sua fondazione, ha risolto il problema. A quel punto è stata annunciata la spedizione dell’agenzia Pioneer Adventure guidata da Mingma Dorchi Sherpa.

La spedizione al Cho Oyu di Geljen Sherpa
La spedizione al Cho Oyu guidata da Mingma Dorchi Sherpa

Le due spedizioni sperano di riuscire a piazzare campo 1 prima dell’arrivo di una imminente perturbazione, anche se il vento è già molto forte e in quota soffierà violentissimo. Ricordiamo che esistono già varie vie sul versante nepalese del Cho Oyu, compresa quella sulla parete sud-est, aperta nel 1978 dagli austriaci Edi Koblmüller e Alois Furtner in una pionieristica spedizione senza preventivo permesso di scalata. Una grande via, che non è mai stata ripetuta: il che la dice lunga sulle sue difficoltà. E poi ricordiamo che quella sul Pilastro sud-est è stata aperta in invernale: nel 1985 e ovviamente da una spedizione polacca guidata da Andrzej Zawada. In vetta il 12 febbraio arrivarono Maciej Berbeka e Maciej Pawlikowski. Due giorni dopo completarono l’ascensione anche Andrzej Heinrich e Jerzy Kukuczka, che era arrivato a giochi già fatti (al campo base il 10 febbraio), reduce dalla prima invernale del Dhaulagiri. Le due cordate si incrociarono a campo 2 il 13 febbraio.

Everest
Jost Kobusch è tornato da solo (e ovviamente senza ossigeno supplementare) a salire il Lho La, e quando ha avuto condizioni meteo accettabili è riuscito ad arrivare solo a quota 6400 m circa, senza toccare la Cresta Ovest, che aveva raggiunto due anni fa. Allora si fermò a quasi 7400 metri. Poi, i forti venti hanno fermato i suoi successivi tentativi al Lho La o anche al suo campo 1 (un bivacco a circa 5700-5800 m, sulla parete fra il campo base dell’Everest e il Lho La). La cosa curiosa è che nel 2019, quando aveva reso noto il suo assalto invernale al tetto del Mondo, il tedesco aveva annunciato di voler fare la solitaria invernale dell’Everest per la via che sale appunto dal Lho La lungo la Cresta Ovest e passa infine nel Canalone Hornbein. Questa volta ha detto di voler arrivare solamente a vedere il Canalone, cioè a toccare all’incirca gli 8000 metri.

La lunga Cresta Ovest con a sinistra la parete nord nella cui parte superiore sale il Canalone Hornbein (il piu vicino alla Cresta, quello più a sinistra è il Great Couloir). Sullo sfondo a destra il Lhotse.
La parte superiore della Cresta Ovest con la grande parete sud-ovest. All’estrema destra il Colle Sud.
La tendina di Kobusch danneggiata dal vento

Quella via è stata aperta da Tom Hornbein e Willi Unsoeld nel 1963, nell’ambito di una pesante spedizione statunitense (guidata da Norman Dyhrenfurth) che aveva già realizzato anche la salita dalla via normale nepalese. Hornbein e Unsoeld però raggiunsero la Cresta Ovest dalla Valle del Silenzio e non dal Lho La. Scesero poi dal Colle Sud (via normale) realizzando così anche la prima traversata dell’Everest. A proposito di Cresta Ovest, fu solo nel 1979 che, grazie a una spedizione jugoslava guidata da Tone Škarja (in vetta gli sloveni Nejc Zaplotnik e Andrej Stremfelj), fu realizzata la prima salita integrale di questa lunga e difficile via. Nel 1984 la ripeté Hristo Prodanov, da solo e senza ossigeno (il 20 aprile: prestissimo! Con lui c’era inizialmente lo Sherpa Chowang Ringie, che però si fermò subito di fronte a difficoltà per lui insuperabili). Il bulgaro aveva evitato il Canalone Hornbein giudicandolo troppo pericoloso (la montagna in quella primavera era particolarmente secca). Giunto in vetta dopo 12 ore di salita, Prodanov, al contrario degli jugoslavi, iniziò la discesa dalla vetta sulla stessa via (e non dalla normale).

Hristo Prodanov

Il buio lo fermò tre ore dopo. Il tempo peggiorò. Il giorno successivo ebbe contatti radio col campo base (il capo spedizione era Avram Avramov) fino alle 17. Lyudmil Yankov salì fino a 8500 m senza trovare tracce di Prodanov. A causa del maltempo, le operazioni ripresero soltanto l’1 maggio. Metodi Savov e Ivan Valtchev arrivarono in vetta l’8 maggio seguiti il giorno dopo da Kiril Doskov e Nikolay Petkov, che trovarono la cinepresa lasciata sulla cima da Prodanov. Le due cordate scesero dalla via normale, realizzando così la seconda traversata dell’Everest e la prima traversata comprendente la Cresta Ovest integrale. Grandi avventure del secolo scorso.



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L’inverno degli Ottomila ultima modifica: 2022-02-09T05:28:00+01:00 da GognaBlog

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9 pensieri su “L’inverno degli Ottomila”

  1. Le motivazioni che spingono gli uomini e le donne a salire un ottomila per vie nuove e diverse sono probabilmente le stesse che 78/80nt’anni fa spingevano altri uomini a salire la nord dell’Eiger o lo sperone Walker, la differenza sta nel fatto che per scalare in Himalaya occorrono molti soldi e quindi gli sponsor, se non sei molto ricco di tuo , poi gli eccessi ed i circhi Barnun ci sono dappertutto anche sulle falesie in riva al mare. Definire burattini questi alpinisti mi sembra un pò eccessivo soprattutto se non conosci niente di loro se non dai i pregiudizi che hai in testa.

  2. Circa la spedizioni “private” a vette di 5-6.000 m o anche di più, condivido, ma sui giganti, ovvero i 7-8.000 m, vale solo più il circo imposto dai soldi e quindi dagli sponsor. Gli sponsor hanno necessità che si “parli” dell’impresa in cui investono soldi e per questo sono contenti se c’è ANCHE qualche evento che alimenta la voglia di sangue del popolo. Parlo della popolazione nel suo complesso, comprendendo in particolare i NON appassionati di montagna, ma spesso ravviso questo desiderio di sangue altrui anche fra gli appassionati di montagna (ovviamente sono i più beceri, ma “fanno mercato” e quindi “contano” per gli sponsor). Se guardo l’himalaysmo degli ultimi 25 anni circa, in particolare degli ultimi 10, vedo lo stesso clima che aleggiava al Colosseo quando combattevano i gladiatori. Cosa dicono, implicitamente con il loro modo di fare e le imprese insensate che scelgono, gli alpinisti di punta di oggi, quando partono per l’Asia? “Ave Cesar, morituri te salutant!”. Un esempio dell’approccio opposto è stato pubblicato pochi gg fa qui. Intervista a Enrico Rosso con suo CV alpinistico  al fondo del pezzo. Quello è un esempio di alpinismo extraeuropeo “sano”, ma sempre più raro e sempre meno alla ribalta dei media. Invece Moro, Barmasse & C (tecnicamente fortissimi, ma è un altro discorso) sono solo dei burattini comandati dagli sponsor, sono orsi che intrattengono il pubblico dopo esser stati addestrati a ballare sui carboni ardenti. Se ogni tanto qualcuno muore, il mondo mediatico è solo contento, la notizia fa cassetta. Mah, che gusto c’è a guardarli? Io mi sono rotto da un bel po’…

  3. In effetti sembrano più articola da Montagna TV, un buon sito informativo su imprese e fattualità del momento. Ma forse, la presenza di questo reportage, nello spirito del GognaBlog, non è enfatizzare l’impresa, o accordare necessariamente apprezzamento al pezzo e alla sua modalità.
    Forse spinge noi ad una riflessione. Allora si può riflettere su questo Himalaysmo, oppure, con più profondità, sulle persone che stanno dietro le imprese citate, scavando le loro storie, i loro obiettivi, al di là della prima impressione.
    Sull’Himalysmo io non sono negativo, né lo considero decaduto. Sono molte le spedizioni interessanti sulle cime meno note, spesso ricche di narrazione d’avventura, o esistenziale.
    Personalmente sono rimasto molto colpito dal documentario “Zabardast” di Jérôme Tanon, che racconta l’avventura sugli sci condotta nella primavera del 2018 in Karakorum da Thomas Delfino, Léo Taillefer, Zak Mills, Yannick Graziani, Hélias Millerioux e lo stesso Jérôme Tanon. Belle immagini, ma soprattutto bella avventura, bella caratterizzazione delle aspettative, delle fatiche, delle avventure di questo bel gruppo.
    Un piccolo esempio di quanto spazio ancora ci sia per vivere esperienze intense, anche da raccontare, sulle cime più isolate, senza record, senza social.
    Belle avventure da vivere anche sullo Spluga, magari, con la stessa intensità

  4. Non c’è più l’alpinismo di una volta, quello puro, quello vero. E nemmeno le mezze stagioni … 

  5. Continuo a domandarmi a cosa servano articoli di questo genere, meri elenchi di nomi, montagne, altitudini e via discorrendo che nulla hanno a che fare con l’essenza dell’alpinismo. Secondo me servono solo ad alimentare quella atmosfera da “Circo Barnum” di cui parla Crovella.

  6. CONTINUA Credo che il mio atteggiamento dipenda dall’atmosfera di business esasperato che ormai circonda l’himalaysmo attuale. Ovvio che anche un tempo occorreva cercare coperture finanziarie per le spedizioni, ma era la spedizione il perno ideologico e le coperture finanziarie solo un elemento strumentale. Si è concretizzata una (perversa) rivoluzione copernicana: oggi sono le “spedizioni” ad esser strumentali per business (ovviamente faccio di tutt’un’erba un fascio, ci saranno eccezioni, ma sono irrilevanti per il fenomento nel suyo complesso). Cioè i vari Moro, Barmasse e compagnia sono dei burattini di un o spettacolo circense. Destesto l’atmosfera da Circo Barnun anche nelle Alpi, dove la rintraccio, ma l’impressione che mi dà l’attività himalaiana è solo più quella di un grande circo per far girare il grano. Fra un po’ arriveranno le notizie di salite effettuate con le mani legate, gli occhi bendati e zaini in piombo da 300 kg sulle spalle. Si salirò SOLO con brutto tempo, venti a 1000 all’ora e rischio mortale all’estrema potenza. Questo “eccita” la folla e attira i soldi. Siamo alla “donna cannone” per capirci. Ecco perché non mi piace più l’himalaysmo. Ci sono invece aree del mondo dove il Circo Barnum è ancora marginale o addirittura assente: per esempio la Patagonia. Speriamo si salvi.

  7. L’articolo mi è molto piaciuto, ma esprimo qui alcune considerazioni che prescindono dal suo contenuto e dall’impegno profuso dal suo autore. Mi interesso attivamente e sistematicamente di montagna dai primi anni ’70: in tanti decenni ho ravvisato in me un notevole cambiamento nel mio coinvolgimento emotivo verso l’alpinismo extraeuropeo e in particolare himalayano (compreso ovviamente Karakorum). All’inizio mi tenevo aggiornato ed ero avido di notizia su prime ascensioni o ripetizioni varie a 7-8000 m (fra cui avrebbero potuto rientrare le invernali come quelle qui trattate). Me le annotavo mentalmente, dalla cronaca della Rivista CAI o della Rivista della Montagna e mi incistavano come facevano le imprese sulle Alpi. In pratica “vedevo” l’alpinismo come un unicum che dalla cerchia alpina si estendeva fino ai colossi asiatici. Spesso i protagonisti erano gli stessi, Gogna è uno dei tanti esempi che si potrebbero citare. Lo stesso Messner, pur immensamente più dotato, mi appariva come uno di famiglia. Il talentuoso della famiglia, come il fratello musicista o lo zio scrittore di successo. Ad un certo punto qualcosa si è rotto in me: la cronaca himalayana ha iniziato a non provocarmi poi interesse, poi addirittura a lasciarmi freddo, infine a generare fastidio. L’alpinismo himalayano si è totalmente distaccato da quello che è il cerchio nozionale di un normale appassionato di montagna. Troppo esasperate le imprese, troppo distante quel mondo dalla nostra vita normale. Per andare là e realizzare qualcosa di eclatante occorre essere talmente talentuosi e specializzati che… si è dei marziani rispetto all’alpinista medio che fa ascensioni la domenica. E’ come per un normale automobilista  guardare un Gran Premio di F1: Hamilton che gira ai 350 all’ora su un siluro ipertecnologico non ha più niente a che fare con la mia utilitaria che “spingo” ai 110 km/h in autostrada. Per fortuna le Alpi continuano a fornirmi sistematici motivi di emozione e interesse, sia con gli sci che senza.

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