Massimo Mila, torinese, musicologo, intellettuale, negli anni ’30 faceva parte della combriccola di accademici subalpini (Gervasutti, Chabod, Boccalatte, Rivero, ecc). Però, come lui stesso confessò amaramente, fu privato degli anni alpinisticamente migliori perché li trascorse in carcere in quanto antifascista. Mila riprese l’attività in montagna dopo la guerra, accomunando grandes courses classiche, qualche capatina nelle Dolomiti, viaggi extraeuropei arricchiti da ascensioni alpinistiche e una estesa attività sciistica (tra l’altro era socio dello Ski Club Torino e collaborò alla stesura della sua Storia): fu infine accolto nel CAAI. Seppur costantemente molto attivo (fu anche istruttore della Scuola di Alpinismo Gabriele Boccalatte), la sua importanza è più accentuata nel risvolto culturale e intellettuale della montagna, con numerosi scritti che hanno lasciato un segno profondo. Fra questi merita citare la storia dell’alpinismo italiano compresa nel volume celebrativo per i 100 anni del CAI (1963). A poco più di 30 anni dalla scomparsa di Mila (1988), merita ricordare la sua sfaccettata personalità, che per noi torinesi continua ad essere un “faro” di rilevante importanza (Carlo Crovella).
L’alpinismo di Massimo Mila
di Giuseppe Garimoldi
(pubblicato su Scandere 1990-1992)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Per l’uomo della strada l’alpinismo è uno sport: salutare se pensa all’esercizio all’aria buona, funesto se ricorda qualcuno che in montagna s’è rotto l’osso del collo.
Raramente le reazioni sono più articolate, solo chi ha superato la soglia gode di una visione diversa e, a questo punto, può essere travolto dalla smania e giungere sino alla gelosia.

Anche un pacato razionalista come Massimo Mila sente passionalmente il fascino delle altezze e dopo la conquista dell’Everest scrive: «La notizia… ha destato fra gli alpinisti curiose reazioni, quasi di sconcertata delusione. Si è scoperto che, tutto sommato, faceva un gran piacere a tutti che la più alta vetta della terra conservasse la sua verginità. Un fondo di gelosia inconfessata alberga nell’animo di chiunque abbia questa mania di scalar montagne: anche se non si aveva nemmeno la più lontana intenzione o probabilità di recarsi mai in quei luoghi, be’, faceva un certo piacere sapere che intanto sull’Everest io non ci sono stato, ma non c’è stato nemmeno nessun altro».
Ora non voglio insistere sul fatto che delle tre passioni che segnarono la vita di Mila come una trinità laica, quella per la montagna fu probabilmente la più privata e gelosa, sicuramente però fu la prima in ordine di tempo.
La sua passione per la montagna crebbe a fianco della madre, in lunghe passeggiate e venne sancita dal rustico medico di Coazze al termine di una gita al Colle del Vento.
Il racconto autobiografico di questa precoce avventura fu scritto per l’antologia Alpinismo perché?, curata da Marino Stenico. È una mattinata di tempo incerto e Mila, tredicenne, viene affidato dalla madre, per la prima gita di un’intera giornata, a tota Paganôn che presso i villeggianti ha reputazione di alpinista del Club Alpino.
Nelle ore pomeridiane il gruppetto di escursionisti è ormai sulla via del ritorno quando il pane e il salame, divorati dal giovane Massimo e innaffiati con acqua gelida di sorgente, vengono restituiti alla luce.
L’episodio è subito dimenticato ma, al rientro in paese, la madre, messa al corrente, spedisce il pargolo fra le coperte e manda a chiamare il medico. Quello di Coazze è un medico con fama di buon senso e laconicità. Visita il ragazzo con cura, lo trova sano come un pesce, e ordina: «Ch’ai daga d’bur. Cha lô manda ai tremila meter»; ela madre, pur con l’apprensione delle madri, accetta la sentenza.
Per parte sua Massimo non ha bisogno di incitamenti e cinque anni dopo lo troviamo, già esperto, nel gruppo del Gran Paradiso, legato alla corda di Renato Chabod e alle prese con l’impegnativa ascensione della cresta sud della Becca di Moncorvé, sino a quel momento percorsa una sola volta.

La relazione di questa ascensione compare sull’Escursionista, rivista mensile della torinese UET, ed è il più antico scritto alpinistico di Mila che mi sia stato dato di reperire.
In questo racconto di diciottenne troviamo già il rifiuto alla retorica eroica, che trombettava (siamo nel 1929) sulle maschie qualità della razza; non solo, troviamo altresì quel filo di ironia con cui Mila cucirà uno all’altro i suoi scritti di montagna.
Ma ritorniamo alle vicende del racconto d’ascensione: Mila, Chabod e gli altri due amici sono fermi in una sosta gastronomico-meditativa prima di affrontare la parte più seria della scalata: «Gli amici» scrive Mila, «mangiano e bevono indifferenti, per me il momento più brutto dell’ascensione fu proprio quello, quando tranquillamente seduto su di un sasso guardavo a quel che ci aspettava. Almeno si fosse saputo dove fosse passato il nostro predecessore: invece da lui si sapeva solo che quella era di gran lunga la più bella scalata di tutta la costiera. Bella notizia! Per conto mio, confesso che in quel momento avrei preferito che fosse senz’altro la più brutta, la più noiosa, la più facile». Ripresa l’arrampicata Mila descrive il passaggio chiave della salita: «un camino alquanto divertente», e commenta: «mi pare che sia d’uso dire così fra grandi alpinisti, quando ci si trova nei pasticci».
Con il passare degli anni i suoi scritti di ascensione, purtroppo non numerosi quanto avremmo desiderato, diventano un riferimento e un modello.
Anche gli alpinisti hanno il loro “problema dei problemi”, affascinante e insolubile; quello su cui, prima o poi tutti si accapigliano, pur sapendo che non esiste una risposta buona per tutti o meglio, che queste sono numerose quanto gli alpinisti. Intendo dire del perché l’uomo senta il desiderio irresistibile di raggiungere le Vette.
La “vis” polemica di Mila non poteva sfuggire a questo appuntamento e nel 1949 sulla Rivista Mensile del Club Alpino compare un suo articolo dal titolo: Perché si va in montagna. È la replica ad un elzeviro di Dino Buzzati apparso sul Corriere della Sera.
Il celebre autore del Deserto dei Tartari individua nella montagna l’esemplificazione del concetto di immobilità e nell’alpinismo il bisogno-desiderio di appropriazione del simbolo. Sarebbe quindi la necessità irrefrenabile di tranquillità a spingere l’uomo verso la montagna e l’azione un mezzo per raggiungere la quiete ideale.
Nel percorso delle idee di Buzzati, quello che spiace a Mila è la collocazione in negativo, quel sottile legame che conduce «all’annientamento in seno alla suprema quiete della morte», e la sua risposta, pubblicata sull’organo ufficiale del Club Alpino contrappone, alle idee dello scrittore lombardo, la tesi di un’attività dinamica e vitale.
Nella sua esposizione Mila tende inoltre a risolvere le contraddizioni derivate all’alpinismo dalle sue origini romantiche e a porre, quella che chiama «questa nostra prediletta attività», sotto l’ordine unificatore della ragione.
Ritornerà su questo concetto quattordici anni dopo, quando in occasione del centenario di fondazione del Club Alpino Italiano ne scriverà la storia alpinistica aprendo il capitolo con la dichiarazione: «Forma attiva e pratica di conoscenza della crosta terrestre, l’alpinismo è cultura e quindi soggetto di storia».
Fra le interpretazioni discordi, quella che più delle altre sollecita la penna di Massimo Mila è quella che ebbe nel professore austriaco di filosofia e lingue classiche, Eugenio Guido Lammer, l’interprete maggiore.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento, Lammer, alpinista abile e fortunato, teorizza e attua un alpinismo come sfida assoluta. Pervaso dal demone dell’attività più spericolata e sorretto da una testarda e indomabile volontà, considera il superamento dell’ostacolo e la sfida al pericolo il momento di maggior esaltazione.

Nel preludio al suo celebre Jungborn, (Fontana di giovinezza) scrive: «E allora essi… fradici di morale giurarono con parole ipocrite che lo scalatore ragionevole, per amor di Dio, non voleva altro che imparare a conoscere i monti e le loro difficoltà ed evitare i pericoli […]. Allora m’invase la grande nausea che fu di Friedrich Nietzsche e afferrai lo staffile».
Negli anni, questo sacerdote del brivido affascinò anche da noi alcuni giovani, fra questi Franco Grottanelli, alpinista e scrittore dallo stile brillante. Grottanelli nel definire Lammer «creatura di fuoco con impennata icariana e demoniaca» ne sposa l’ideologia e rievocando la prima ascensione del Cervino per la parete nord scrive: «viene il momento del peana: echeggia dall’immane parete nord, lastronata di verticali canali di roccia ghiacciata da cui salgono come ravvolti e portati da quell’onda di canto, di audacia in audacia e di miracolo in miracolo due fratelli».
Massimo Mila, mille miglia lontano da questa retorica, e perfettamente impermeabile al suo fascino aulico, si diverte, con sobrietà ed ironia, a sgonfiarne gli eccessi. Fra un sorriso e un’alzata di spalle, mette la sordina agli ottoni e conclude: «Bene bene. Tutti i gusti son gusti. Chi ha piacere di trovarsi legato in cordata con una creatura icariana o demoniaca, alzi la mano. Per mio conto, amo l’alpinismo in compagnia di amici solidi, dalla testa sul collo e i piedi sulla terra».
Il rifiuto dell’esaltazione del pericolo, all’enfasi della morte come compagna di cordata, non è rinuncia, il rischio calcolato è e rimane una componente essenziale dell’alpinismo.
A questo punto vorrei ricordare un episodio che movimentò insolitamente gli ultimi giorni del 1953.
In quel fine d’anno due giovani torinesi, Malvassora e Alderighi, tentarono l’ascensione del Cervino per la cresta Fürggen, allora non ancora salita in inverno (in realtà salita dal 20 al 21 marzo 1953 da Walter Bonatti e Roberto Bignami, NdR). Il tempo cambiò, mentre erano impegnati a 3800 metri di quota e, dopo un precario bivacco, non rimase loro altra alternativa se non quella di attraversare la parete est per trovare riparo alla capanna Solvay sulla cresta dell’Hörnli.
A Cervinia intanto, allarmati dal maltempo e dal mancato ritorno dei due, le guide del Cervino e alcuni amici alpinisti, in gara di solidarietà, partirono alla loro ricerca.
Occorre ricordare che nel ’53 non esisteva ancora un corpo organizzato di soccorso alpino e le iniziative di questo genere erano affidate alla generosità dei singoli.
Alla fine, quella che per i giornali era una tragedia annunciata, terminò senza vittime, ma scatenò sui quotidiani una feroce campagna denigratoria.
Voci più diverse invocarono divieti e sanzioni e il principio del “non diritto al rischio”. È a questo punto che interviene Mila con un lungo e appassionato articolo su L’Unità del 3 gennaio 1954. Dopo aver rilevato che in queste pubbliche e ricorrenti insurrezioni contro l’alpinismo “C’è in fondo un inconfessato risentimento di invidia contro chi si permette di fare cose che non a tutti è dato di fare», definisce il rapporto fra l’alpinismo e gli inevitabili pericoli oggettivi: «il rischio» scrive, «è nell’essenza dell’alpinismo e costituisce la ragione della sua supremazia morale, proprio per il fatto ch’esso è cercato in sé, come prova del proprio animo, non per cogliere una vittoria su altri uomini e per battere un record».
Per Mila la necessità di schierarsi, risponde alla sua scelta di uomo libero, aperto al dialogo ma non arrendevole, mai in posizione defilata, ironico e battagliero sempre.

Potrei e forse dovrei, a questo punto, recitare il lungo elenco delle sue ascensioni, alcune di rilievo come quella al Grépon per la parete est, oppure scorrere il catalogo della sessantina di cime alpine oltre i quattromila metri, perseguiti e raggiunti con tenacia da collezionista, ma credo che questi inventari non aggiungerebbero niente alla chiarezza della sua immagine.
Nella storia dell’alpinismo Massimo Mila è entrato a buon diritto per le idee e la cultura.
Quello che gli è riservato è uno spazio connesso al suo modo limpido di raccontare e in particolare ai suoi scritti sulla storia. Primo nel tempo quel Trent’anni di assalti all’Everest, pubblicato da Einaudi nel 1954 a fianco della testimonianza diretta di Tenzing Norgay, lo sherpa che con Hillary ebbe la ventura di raggiungere per primo la cima dell’Everest. Subito dopo venne l’analisi di Trentacinque anni di storia in un carteggio alpinistico, ove Mila analizza il rapporto epistolare fra il prof. Alfredo Corti e il colonnello inglese Edward Lisle Strutt che, negli anni del carteggio, (dalla vigilia della prima guerra mondiale, 1913, alla morte di Strutt, 1948) fu presidente dell’Alpine Club e direttore dell’Alpine Journal.
Ma il suo lavoro più noto, e ancora frequentemente citato malgrado i venticinque anni che ci separano dalla sua stesura, è quel Cent’anni di alpinismo italiano ove in una chiara e snella sintesi percorre la storia dalla fondazione del Club Alpino. La valutazione complessiva di questa attività gli valse l’ammissione al Club Alpino Accademico.
Nel 1965 fu in Caucaso e negli anni successivi nelle Ande e in Himalaya, più per vedere che per salire ormai.
Negli ultimi tempi gli acciacchi lo privarono di questo rapporto privilegiato con la montagna e la separazione lo angustiò più di qualsiasi altra. Nella primavera del 1988 lo vidi all’auditorium e nell’intervallo andai a salutarlo: mi squadra con attenzione e dopo un attimo di perplessità: «Vai ancora in montagna?».
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Corretto con “acciacchi” (al posto di “accademici”). Grazie dell’aiuto.
Solo per dire che il testo (ri)pubblicato qui da Gogna rispecchia fedelmente quanto si trova scritto in Scandere 90/92 a pag.104. Obiettivamente però la “lettura” riportata da Rabbi sembra essere in tutta evidenza (e sensatezza) quella che doveva essere stata originariamente presente nel testo di Garimoldi.
Comunque assolutamente imprescindibile, per approfondire (ed apprezzare) la figura di Massimo Mila alpinista, è la lettura del volume Scritti di montagna a cura di Anna Mila Giubertoni nella collana Gli struzzi di Einaudi (nr.432).
Errore: negli ultimi tempi gli acciacchi lo privarono di questo rapporto privilegiato con la montagna, non “gli accademici lo privarono di questo rapporto privilegiato.
Scandere 90/92 pag. 104