L’inizio dei Cento Nuovi Mattini

Metadiario– 89 – Cento Nuovi Mattini – 1 (AG 1980-001)

Dopo un po’ di vacanze tranquille alle Fate Nere, con una sola gita scialpinistica al Monte Bettaforca (6 gennaio 1980) condotta assieme a Nella e agli amici milanesi Piccicotti, Roberto e Fulvio Orlandi ed Eric, fui della partita nell’ascensione della prima grande cascata della Val di Mello. Durango era lì, evidente. Una sfida che ci veniva dal lato oscuro della valle, in quel momento gelido. Era nell’aria che qualcuno dei locals la salisse e per me fu un onore partecipare a quella giornata indimenticabile. Era l’11 gennaio, ero legato con l’amico Giuseppe Popi Miotti e ci seguivano Paolo Masa e Jacopo Merizzi.

Jacopo Merizzi (a sinistra) e Paolo Masa all’attacco di Durango (Val di Mello), 11 gennaio 1980.

Era stato Popi a venirmi a cercare un giorno a casa mia: fu affetto e stima a prima vista, ogni volta che veniva a Milano per questioni di studio (facoltà di agraria) erano ore e ore di chiacchierate sull’alpinismo e sull’arrampicata. E dove va il primo e dove scappa la seconda. Chiamavo casa mia ”la Centrale”, e un po’ lo era davvero. Centrale perché lì svolgevo la mia attività, centrale perché lì vedevo un sacco di gente, in genere più giovane di me. Anche Manolo era passato da lì, quando aveva già scalato vie pazzesche ma non era ancora conosciuto. Era venuto assieme a Tojo De Savorgnani e a Lorenzo Massarotto per avere dritte sulla loro spedizione al Manaslu. Io non mi negavo mai, mi faceva indubbiamente piacere che mi cercassero come un centralino di informazioni. Allo stesso tempo cercavo di vedere cosa c’era sotto alle loro richieste. Con Popi vidi che il ragazzo aveva delle grandi qualità, non certo solo arrampicatorie o alpinistiche. C’era in lui il virus spontaneo della voglia di conoscenza e ciò mi bastava. Bruciato come ero dall’ansia di conoscere il segreto stesso del mio essere, ogni incendio che vedevo attorno a me era un gradito sollievo.

Giuseppe Popi Miotti all’attacco di Durango (Val di Mello), 11 gennaio 1980.

Non mi ero mai legato con Popi. Lì sotto, al gelo ombroso dell’inizio della serie di risalti che costituiscono la poderosa struttura della cascata di Val Témola (che poi avremmo battezzato Durango), era la prima volta. Quella cascata nessuno l’aveva mai tentata e francamente incuteva abbastanza timore perché sembrava non finire mai. Lì all’attacco non era mattina particolarmente presto, ma non era neppure un orario tardo, direi che era giusto. In realtà si rivelò indovinato per non arrivare completamente al buio, anche se le ultime doppie le facemmo con la pila frontale.

Tutti e quattro scoppiavamo di felicità, ci sembrava di aver fatto una grande impresa, e forse l’avevamo fatta davvero.

Popi Miotti su Durango

Alla sera festeggiammo in casa Masa, a Lanzada in Valmalenco. Lì conobbi il fratello di Paolo, Giampietro. Mi sembrava contentissimo per il successo del fratello, ma non vedeva l’ora di accompagnarmi il giorno dopo sulla fucilata di ghiaccio che si vede se si sale con la carrozzabile da Lanzada a Franscia: la Cascata degli Zombies, che qualcuno aveva già salito. Quattro o cinque lunghezze belle toste, difficili quasi come Durango, ma forse ancora più estetiche.

Jacopo Merizzi su Durango

Dopo una riposante notte in pullmino, nel calduccio del mio saccopiuma, il giorno dopo ci avviammo assieme a Giampietro per salire gli Zombies. Ero tranquillissimo, anche Giampietro era guida alpina come Paolo. A comando alterno salimmo l’intero stretto nastro di ghiaccio, sbucando sul bosco superiore. Era stato bello scalare con lui, mi sembrava una persona assai serena.

Popi Miotti su Durango

Iniziammo a scendere sul lato sinistro idrografico della cascata, saranno state più o meno le 14.30. Dopo aver passato un bel cordino su un albero, mi avviai per la prima doppia. Cinquanta metri sotto mi fermai su una specie di cengia innevata, spostandomi qualche metro per preparare il successivo ancoraggio su un altro abete. Vidi Giampietro arrivare silenziosamente e altrettanto senza una parola lo vidi scomparire nel vuoto sottostante alla cengia. Non volevo credere che le corde fossero ancora lì, mi sembrava impossibile che non si fosse accorto che la corda arrivava giusta. L’amico era precipitato perché improvvisamente il suo discensore non aveva più nulla su cui frenare… L’amico era precipitato perché nessuno dei due aveva pensato di annodare i capi, procedura che, se si esegue normalmente quando le corde scendono nel vuoto verticale, è anche buona norma in casi come quello, di risalti non conosciuti e comunque da attrezzare.

Foto recente su La Cascata degli Zombies

Con il cuore che mi scoppiava, ma ben presente a me stesso, mi avvicinai ai capi delle corde, cercai di sporgermi il più possibile e chiamai il compagno. Ma sapevo che non c’era speranza, purtroppo. Nessuno mi rispose.

Ivan Guerini su Folletto rosso, Rocca di Corno (Finale), 20 gennaio 1980

Recuperai le corde e mi accinsi a fare la seconda doppia, poi la terza (l’ultima). Su terreno dove ormai potevo camminare, sfondando nella neve, recuperai ancora le corde e mi avviai verso dove presumibilmente avrei trovato il mio compagno. Lo vidi quasi subito: giaceva abbastanza composto nella neve, sopra una specie di dosso. Sperai di trovarlo vivo, lo chiamai. Guardai in alto e vidi le rocce su cui certamente aveva battuto prima di atterrare qui. Non si sopravvive a una caduta di cento metri in mezzo a tutti quegli ostacoli. Soffocavo la mia disperazione mentre cercavo un battito del suo polso. Mi risolsi a scendere ancora quel poco, traversare il torrente, risalire al mio pullmino. Guidai come trasognato fino a Lanzada, casa Masa. Il fratello Paolo era lì, non persi tempo e gli dissi subito della tragedia. Lui in pochi minuti chiamò qualche amico e assieme tornammo sul luogo. In quattro, non ci fu grande difficoltà a portarlo giù, avvolto in un telo. Lo stendemmo nel mio pullmino, poi lo portammo in casa. Un medico ne constatò il decesso, in serata andai dai carabinieri a denunciare l’incidente. Poi guidai fino a casa mia.

Fu una settimana segnata dal dolore, questa volta (ed era la prima) la morte aveva colpito davvero vicino a me. Il funerale fu straziante.

Marco Marantonio sulla prima lunghezza dell’Arco dei Guaitechi, Monte Sordo, Finale Ligure, 26 gennaio 1980

Il 19 gennaio, tanto per distanziarmi dal freddo che mi perseguitava dentro, mi risolsi ad andare al tepore di Finale Ligure, con Nella e Ivan Guerini. Quel giorno con Ivan salimmo il Diedro Mirko al Bric del Frate e, non so perché, nient’altro. Mentre il giorno dopo, a Rocca di Corno, salii la Prima Fessura con variante diretta (con Nella e un certo Carlo) e subito, con Ivan, la via del Folletto Rosso. A veder salire Ivan, così compostamente in libera e con spaccate improbabili, su difficoltà fino ad allora superate da tutti in artificiale, capii definitivamente che nel mondo dell’arrampicata italiana si stava davvero aprendo una nuova era.

Ivan Guerini sulla Fessura Oliva, Monte Sordo, 26 gennaio 1980

Fu lì che mi venne in mente l’idea di scrivere un libro che documentasse questo nuovo modo di salire su roccia, sia con parole che con immagini. Non avevo ancora abbozzato l’idea dei cento itinerari, ma c’ero assai vicino. Mi mancava solo di perfezionare un contratto con un editore importante. Zanichelli vide che c’erano delle belle novità in ciò che stavo loro proponendo.

Gino Mantilaro sul passo chiave di Ombre Blu, Rocca di Perti, 27 gennaio 1980
Mario Pelizzaro sul diedro finale della via Florivana, Rocca di Perti, 27 gennaio 1980

Già il weekend successivo la macchina si era messa in moto. Sabato 26 gennaio a Monte Sordo, con Ivan, Daniele Faetti e Marco Marantonio, scattai le prime fotografie valide per i Cento nuovi mattini, sulla via della Marcia. Da secondo della prima cordata, mi appendevo alle corde per fotografare Marco che saliva da primo la stretta fessura della prima lunghezza. Questa non era solo una novità: sarebbe diventata una costante del libro, una caratteristica. Non più culi ripresi da sotto, ma persone che arrampicano, o di lato o da sopra.

Mario Pelizzaro sulla via della Fessura alla Rocca dell’Aia, 28 gennaio 1980
Roberto Bonelli su una fessura superficiale della via Oliva, Piastra al Sole, Rocca dell’Aia, Loano, 28 gennaio 1980

La mattinata fu caratterizzata dai latrati continui di un sottostante allevamento di cani. In effetti, più che un allevamento, aveva le caratteristiche di un lager ligure. L’abbaiare e l’ululare delle povere bestie (tante peraltro) era assordante e si moltiplicava con un eco vero e proprio. A Ivan faceva schifo il nome “via della Marcia” e d’autorità decise che d’ora in avanti quella via si sarebbe chiamata l’Arco dei Guaitechi, con buona pace di Alessandro Grillo (cioè di colui che aveva aperto e battezzato la via) che lì per là non prese bene la cosa. “Arco dei Guaitechi” ebbe certo un buon successo e magari (forse) contribuì alla soppressione del lager (che avvenne peraltro anni dopo…). Per giustificare ancor più il cambio di nome, Ivan si prese la briga di rettificare l’itinerario nella parte finale, aprendo una bella variante diretta.

Blocco 39 dei Massi delle Courbassere, Gian Piero Motti (a sinistra) e Mario Pelizzaro, 2 marzo 1980
Massi delle Courbassere, Gian Piero Motti sul Diedro Casarotto, 2 marzo 1980

Scesi alla base, salimmo anche la Fessura Oliva. Anche lì bombardai Marco e Ivan di fotografie, ma poi non misi quella via nel libro…

Il giorno dopo, in compagnia numerosa, salimmo l’itinerario che allora andava per la maggiore, aperto dall’asso locale Nico Ivaldo: Ombre blu, a Rocca di Perti. Si erano aggiunti Roberto Bonelli, Enzo La Torre, Gino Mantilaro, Mario Pelizzaro e Mauro Garrione: quando l’ultimo di noi cominciò ad arrampicare sul primo tiro, il primo che aveva attaccato era già alla base a dargli una pacca sulla schiena…

Massi delle Courbassere, Alessandro Gogna sul Diedro Casarotto, 2 marzo 1980

Ombre Blu è un itinerario breve ma significativo, perché fu aperto direttamente in libera, senza il quasi obbligatorio passaggio in artificiale che poi viene «liberato». L’arrampicata è estremamente elegante, prima su placca e poi in diedro con ampia spaccata. Il «sugo» della salita risiede tutto nella seconda lunghezza, la terza può essere facilmente evitata lungo la cengia discontinua a destra. Il luogo è assai tranquillo, contrariamente al Settore Settentrionale, del tutto esposto al rumore del traffico autostradale per nulla distante e ben visibile. Questa è la ragione per cui non volevo riportare itinerari del Settore Settentrionale. Qui la pace invece è totale, ma condizione essenziale è che non deve funzionare la cava. Allorché salii Ombre Blu, l’itinerario era stato aperto da poco e presto la fama della sua difficoltà aveva fatto il giro delle bocche. Così ci trovammo in nove a ripeterlo e quel bel mattino di gennaio fu divertente. Quella volta non riuscii a salire in libera, fui costretto a due resting. Quel giorno conclusi con la via Florivana, assieme a Mario Pelizzaro, Marco Marantonio e una Lidia che non ricordo.

Valle di Susa, Gian Piero Motti sul Masso erratico del Castello di Conte Verde, 3 marzo 1980

Dato che questo itinerario è uno dei più abbordabili per un gran numero di persone, mentre salivo pensavo già quando, scrivendone, avrei raccomandato la assoluta necessità di percorrerlo con scarpette lisce e morbide, oppure con scarpe da ginnastica o da training, lasciando a casa gli scarponi o le pedule rigide. Ciò appariva essenziale perché la Pietra del Finale presenta delle belle irregolarità in superficie che rendono l’arrampicata estremamente piacevole e caratteristica. L’uso di scarpe rigide su questo calcare organogeno lo rovinerebbe irrimediabilmente, dando luogo per di più, con il successivo e ripetuto passaggio, a una lucidatura della roccia del tutto sgradevole, quando poi si dice che la roccia è «unta».

Bric Pianarella, via dell’Amicizia, 5a lunghezza

Il giorno dopo ancora traslocammo alla Rocca dell’Aia, volevo inserire anche quel torrione nelle mie cento. Con Marco, Mario, Daniele, Ivan e Roberto salimmo la via della Fessura, anche lì con lo scopo di eternare qualcuno in un’immagine prestigiosa. Cosa che non mi riuscì benissimo: nelle due pagine dedicate alla Rocca dell’Aia alla fine misi in un riquadrino piccolo Mario Pelizzaro sulla via della Fessura e invece, a piena pagina, scelsi di mostrare Roberto sulle rocce situate a monte della Rocca dell’Aia, la via di Mauro Oliva alla Piastra al Sole, altro luogo bello per arrampicare ma meno elegante di quello canonico. A fine pomeriggio, scalando su un sasso muschioso sotto alla Rocca dell’Aia, caddi procurandomi la rottura della costola più bassa, quella “fluttuante”.

Monte Cucco, via degli Allievi, Marco Marantonio, 8 marzo 1980. E’ visibile la famosa discarica.

Il 2 marzo 1980 mi spostai in Piemonte, per iniziare anche lì le operazioni. Avevo deciso di dividere l’Italia in due macrozone, dunque fare due libri, Cento Nuovi Mattini vol. I e vol. II. Nel primo avrei infilato tutto ciò che non era Brescia, Bergamo, Veneto, Trentino, Alto-Adige e Friuli.

Come prima cosa dunque ci trovammo ai Massi delle Courbassere, in una delle Valli di Lanzo. Mi sembrava giusto mettere, nei cento nuovi mattini, anche qualche destinazione boulder. Quel giorno ero con Gian Piero Motti, perciò ci scatenammo in una serie di passaggi uno più difficile dell’altro.

Alessandro Gogna su un’erosione della via Grimonett al Bric Pianarella, 9 marzo 1980

I massi sono sparsi sul versante sud della Courbassera, la roccia è serpentino; ce ne sono di tutte le dimensioni, le forme più strane e curiose. Questi blocchi sorgono di solito su terreno alquanto più accidentato. Maggiore quindi è il pericolo, in caso di caduta, per le povere caviglie o altro. Ma, chissà perché, ogni anno succede qualche incidente, perché evidentemente, quando si gioca sui sassi, la corda è sinonimo di viltà… Quante volte ci sarà capitato di desiderare la corda e di non chiederla!! Specialmente alla Courbassera il gioco è più pericoloso e occorre stare bene attenti. Tutti i passaggi interessanti e meritevoli sono stati segnati e numerati con la vernice. La numerazione è da 1 a 70, il primo è un masso cubico sopra a una villa. Per realizzare l’intero percorso è necessario seguire le frecce bianche, ora un po’ sbiadite, che si snodano tra i massi: ma non è facile. Naturalmente i passaggi superati sono ben più di 70 e altri si aggiungeranno. Alla prima foga di salire tutto ciò che si vede (non mi andava di seguire i numeri) fa cadenza una più oculata scelta di ciò che piace di più. Si tralascia il passaggio scontato, a meno che non sia particolarmente invitante. Quando si è in tanti è divertente osservare il proprio comportamento e quello degli altri di fronte ai vari sassi. In un solo pomeriggio di sassi si capisce qualcosa di un amico che magari non si è capito in tanti fine settimana in montagna. Perché qui l’aiuto reciproco non serve, non c’è la corda a fingere un’unione che può non esserci. E d’altra parte, siccome ci si sente più osservati, si tradiscono meglio le nostre realtà interiori. Il «bouldering» è una cosa diversa dall’alpinismo, ma è pure differente dall’arrampicata in cordata. Nel sassismo sono il seme dei solitari e le radici della parte atletica dell’arrampicare. In passato vi si vedeva solo l’allenamento.

Alessandro Gogna sul caratteristico tiro di erosioni della via Grimonett al Bric Pianarella, 9 marzo 1980
Massimo Marcheggiani sulla via Fivy, Bric Pianarella, 9 marzo 1980

Ricordo il Muro del Principe (il numero 27, che aveva aperto Gian Piero), il Muro nero (numero 28, di Franco Ribetti). Attenzione a non cadere! Di certo allora non si usavano i materassini. Il 29 è un bel passaggio, difficile in partenza. Bello pure il 30, ma il 31 è caratteristico perché assai strano: è in obliquo con prese spioventi. Il 32 è estremo, nessuno di noi è riuscito a superarlo, perché evidentemente richiede più applicazione. E’ un piccolo strapiombo dove una presa molto dubbiosa dovrebbe risolvere di sinistro. Nel retro, a nord, il famoso passaggio di Mike Kosterlitz (segnato con la K). Purtroppo l’abbiamo trovato fradicio d’acqua, non era il caso neppure con la corda. Più in su c’è un masso, il numero 39, sul quale si possono fare due o tre traversate sul fondo di un piccolo canyon. Posto umido ma singolare. Si arriva così al 42: qui ci sono due enormi massi, divisi da uno stretto camino. Il masso a nord, sul lato occidentale, ha una carrucola con fune per le prove di caduta e di assicurazione. Su questi due massi, e specialmente sul meridionale (Masso Gino Rosenkrantz) i passaggi belli sono innumerevoli, alcuni un po’ pericolosi perché “alti”. Moltissimi sono i massi di dimensioni inferiori (per esempio il 55) che circondano i maggiori. Una descrizione potrebbe diventare assai noiosa. Ne citerò uno solamente: a est del Masso Rosenkrantz, a circa 30 m di distanza, un masso mediocre presenta a ovest un diedrino di 4 metri dall’apparenza innocua. E’ il diedro Casarotto, non numerato. Lo si sale in spaccata fino a metà, poi ci si deve sbilanciare quasi al limite caduta per far approdare la mano sinistra su una cornice più in alto. Stupendo e poco pericoloso.

Flaviano Bessone sulla via del Traverso, Bric Scimarco, 10 marzo 1980
Rocca di Perti, via Luisella, Flaviano Bessone, 10 marzo 1980

Il giorno dopo (3 marzo) fu la volta di un’altra serie di massi, quella della Valle di Susa, sempre con Gian Piero.

La guida di Gian Carlo Grassi ne enumerava e descriveva 15, il suo articolo sulla Rivista della Montagna 15 + 5, più altri cinque solo nominati. Eravamo a 25, senza calcolare i massi minori che giacciono accanto. Prima di tutto andammo al masso Pera Filbert, di serpentino, con accanto due blocchi più piccoli. Ci scaldammo sui sassi minori, dove ci sono 51 itinerari, scegliendo i più belli. Poi salimmo la Normale, la Crepaccia e la Lama dei Classici. Meta successiva fu lo Spigolo dei Giganti, molto elegante. Qui usammo però la corda dall’alto. Con essa tentammo di salire Nuova Dimensione, ma non ci riuscì. È un passaggio dove le unghie giocano un ruolo predominante e forse anche una corda che ti tenga su di due chili è quasi obbligatoria. Ripresa l’auto andammo alla serpentinosa Pietra Salomone, affiancata da uno minore. Ci buttammo subito sul diedro Gervasutti, che io non salii, perché non volevo legarmi. Molto più bella era la fessura dei Classici, anche se più facile. È tutta d’incastro, con un passo di IV+. Ci spostammo poi sulla paretina che dà sul sentiero, una delle più belle, soprattutto perché se si cade non ci si fa male. Dimensione Attuale, il Capolavoro, Muro della Lucidità Visionaria, Muro del Momento Moderno, Muro della Maestria. Solo la Diretta Bernardi non fu neppure tentata, tanto era «repellente»! Sull’estremo destro di quella paretina è lo Spigolo del Saltimbanco. Cominciavamo a essere un po’ stanchi e perciò, dedicandoci al Super Funambolo, non ci riuscì. Dopo un po’ di riposo pensammo al sasso minore dove riproducemmo Linea Bollente, Spaccadita e il Ricamo. Le mani cominciavano già ad aprirsi. Ripresa l’auto ci spostammo a Montecapretto e alla Pera Pluc, nascosta nei pini, di scura roccia anfibolitica. Molto suggestiva, il più bello masso di tutti. Il primo passo che si incontra è Fortebraccio. Ci pensa lui a sciogliervi. E se non basta, ecco a destra Super Fortebraccio. Dopo questi atletici passaggi cercammo qualcosa di più delicato, come Mescalito e Mare di Sogni, decisamente un passaggio strano e divertente. Chissà perché non mi riuscì invece Stringidita. Ci spostammo ancora, questa volta al Masso di Montecapretto, di roccia prasinitica, realmente a piccoli appigli. Subito lo Spigolo Arioso (elegantissimo) e l’Oppotransizione. C’impressionò lo Spigolo dei Buffoni: sinceramente non si riesce a capire come sia possibile salirlo. La parete a destra è un vivaio di piccoli gioielli: scegliemmo la via dei Masochisti, da cui uscimmo tremolanti per spuntarci le unghie poi, con successo, sull’Impensabile Realtà Rocciosa. Poi andammo ai Roc di Borgata Braida, un principale e quattro satelliti di roccia eufotidica. Subito sulla via del Principe, poi il Diedro della Chiarificazione Mentale, fallimmo lo Specchio del Maestro perché eravamo di statura non adatta. Infine superammo altri passaggi, ma ho perso il conto perché ero troppo stanco. Ma non ci negammo l’ultima e serpentinosa Pietra Alta, in mezzo a una splendida radura di castagni, uno dei massi erratici più vicini a Torino. Dopo due o tre vie, neanche tra le difficili, rinunciai. Avevo le dita a pezzi ed erano le 19.30. Scoprimmo di avere le dita nere di smog. Nonostante ciò il blocco era molto bello, uno dei più vari.

Flaviano Bessone , via della Torre, Monte Cucco, Finale Ligure, 16 marzo 1980
Salvatore Bragantini su INPS, quintultimo tiro, Bric Pianarella, Finale Ligure, 15 marzo 2008

L’8 marzo, di nuovo a Finale: con Massimo Marcheggiani e Marco Marantonio al Bric Pianarella salimmo la via dell’Amicizia (2 chiodi tirati), poi solo con Marco facemmo il tetto della via degli Allievi a Monte Cucco solo per fare la foto.
Era il periodo di massimo “splendore” della discarica che degradava la base di Monte Cucco. Ci volle del bello e del buono (più anni) perché il comune di Orco-Feglino chiudesse finalmente quell’obbrobrio. Per noi un disonore di fronte a chiunque, non italiano, si aggirasse da quelle parti. 

Il giorno dopo, con Massimo e Marco salimmo la via Grimonett del Bric Pianarella (anche qui 2 chiodi tirati) e subito dopo la via Fivy.
Arrampicare al Paretone di Bric Pianarella era altra cosa che arrampicare sulle altre strutture di Finale. Non che l’ambiente fosse di molto più severo, anche se l’esposizione a settentrione contribuisce alla differenza, ma la maggiore lunghezza e il generale maggior impegno richiesto facevano del Paretone una meta meno frequentata delle altre. A metà parete sembrava proprio di essere… «in parete», fatte salve le debite proporzioni.

Marco Ballerini sulla via Francesca al Sasso d’Introbio, Valsassina, Lombardia, 30 marzo 1980
Alessandro Gogna su Manobong, Bastionata del Lago, 31 marzo 1980

Il 10 marzo con Flaviano Bessone e Massimo Marcheggiani ci impegniamo sulla via del Traverso a Bric Scimarco, poi sul Pilastro del Re. Bellissime arrampicate su roccia stupenda, totalmente priva di vegetazione. Il Bric Scimarco era poco frequentato e per questa ragione conservava una sua atmosfera.  Nel pomeriggio, con il solo Flaviano, salimmo a Rocca di Perti sulla via Odonett e sulla via Luisella (1 chiodo tirato).

Antimedale, via di Marco (via degli Istruttori), Roberto Silvestri, 1 aprile 1980

16 marzo: a Monte Cucco, via Toccata e Fuga e via della Torre entrambe con Flaviano e Marco Marantonio. Il giorno dopo, a Bric Scimarco la via Albi (qui alla nostra cordata si è aggiunta Nella); poi, al Bric Pianarella, salita adrenalinica alla Pantera Rosa (ovviamente senza Nella: qui non portai neppure la macchina fotografica, volevamo fare la salita solo per la sua difficoltà allora leggendaria).

Sempre in vena di salite ingaggiose, il 28 marzo fu la volta, con Marantonio, della via INPS al Bric Pianarella. Davvero di soddisfazione, tutta in libera.

Con l’arrivo della primavera spostai le mete a obiettivi meno marittimi. Il 30 marzo ci fu Solitudine alla Rocca di Bajedo (chiusa di Valsassina): ero con Vanni Spinelli, Marco Ballerini e Michele Anghileri. Nello stesso giorno salimmo anche la via Francesca al Sasso di Introbio.

Michele Anghileri sul Pilastro Rosso, Bastionata del Lago, 3 aprile 1980

Gli anglo-sassoni chiamano «gardening», giardinaggio, il ripulire un probabile percorso su roccia da terra, arbusti, rovi, in modo da ottenere una via pulita e sgombra da quelle espressioni naturali definite “fastidiose”. Sulla Rocca di Baiedo sarebbe stata estremamente necessaria un’operazione di questo tipo, anche se qualcosa era già stato fatto dagli «scopritori» della struttura. Purtroppo mentre si trovavano facilmente già allora persone che verniciavano le vie per additarle meglio agli altri, non se ne trovavano altrettante disposte al lavoro ingrato del giardinaggio. In ogni caso la roccia era molto bella e particolare, zeppa di clessidre e di formazioni curiose.

Valtellina, Caürga di Sirta, via CiElle, Giuseppe Miotti, 4 aprile 1980

Il Sasso d’Introbio era il posto che più risponde ai criteri di crag inglese: mediocre dislivello, vie assai vicine e sostenute, distanza nulla dalla strada carrozzabile. Peccato che comunque si fosse in Italia e quindi senza silenzio, pulizia e amore della natura.

Il 31 marzo, con Antonio Peccati (allora bello magro e snello) e Marco Balléra Ballerini eccoci sulla via Colnaghi alla Corna di Medale. Nel pomeriggio, con il Balléra, andammo ai Contrafforti del San Martino, alla sezione del Sipario Ocra, per la seconda ascensione di Mano-bong (una stupenda via di Guerini).

Sirta, via CiElle, Guido Merizzi, 4 aprile 1980

La macchina infernale del mio programma era ormai lanciata ad alta velocità, in pratica arrampicavo quasi tutti i giorni, esclusi perciò quelli piovosi o magari interrompendo per altri impegni o proprio perché non trovavo compagni.

Tra questi, c’era il nuovo “acquisto” del Balléra, anche per lui non passava giornata senza scalare qualcosa. Di una simpatia travolgente, era ancora a mezzo tra un indirizzo alpinistico e quella che invece sarebbe stata la sua “carriera”, cioè un futuro di brillante arrampicata sportiva. Il 1° aprile 1980 con lui e Roberto Silvestri, salimmo la via degli Istruttori (chiamata anche via di Marco) all’Antimedale: esteticamente la parete non era affatto invitante, però la roccia era bella e l’itinerario discretamente alternativo, con passaggi decisamente di buon livello.

Sasso Remenno (Val Masino), via del Soccorso, Giuseppe Miotti, 5 aprile 1980

Ci trasferimmo nel pomeriggio (con in più PatriziaTitta Sozzi) allo Zucco dell’Angelone per salire Brodo di Coniglio.

Il 3 aprile la squadra era più numerosa: oltre a Ballerini e Silvestri si erano aggiunti Monica Savonitto, Michele Anghileri e Vanni Spinelli. Sulla Bastionata del Lago salimmo una via allora davvero impegnativa, il Pilastro Rosso (piccolo capolavoro di Sergio Panzeri): stupenda salita di sette lunghezze che tanta importanza storica ebbe nello sviluppo dell’arrampicata moderna italiana. Dalla linea eccezionalmente astuta, il Pilastro Rosso è un must. Roccia eccellente, con tonalità gradevolmente rossastre, con arrampicata che più varia non si può.

Giuseppe Miotti sul Piede d’Elefante, via Crazy Horse, Val Masino, 5 aprile 1980.

In serata mi trasferii in Val di Mello, portando con me Silvestri. Immaginate quante complicazioni, le telefonate in teleselezione dalle cabine telefoniche ai telefoni casalinghi per metterci d’accordo. Ma allora era naturale, e ci si capiva sugli appuntamenti in pochi secondi, quando oggi servono chiamate su chiamate e scambi di posizione GPS.

Il 4 aprile con Popi, Silvestri, Guido Merizzi e Umberto Villotta visitai la palestrina della Caürga di Sirta, dove salimmo CiElle + Diretta del Pino. Se su quei tre tiri riuscii a salire senza attaccarmi ad alcun chiodo, sulla successiva Presentimento d’Orologio (VIII-) non andò proprio così e feci un compromesso con due chiodi (da secondo), mentre Popi mi aveva preceduto con l’eleganza di chi conosceva bene la via.

Giuseppe Miotti sul Piede d’Elefante, via Crazy Horse, Val Masino, 5 aprile 1980.

Prima di visitare Sirta avevo la sensazione che fosse un posto assai triste adatto più agli schiavi della pietra che a una libera e solare espressione. Contrariamente al previsto, in quel luminoso pomeriggio di tarda primavera, mi trovai a scalare quel muro caldo e sicuro, tutto sommato abbastanza protettivo. La roccia poi era meno avara di quanto si sarebbe detto dal basso: e questa è la ragione per la quale alcuni itinerari di arrampicata libera estrema hanno potuto essere realizzati.
Il giorno dopo, tempo incerto. Decidemmo di fermarci al Sasso Remenno, dove con Popi, Ludovico Mottarella, Rosanna Fiorelli, Villotta e Silvestri salimmo la via del Soccorso, un vecchio itinerario chiodato a pressione che qualche tempo prima era stato salito in libera. Nel pomeriggio, rassicurati dalle condizioni atmosferiche, ci rivolgemmo alla struttura che è proprio di fronte, sull’altro lato della valle. Il Piede d’Elefante mi faceva paura solo a vederlo.

Roberto Silvestri su Crazy Horse, 2a lunghezza, Piede d’Elefante, Val Masino, 5 aprile 1980

E’ una delle propaggini basali dell’enorme massa del versante ovest della Cima d’Arcanzo, una placca abbastanza abbattuta e liscia striata da evidenti colate nerastre e verticali di roccia più scura, alta circa 80 m. Vene di quarzo solcano pure il grigio uniforme della placca: specialmente nella parte bassa.

La via che lo risale, Crazy Horse, è un itinerario alquanto impegnativo, specie per chi non è un «placchista» nato e comunque non è abituato alle lastronate lisce della Val di Mello. Personalmente mi sono trovato a disagio e ho dovuto farmi aiutare dall’alto. Occorre avvertire che sul secondo tiro non vi è alcuna possibilità di assicurazione e se si scivolasse dal punto più difficile si «sdrucciolerebbe» per 20 + 20 metri, producendo per di più il colpo su un dubbio chiodo a pressione. Praticamente la caduta fino a terra è sicura. Anche se le difficoltà oggettive non sono terribili, la paura può prenderti all’improvviso. Ricordo che avevo a tracolla la macchina fotografica e dopo venti metri mi sono bloccato, incapace di salire o di scendere, e pensavo: se cado, la Nikon posso buttarla via! Con me erano Popi, Mottarella, Villotta e Silvestri.

Antonio Boscacci riuscì a salire l’Unghia dell’Elefante, cioè la placca che fa da sostegno a tutta la struttura, sotto la vena di quarzo. La variante (25 metri) si destreggia tra due sottili vene di quarzo che disegnano una x sotto alla vena principale. Le difficoltà si aggirano sul VII+ nel tratto centrale, senza alcuna forma di assicurazione, neppure vaga.

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L’inizio dei Cento Nuovi Mattini ultima modifica: 2022-01-08T05:22:00+01:00 da GognaBlog

14 pensieri su “L’inizio dei Cento Nuovi Mattini”

  1. La montagna di luce, dell’indimenticabile Peter Boardman.
    Con Joe Tasker visionari e stupefacenti scalatori del changabang.
    Cento nuovi mattini come un vangelo.

  2. Non ho ben capito come si sia finiti a fare la lista degli “imprescindibili”, comunque volendo contribuire con i miei five cents direi “Al di là della verticale” di Livanos e “Amatore d’abissi” di Samivel (che, vigliacca, non so più dov’è finito!)
     
    Di Cento Nuovi Mattini ne ho fatti almeno 89 o 90…più tutti gli altri scoperti altrove.

  3. Seguo Marco Garbin…Montagna Vissuta Tempo per Respirare di Reinhard Karl edito da Dall’Oglio. Essenziale, intimo , profondo che esprime la voglia di vivere di montagna. Foto eccezionali…in ogni scatto una lezione di fotografia e poesia…probabilmente il miglior fotografo di montagna

  4. Per me è “Primo in cordata” di Frison Roche; si vede che sono più vecchio. Avevo anche tanti altri libri che però non mi avevano altrettanto coinvolto, pur se più ponderosi, tipo “Scalatori”o quelli di Garobbio

  5. Ad ogni modo chi, fra gli scalatori, non comprende o non ha compreso il senso e la bellezza di un libro come cento nuovi mattini dovrebbe davvero chiedersi se sia consapevole di quello che fa.

  6. Io ne ho 4, in ordine cronologico:
    una primordiale edizione di “Le mie montagne” trovata in cima agli scaffali di una vecchia libreria… il lancio della Bolas sul Dru rimarra’ per sempre…
    Un alpinismo di ricerca, comprato con le uniche poche mila lire che avevo in tasca a 14 anni…
    Grimpeur di Patrick Edlinger, cambio’ le mie dita e non solo
    Spiderman, di Alain Robert, un libro che tanti di coloro che oggi dicono di essere “liberi” dovrebbero leggere…
     

  7. Il mio: Le mani dure, di Rolly Marchi. Ma Cento Nuovi Mattini mi ha beccato quando dovevo decidere della mia vita e mi ha dato la spinta finale per scegliere la montagna.
    Oggi, ci metto La montagna e il profumo del mosto di Paleari. 

  8. Il mio: Montagna Vissuta Tempo per Respirare di Reinhard Karl edito da Dall’Oglio. Essenziale, intimo , profondo che esprime la voglia di vivere di montagna. Foto splendide

  9. il mio quando iniziai
    ” Passione di Roccia”  incontro al rischio con corda piccozza e cinepresa .
    di Martin Schliesser 

  10. Spero che ciascuno di noi abbia il suo libro dei sogni.
    Per ragioni di età, il mio è “Tra zero e ottomila” di Kurt Diemberger. Al secondo posto si piazza brillantemente “Le 100 piú belle ascensioni del Monte Bianco” di Gaston Rébuffat. 

  11. Un vero dramma quello che successe a Giampietro Masa, deve essere stata dura da digerire. 

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