Spergiuro al Cervino
di Michel Piola
1° agosto 1291. Sulle rive di un lago molto incassato (il futuro Lago dei Quattro Cantoni), nel luogo detto della prateria del Grutli, tre solidi Waldstatten si stringono le mani con determinazione: attraverso questo patto che segna la nascita della Confederazione Elvetica, essi prestano un giuramento di assistenza reciproca nell’ottica di sbarazzarsi della tirannia degli Asburgo, la famiglia austriaca autocratica.
l° agosto 1931, 640 anni dopo. Sull’esile pinnacolo di una delle più celebri montagne del mondo, il Cervino – quel giorno ben freddo – i due fratelli monacensi Hans e Toni Schmid si stringono le mani con soddisfazione dopo una delle più belle prime ascensioni fra le due guerre.
l° agosto 1981, rispettivamente 690 anni e 50 anni più tardi. Doppio anniversario alla sommità di un Cervino sempre leggermente incappucciato: una cordata di giovani “dandy inglesi” giunti per miracolo fino a lì e due gagliardi singhiozzanti di piacere non si stringono nemmeno le mani, ben troppo dolorose per far ciò. E se non hanno neppure un solo pensiero rispettoso per i loro illustri antenati, è unicamente perché la ragione dell’inquietudine li spinge egoisticamente a preoccuparsi della lunga, lunghissima discesa che li attende.
La prova che, di certo, mi esprimo in tutta conoscenza di causa, è che, appena due mesi prima…
Pierre-Alain Steiner nel primo terzo della via Direttissima al Naso di Zmutt, Cervino
Giugno 1981, sulla parete nord per la via Schmid
Emergendo dalla foresta, il paesaggio a dominanza clorofilliana contemplato fino a quel punto si trasforma in un mondo più minerale: il Breithorn, il Castore e il Polluce, fino al massiccio del Monte Rosa, prendono improvvisamente più rilievo nella forte luce di quel pomeriggio già alla sua fine.
I tornanti del sentiero che a lungo avevano esitato tra il versante nord est ombreggiato e il grande pendio chiaro, poiché spoglio, che domina Zermatt, sembrano ora definitivamente decisi, assegnandosi la meta dell’ultimo pilone dello Schwarsee, là in alto, mentre la brezza della sera serpeggia con piacere solleticando i cavi dell’inutile teleferica…
Ci voleva proprio tutta la poesia del mondo e di questa serata riunite per dimenticare le piccole inezie imposte da un destino un po’ troppo scherzoso che ci ha fatto trovare chiuse le porte della funivia quando ci eravamo basati sull’orario trasmesso dall’ufficio del turismo di Zermatt, ufficio che aveva omesso di segnalarci come fosse valido solamente a partire dall’indomani…
Ci sono Pascal Sprungli, con cui ho calzato le mie prime scarpette d’arrampicata, e Tom, un amico australiano assai simpatico che è venuto ad aiutarci fino alla capanna.
L’ambiente è comunque al bello fisso quando spingiamo a fine serata i battenti del rifugio dell’Hörnli, soprattutto dopo i parallelismi ricordati con la nostra simile disavventura accaduta nel 1976 alla Diretta americana dei Drus, salita a piedi da Chamonix, racconto valorizzato da terribili «mille miliardi di punti di aiuto» e da eloquenti «in completa artificiale», linguaggio assai roboante che non sfigurerebbe in uno degli album di quel celebre disegnatore che è Hergé.
Dopo solo due ore di riposo e con l’ottimismo che distilla con più prodigalità i suoi benefici di un riposo insufficiente o di un gelo notturno curiosamente assente, lasciamo la capanna nel momento in cui la sveglia trilla ancora o quasi.
Narrare l’ascensione della via Schmid sarebbe piuttosto disdicevole: come far credere a delle persone sensate che si è trattato per noi di una scalata canicolare, effettuata in maglietta sotto un sole di piombo presente dalle cinque del mattino alle dieci di sera, che sono state le nostre braccia sprofondate fino ai gomiti in una massa nevosa inconsistente e tiepida a rimpiazzare le nostre piccozze-da-trazione-ultimo-grido mentre assetati ci dissetavamo alle numerose cascate che correvano lungo il pendio?
Pierre-Alain Steiner assicura Michel Piola dal luogo del primo bivacco (Direttissima al Naso di Zmutt)
Solo due punti non sarebbero stati in disaccordo con i racconti dei nostri predecessori: i qualificativi d’esecrabile per la roccia e d’interminabile per la discesa.
Quanto a noi stessi… Ebbene non fummo noi stessi che spingemmo le porte del rifugio dell’Hörnli un po’ più tardi, ma piuttosto due involucri vuoti di pensiero e di volontà, due specie di mascheroni clowneschi insomma, giganti e meccanici, e anche poco fieri. E anche flosci… zitto!
28 luglio, capanna dell’Hörnli
Luglio 1981: già due mesi da quando in questo stesso posto mi ero proprio promesso di non ritornare mai più!
Ma se sono qua in situazione di spergiuro è perché oggi la sfida è grandiosa: non capita in effetti tutti i giorni di prepararsi ad aprire un nuovo itinerario su una delle più grandi pareti di tutte le Alpi.
Quando Pierre-Alain Steiner, già conosciuto nel piccolo mondo degli alpinisti come eccellente ghiacciatore, mi telefonò per propormi di aggiungermi a lui e alla cordata di Alexis Long e Patrick Gabarrou (al quale si deve attribuire il merito di aver scoperto questa nuova via), non esitai troppo a lungo, anzi proprio per niente, secondo l’adagio che dice che l’occasione fa l’uomo ladro. In effetti, dopo la via aperta nel 1979 sulla parete nord dell’Eiger e la seconda invernale della parete nord-est del Pizzo Badile del mese di gennaio 1981, era quella l’occasione per perfezionare il bellissimo “trittico” delle tre più belle pareti nord elvetiche.
Disgraziatamente, alcuni impedimenti di ordine professionale ridussero slealmente la nostra esperta équipe a una entità meno internazionale.
Arrivati così a fine pomeriggio alla capanna dove non c’è meno neve in questo inizio di estate disastrosa che al mese di giugno (di certo abbiamo potuto beneficiare dell’orario estivo della funivia…), trangugiamo una rapida cena prima di andare ad effettuare un trasporto fino ai piedi della parete nord, dividendo così il materiale in quattro carichi uguali (20 kg) più adatti all’itinerario glaciale e difficile, in particolar modo il passaggio della barra dei seracchi del Matterhorngletscher, com’è quello che porta alla terminale sotto il Naso di Zmutt.
Di ritorno alle undici di sera, incrociamo una cordata in partenza per la via Schmid, assai sorpresa dal nostro incomprensibile maneggio notturno.
Martedì 29 luglio. Siamo all’alba al deposito di materiale sotto il Matterhorngletscher dove possiamo osservare a piacimento la parete mentre ordiniamo i nostri zaini “grattacielo”. L’itinerario pare evidente almeno nel suo primo terzo, glaciale, dove una bella goulotte serrata da due dirupati speroni lega arditamente i primi nevai al grande pendio centrale che si perde sotto la parete rocciosa del Naso.
A Cesare quel che è di Cesare: è al ghiacciatore della cordata, Pierre-Alain, che è assegnato il titolo di “grande leader delle prime lunghezze”. La goulotte è così risalita in tre tempi (tre movimenti) più o meno rapidamente secondo i partecipanti: in primo luogo il leader con una rimarchevole economia di punti di assicurazione (uno solo), poi me stesso purtroppo secondo un’assenza di etica assai desolante (grazie piccole maniglie jumar) ma con una reale efficacia vi assicuro – e la seconda compensava la prima -, e alla fine, ma certo, il nostro fedele “Hole-Bag”, al quale accordiamo i vergognosi favori dell’ultimo della classe in lentezza, e cioè nell’ordine: promesse, incoraggiamenti, moine, suppliche, disprezzo, ingiurie e minacce! Ahimè! Nessuna di queste misure pedagogiche otterrà l’effetto previsto e ultimo della classe era e ultimo delle classe resterà…
Fu il diavolo in persona, che con una semplice buffetto, mi fece andare il culo sopra la testa?
Temendo di non trovare un posto favorevole al bivacco continuando più in alto, decidiamo di arrestarci alla fine del grande pendio nevoso, proprio ai piedi del Naso di Zmutt.
Nessun dubbio, saremo ben installati: un nut a sinistra e soprattutto due eccellenti chiodi piantati al massimo in una fessura orizzontale ci faciliteranno un riposo molto apprezzato dopo questa lunga giornata.
Seduti sul nostro balconcino, con i piedi che si dondolano nel vuoto evidenziando la prospettiva fuggente del pendio, ci scambiamo le nostre impressioni su questa prima giornata mentre sorvegliamo gelosamente il fornelletto sul quale sembrano prepararsi cose deliziose.
Ma la Signora Gravità ci avrebbe presto rubato senza pietà i nostri beni più preziosi, senza aver curato, da parte nostra, le più elementari precauzioni.
Poi, dopo un ultimo sguardo sul panorama, guadagniamo le nostre rispettive camere da letto: Pierre-Alain si accomoda sulla stretta banchetta tagliata nel ghiaccio vivo mentre, da grande fannullone poco portato alle fatiche del terrazzamento, io mi accontento di sospendere un’amaca al più alto dei chiodi.
Come nei porti quando la brezza fa tintinnare le sartie contro gli alberi maestri, i soli rumori che disturbano ben presto il silenzio sono opera dei moschettoni appesi in grappolo che si raccontano a forza di piccoli tintinnii le loro fortune e sfortune della giornata.
Ah, che ne sappiamo di tutto quel che si è detto durante quelle ore!
È la notte delle confidenze.
La Grande Notte dell’Insolito.
Da questo Insolito mi risveglio d’improvviso all’ora in cui il calendario esita fra il giorno precedente e quello seguente, constatando – stupore – che plano con attenzione in un fluido sottile chiamato aria, questo etere del povero. Per parlare correttamente, io volo: ah, amici miei, che impressione!
Ahimè, devo presto smettere di poetare accorgendomi che non è la Fenice che io incarno ma piuttosto Icaro, figlio di Dedalo, con tutta la temerarietà fatale al nostro simpatico antenato.
Pierre-Alain Steiner al primo bivacco sulla Direttissima al Naso di Zmutt
Temerarietà, o imprudenza, che m’ha fatto agganciare la mia amaca a un solo chiodo che – è la prima conclusione che si impone – si è visibilmente strappato.
Quando, dopo questo corto intermezzo aereo, mi poso senza dolcezza su un tappeto di ricezione, d’altro canto ben morbido, chiamato Pierre-Alain, il mio avvenire immediato si rivela ancora molto incerto: in effetti Newton, la sua celebre mela e un’autoassicurazione lasca di ancora due metri mi invitano a proseguire l’esperienza in direzione della piccola macchia chiara del Matterhorngletscher, laggiù in fondo…
Per fortuna Pierre-Alain, senza rancore per questo risveglio inabituale – lui che crede per un istante a una gigantesca caduta di pietre – interviene quanto mai a proposito nel meccanismo del destino, afferrandomi con dei riflessi e una determinazione del tutto a suo onore.
Ouf! Liberatomi dal saccopiuma e ridendo ancora dello sgarbo tiratomi da quel diavolo di chiodo burlone, mi accomodo sul secondo chiodo per proseguire un sonno che non sarà più disturbato se non da divertenti sogni che vedono un certo Satana-Mefisto-Lucifero accanito a farmi sprofondare, con un semplice buffetto a ripetizione, il culo al di sopra della testa durante tutta la notte.
Apprendendo all’alba da Pierre-Alain che quel chiodo sul quale ho finito la mia notte movimentata si leva con le mani (tutta la fessura si era aperta), abbiamo un pensiero comune per la destra damigella che è il mio Angelo Custode, che non ha dovuto addormentarsi a lungo per evitare una spiacevole recidiva…
Il posto del leader incombeva su di me per tutta la parte rocciosa centrale, così cacciammo gli scarponi ben in fondo al sacco da recupero per intraprendere in scarpette la scalata di una ripida fessura sulla sinistra del bivacco.
Fessura che seguiamo per due lunghezze prima di tirare a destra, per superare un diedro che porta – sorpresa – a un piccolo nevaio che garantisce un buon posto da bivacco. Non c’è bisogno d’altro per incitarci a depositare tutta la nostra chincaglieria su questa aerea cornice, ben presto trasformata in due strette ma confortevoli terrazze.
Alla fine del pomeriggio decidiamo di attrezzare ancora due lunghezze con delle corde fisse. La scalata, difficile e delicata, è allora apprezzata al suo giusto valore su una roccia soleggiata e solida, liberati dal giogo dei sacchi da issare.
Ben presto di ritorno, il pasto mandato giù, ogni preoccupazione scomparsa, ecco, vi dico, una buona serata al focolare: la fiamma rosseggiante di un ipotetico camino si vede persino rimpiazzata con talento dal disco gigante del sole, già a ovest, che sottolinea la successione delle creste unite con coerenza da colli e cime dai nomi prestigiosi di Dent Blanche, Mont Durant o Obergabelhorn. Da buoni allievi, imitiamo il nostro antenato, l’Astro dei Tempi, nascondendoci sotto i nostri piumini per rimandare a domani la nostra prossima e glaciale apparizione.
Pierre-Alain Steiner sulla Direttissima al Naso di Zmutt
Due mocciosi sul Naso di Zmutt
Se fare colazione a letto è il non plus ultra del comfort per l’uomo comune, la stessa azione applicata all’alpinista, vista l’ampiezza dei movimenti limitati, rivela più semplicemente necessità o elementare prudenza. Necessità alla quale ci sacrifichiamo ancor più volentieri dato che questa mattina la temperatura è piuttosto fresca e che sappiamo che si tratta, anche se stranamente la giornata è appena iniziata, del penultimo pasto delle prossime ventiquattro ore. Per fortuna la risalita delle corde fisse si rivela velocemente un eccellente riscaldamento, come la traversata – cioè il pendolo – obbligatoria dal bivacco per raggiungere l’asse dei punti di ancoraggio, si mostrerà un perfetto risveglio psichico.
Il fatto è che oggi è il caso di “uscire” dalle difficoltà rocciose superando i famosi strapiombi finali del Naso. Arrivati al capolinea della nostra monorotaia in nylon, attraversiamo a destra per raggiungere l’inizio di una gigantesca rampa leggermente obliqua che andiamo a risalire fino a sbattere contro l’ultimo strapiombo.
Scalata superba, libera per la maggior parte, ed effettuata su una roccia che da eccellente diviene eccellentissima (ah, il contrasto con la parete nord) e sempre più ripida.
Fino a che i capricci della natura fan sì che divenga sempre meno verticale… perché diviene strapiombante!
Un’ultima lunghezza, un ultimo strapiombo, un’ultima fessura per uno sforzo che non sarà l’ultimo e ci ritroviamo tutti e due alla ventiquattresima sosta, felici come due monelli che hanno appena fatto un bello scherzo a un “grande”.
I due terzi più difficili della via sono in tasca ed è esultando nel sapere che non ci può più succedere niente che proseguiamo, cercando nel frattempo un buon posto da bivacco.
Niente… tranne il cattivo tempo. Ma è una tempesta appena abbozzata, dei fiocchi di neve, dei cristalli, così belli nella loro trasparenza, e delle colate di neve polverosa così silenziosa che è col sorriso della tranquillità che serriamo quella sera i lacci dei nostri sacchi da bivacco.
La vetta
Tutto sembra d’altra parte arrangiarsi al meglio ed è quasi al sole che dopo due grandi lunghezze sbuchiamo sulla Cresta di Zmutt, a un centinaio di metri dalla vetta italiana. Dopo averla raggiunta alle undici, non ci rimaniamo che il tempo di mettere a posto il materiale in eccesso ora inutile, prima di tuffarci nella discesa per mantenere un distanza ragionevole da un gruppo di inglesi slegati in equilibrio precario e pericoloso per quei luoghi.
Ed è naturalmente alla capanna dell’Hörnli che chiudiamo il cerchio iniziato quattro giorni prima, ammirando i falò accesi nella valle dagli abitanti di Zermatt per onorare il primo agosto, mentre… sorseggiamo lo champagne offerto dal custode!
E poi domani arriverà il momento finale, insomma, magistrale buffonata troppo conosciuta: la valorosa traversata di una Zermatt estiva, affollata, indecente e superficiale, come oranghi ignorati in un serraglio variopinto, dove solo i cavalli delle carrozzelle sapranno mantenere una parvenza di dignità umana.
Ma che dico, questa è un’altra storia.
postato il 14 settembre 2014
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GRANDE PIOLA ANCHE COME SCRITTORE!!