Montagne, uomini e idee – 1

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Siamo lieti di presentare questo accurato lavoro di Carlo Battista Mazzoleni, custode del rifugio Salmurano (Val Gerola), che, per la sua tesi di laurea in Storia, ha fatto una ricerca sulle diverse motivazioni che l’uomo, nelle varie epoche, ha avuto per esplorare, vincere o vagabondare in montagna.

Montagne, uomini e idee – 1 (1-4)
di Carlo Battista Mazzoleni
(tesi di laurea in storia, Bologna, 2013)

‹‹I montanari non hanno mai apprezzato troppo le montagne; ci vivono, ma in fondo sono sempre del parere di quel mio amico, pastore d’alta quota, il quale, con tutto rispetto, accusava il Signore di aver fatto il mondo tutto su e giù, mentre poteva benissimo farlo piano (Bruno Credaro)››.

Monte Legnone, primi anni XX secolo. La frequentazione delle vette era compiuta dai valligiani per motivi quasi esclusivamente religiosi. Le croci di vetta delle montagne più “rappresentative” dei vari nuclei abitati erano luogo di pellegrinaggio e le cerimonie votive ai loro piedi importanti momenti della vita comunitaria.

INDICE
1. Introduzione
2. La nascita dell’alpinismo
2.1 Dai folletti ai baronetti
2.2 La scienza promuove l’alpinismo, la conquista del Monte Bianco
2.3 I successori di de Saussure: la piccozza al posto del barometro
2.4 Le Alpi orientali: un mondo diverso
3. L’alpinismo italiano agli esordi
3.1 La fondazione del Club Alpino Italiano
4. Le Alpi come confine
4.1 Irredentismo e alpinismo in Italia
4.2 Alpini e alpinisti
4.3 Il CAI in guerra
5. Tendenze dell’alpinismo all’inizio del XX secolo
5.1 Il periodo aureo
5.2 Le conseguenze della Grande Guerra sull’alpinismo
6. Tra le due guerre
6.1 L’evoluzione dell’alpinismo e il ritorno degli italiani
6.2 Comici, Cassin e Gervasutti, gli italiani protagonisti
6.3 La sfida continua in Europa
6.4 La nord dell’Eiger: roccia, ghiaccio e nazionalismo
7. Il fascismo e la montagna
7.1 I circoli alpinistici tra Grande Guerra e fascismo
7.2 La fascistizzazione del CAI
7.3 L’alpinismo ai tempi del duce
7.4 La caduta vista dalla montagna. Alpinisti ribelli, il CAI trasformista
8. 50’s, 60’s, 70’s, strade diverse
8.1 Walter Bonatti, l’assassino dell’impossibile
8.2 Il K2, la montagna dell’orgoglio italiano
8.3 California dream
8.4 Nuovi mattini
9. La sezione di Morbegno del CAI. Il grande, in piccolo
10. Conclusioni
11. Bibliografia, fonti periodiche, fonti inedite

XVIII secolo: il ghiacciaio è uno spaventoso rettile

1. INTRODUZIONE
La montagna, spesso considerata, insieme ai deserti, come luogo ostile all’uomo, potrebbe mostrarsi a uno sguardo esterno e superficiale un luogo poco adatto allo svolgersi di una Storia significativa, dove sia possibile rintracciare linee di sviluppo umano, culturali così come sociali, di forza pari ad ambienti cittadini. Le scarse possibilità di comunicazione dovute al remoto isolamento dei luoghi, per motivi ora morfologici, ora climatici, lo stereotipo – fortunatamente superato – che descrive i suoi abitanti come abbruttiti dai rigori della vita e dalle smoderatezze nei costumi, sono contributi che vanno a corroborare una visione dell’ambiente montano come avulso dalle dinamiche di trasformazione che coinvolgono culture e società “di pianura”, oltretutto di per sé sterile al progresso e privo di connotazioni positive.

Scopo della tesi è piuttosto indagare nella storia recente come proprio in montagna si possano manifestare, mettere a frutto, dimostrare potenzialità e limiti, tutte le dinamiche che animano, in modo certo più profondo, sicuramente anche per una maggiore pubblicizzazione, gli ambienti cittadini. Bisognerà certo tener conto che per la grandissima parte i fatti presi in considerazione sono emanazioni di fenomeni per così dire “borghesi” che si riverberano in ambiente alpino, grazie soprattutto alla “scoperta” delle Alpi da parte delle élite cittadine che trasformeranno le montagne in terreno di gioco, di svago, ma pure di sfida e attestazione di preminenza. In tutto questo la figura del “montanaro” – l’abitante delle valli – fatica ad emergere come personaggio autonomo, capace di comprendere appieno le esigenze di chi a lui si appoggia per il compimento delle proprie aspirazioni alpinistiche, ma dimostra al tempo stesso una notevole capacità di adattamento, oltre a una certa dose di opportunismo, nell’assecondare le fantasie del cittadino, e in queste supportarlo. Ovviamente il quadro non manterrà questa valenza bipolare per lungo tempo, i montanari riusciranno presto a ergersi all’onore delle cronache non più come semplici guide, portatori, risolvitori di problemi per conto terzi, ma anche come valorosi alpinisti; è però da sottolineare come, dai primi momenti dell’alpinismo, sino ai tempi più recenti, sia l’alpinismo “cittadino” ad essere portatore di innovazione e teorizzazione, tecnica così come etica, mentre quello valligiano continui a essere caratterizzato dall’utilitarismo – ad esempio quello della guida di professione – o dal sentimento puramente interiore e personale.

Durante tutto il XIX secolo furono poche le innovazioni tecniche nell’arrampicata. Nelle stampe si nota l’assoluta ignoranza delle manovre di assicurazione personale e della cordata. Tutta la sicurezza era affidata alla forza fisica e ai riflessi della guida.

L’alpinismo sarà il tema principale dell’indagine, dal momento che è il campo in cui si esplicitano in modo più significativo le attività e gli interessi delle classi sociali di volta in volta emergenti, spogliati di un diretto significato economico, ma non per questo senza valori e ripercussioni legati alle esigenze, spesso fortemente politiche, della società di provenienza. Paradossalmente, anche se attività antieconomica e antisociale, nella pratica dell’alpinismo si rintracciano talvolta in modo più evidente che altrove le teorie, i principi, le motivazioni “nobili” d’importazione; la montagna si presenta come protagonista nella storia delle idee in quanto campo estremo in cui si radicalizzano ed emergono, in modo quasi caricaturale, le espressioni più tipiche di ogni periodo storico nel quale si possano trovare tracce di attività alpinistica. L’alpinismo è oltretutto un campo in cui si esprimono al massimo quelle classi sociali e quei gruppi che di volta in volta sono emergenti nella società, sia per disponibilità economiche, sia per dinamicità psicologica e ricchezza culturale dei protagonisti.

Naturalmente compiere una disamina completa e totale delle espressioni alpinistiche, e dei fenomeni ad esse legati, richiederebbe tempi e modi che non rientrano nelle mie intenzioni per questo lavoro. Prenderò in considerazione i fenomeni, i luoghi, i personaggi che valuterò più rappresentativi di un determinato periodo e del relativo modo di “andar per monti”, in una successione sia cronologica sia concettuale, accostando il racconto delle imprese e dei protagonisti più significativi con l’individuazione di valori condivisi e significati sociali e politici connessi alla salita delle montagne.

3 agosto 1787: Horace-Bénédict de Saussure sale il Monte Bianco di persona. 17 guide prenderanno parte alla spedizione del nobile ginevrino, facilitandogli la salita.

2. LA NASCITA DELL’ALPINISMO
2.1 Dai folletti ai baronetti
Gli abitanti delle pendici delle montagne non sono mai stati attratti fisicamente da esse, ma sono sempre stati propensi a una idealizzazione tra il mistico e il religioso dei rilievi che incombono sulle loro terre. Esempio lampante è il caso del monte Olimpo, nella tradizione dell’antica Grecia dimora delle divinità; le stesse caratteristiche fisiche di questa montagna oltretutto incoraggiano l’immaginario: l’isolamento da un gruppo montuoso parimenti elevato – la cima si erge ben 2912 m sopra il livello del mare – e la vicinanza con lo stesso mar Egeo, che fa sì che i fianchi della montagna siano costantemente ricoperti di nubi, rendendo la stessa vetta misteriosa e rimuovendola dal campo della razionalità. Confine tra mondo terreno e ultraterreno nell’immaginario dell’antica Grecia, in area alpina le montagne, al di sopra o al di là del limite utile allo sfruttamento dell’uomo, sono il luogo dove rimangono relegati i personaggi della cultura pagana o nordica, sempre latamente presente in popolazioni cristianizzate, ma fedeli ad antiche tradizioni dalle radici dimenticate. Ecco allora i boschi popolati di esseri mitologici, nani e folletti, o vette ghiacciate teatro di scorribande delle anime dei defunti. Anche qui dunque si può individuare una commistione tra fisico e metafisico, terreno e ultraterreno, presente sui luoghi che sono, anche visivamente, punti di incontro tra la terra e il cielo (concezione tutt’oggi quanto mai radicata, dimostrata dall’enorme numero di simboli religiosi collocati su montagne ormai del tutto “addomesticate”). E’ l’ignoranza dei fenomeni naturali dell’alta montagna a far sì che questo ambiente sia rimosso dalla razionalità delle genti alpine, e che le sue – inquietanti – manifestazioni vengano attribuite al sovrannaturale.

In questi tempi pre-alpinistici la frequentazione delle montagne è sempre stata causata da un puro utilitarismo, i valligiani si alzavano dai fondovalle soltanto per lo svolgimento di attività economiche quali il reperimento di risorse (legname, selvaggina, cristalli) o i commerci attraverso i passi, e mai, prima della nascita dell’alpinismo, si è avvertita una “pulsione alla vetta” che giustificasse una salita fino alla cima. Esistono certo episodi notevoli di personaggi che in tempi remoti hanno rivolto il loro sguardo verso le montagne con intenti differenti. Qualcuno considera già “alpinismo” la salita in Provenza e nel 1336 del poeta Francesco Petrarca al monte Ventoux 1912 m, oppure quella ben più ardua del Rocciamelone 3538 m, nelle Alpi Graie, da parte del condottiero Rotario d’Asti, nel 1358; in entrambi i casi però non è possibile parlare di vero e proprio alpinismo, dato si parla di fenomeni che rimangono per lunghissimo tempo isolati e senza seguito, privi di una inequivocabile dimostrazione che i personaggi fossero mossi da motivazioni di “conquista” proprie dell’attività alpinistica: se Petrarca si può supporre che fosse animato da una vera curiosità naturalistica (e parziale dimostrazione ne è la descrizione che fa del panorama che si gode dalla vetta), non si può dire lo stesso delle intenzioni di Rotario d’Asti, che si reca sulla cima di quella che era considerata la più alta montagna delle Alpi per ottemperare a un voto religioso[1].

Francesco Petrarca

Una frequentazione “diversa” delle Alpi comincia a manifestarsi nel corso del XVIII secolo, quando si ha notizia di una certa attività di tipo turistico: la ripresa del gusto classico per il “selvaggio”, per l’esotico, la mitizzazione quasi arcadica dell’abitante delle incontaminate – soprattutto culturalmente – valli alpine, portano rappresentanti della nobiltà per lo più inglese e, in minor misura, francese, a compiere viaggi estivi nelle regioni montuose europee vicine alle città più rappresentative del tempo (una certa fortuna avranno le valli piemontesi e le colline toscane), inserendo queste escursioni extra-cittadine nel programma dei grand-tour. La ricerca dell’essere umano al naturale, mondo delle incrostazioni sociali viene ad essere, in definitiva, una sovrapposizione a una realtà, invero molto diversa, di quelle teorie filosofiche alla Shaftesbury in voga presso la nobiltà britannica di inizio Settecento. Conoscenza quanto mai superficiale tradotta in scritti mal documentati caratterizza questa fase di avvicinamento aristocratico-cittadino alla montagna, ancora condotta con quello spirito coloniale che caratterizzava i viaggi di ugual tipo in parti remote del mondo poste sotto il dominio europeo. Sono i preconcetti a modellare l’immagine dell’abitante dei monti, non il contrario[2].

Horace-Bénédict de Saussure

2.2 La scienza promuove l’alpinismo. La conquista del Monte Bianco
Mentre signori imbellettati passeggiavano per i fondovalle alpini alla ricerca del “buon selvaggio”, negli ambienti accademici e culturali francesi il razionalismo scientifico tornava a dominare la scena, esplicandosi nel movimento scientifico e culturale dell’Illuminismo. Figlio delle innovazioni del tempo è Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), ricco aristocratico ginevrino, modello di studioso erudito, a suo agio in salotti e accademie così come nella ricerca sul campo, appassionato studioso di botanica e geologia. Ed è eseguendo studi sull’altezza esatta del monte Bianco, ben visibile dalle colline intorno a Ginevra, che lo studioso svizzero riesce a compiere quel passo che risulta più faticoso e difficile quando si parla di infrazione dell’ignoto: quello psicologico. De Saussure riesce a spogliare la montagna dell’alone di irrazionalità che da sempre le è appartenuta per sottoporla alla critica della ragione, rendendola in questo modo comprensibile e raggiungibile dal cervello, e quindi dal piede, dell’uomo. Questa prima spinta all’esplorazione del monte Bianco ha come scopo manifesto quello di dotare di un nuovo terreno gli studi scientifici in campo naturalistico – principalmente meteorologico -, ma non è da mettere in secondo piano l’aspetto caratteriale del suo promotore, certamente spinto da intimi desideri di elevazione e di novità; la motivazione accademica allo studio dell’atmosfera, della pressione e delle correnti in un ambiente inedito era più forte, ma non assoggettata, all’ambizione dell’individuo di infrangere il tabù della montagna e vincere così l’irrazionalità. L’approccio “scientifico” all’alpinismo sarà caratteristico della maggior parte degli scalatori del secolo successivo, esponenti delle fasce più in vista della società che spesso usavano il pretesto della ricerca come alibi per le proprie avventure sui monti[3].

Michel Paccard

Per passare dalla teoria all’azione lo scienziato ginevrino non giocherà, almeno inizialmente, in prima persona, ma cercherà con ogni mezzo di formare una sorta di spedizione per assaltare la vetta e giudicarne la possibilità di salita. Eccolo quindi già nel 1760 nella valle di Chamonix, sul versante francese del massiccio, intento a cercare punti panoramici dai quali tracciare l’ipotetica via di salita e a tentare il reclutamento di chi l’avrebbe percorsa. La mentalità dell’epoca non disprezzava la possibilità che il galantuomo proponesse un ricco premio in denaro a chi fosse riuscito nel compimento dell’impresa, un vero accordo commerciale con in palio gloria e relativa ricchezza. La prima portò al reclutamento del giovane medico chamoniardo Michel-Gabriel Paccard[4] (1757-1827), la seconda attirò il cacciatore e cercatore di cristalli Jacques Balmat (1762-1834), certamente privo della cultura e della spinta idealista di chi aveva frequentato l’università torinese (Paccard), ma forte fisicamente e avvezzo ai rigori e alle fatiche dell’alta montagna. In realtà la salita si svolgerà soltanto 26 anni dopo l’inizio dei proclami di de Saussure, dopo che negli anni numerosi avventurieri avevano tentato sommarie esplorazioni, ma erano tornati impauriti più dalle suggestioni che dall’effettivo pericolo. Sta di fatto che l’8 agosto del 1786 Paccard e Balmat calcarono la vetta della più alta cima d’Europa, carichi degli strumenti del loro “mecenate”. Le misurazioni scientifiche condotte dai due furono del tutto inadeguate, ma sembra che ormai nessuno se ne curasse più: l’impresa era compiuta, seppur senza nessun tipo di preparazione tecnica né di materiale adatto alla scalata d’alta quota. L’anno successivo toccò pure a de Saussure giungere in vetta, grazie all’organizzazione di un’imponente spedizione e di campi intermedi dotati di ogni – relativo – comfort, in perfetta linea con l’accezione tutta aristocratica dell’avventura. Gian Piero Motti, attento come pochi alle implicazioni psicologiche degli alpinisti, arriva al punto di ‹‹chiedersi se de Saussure […] alla fine non fu più soddisfatto dall’aver salito il Bianco che dagli esperimenti compiuti››[5].

2.3 I successori di de Saussure: la piccozza al posto del barometro
Vari personaggi cominciarono a questo punto a dedicarsi all’alpinismo: ‹‹[…] i sacerdoti dicevano che ci si sentiva più vicini a Dio; i massoni ed i cultori della Natura giuravano che non vi era nulla di mistico lassù, ma che invece si godeva la Natura, un po’ paganamente, nella sua massima espressione di potenza; gli esteti esaltavano la luce cruda dei monti, le linee dei rilievi, il paesaggio sempre mutevole, i colori delle rocce e dei ghiacci illuminati dal sole››[6].

Johann Coaz

In ogni caso nei decenni immediatamente successivi all’impresa sul Bianco, pur nelle difficoltà politiche in cui versava l’Europa a cavallo tra XVIII e XIX secolo, furono ancora gli scienziati a compiere l’esplorazione primaria dei principali massicci delle Alpi centro-occidentali, sempre accompagnati da “guide” – virgolettato d’obbligo, data l’assoluta mancanza di professionalità di queste figure – valligiane, che avevano da proporre null’altro che prestanza fisica e coraggio nell’affrontare situazioni di pericolo, ma del tutto impreparate dal punto di vista tecnico: è singolare come il primo alpinismo dimostri un’assoluta incuria verso norme di sicurezza che pochi decenni dopo saranno considerate basilari da ogni scalatore. Il timore irrazionale non era ancora stato sostituito da una conoscenza ragionata dei rischi; saranno necessarie le prime tragedie alpinistiche della storia[7] per dare il via a dibattiti circa l’opportunità stessa dell’alpinismo e, corrente meno radicale ma più costruttiva, lo studio dei fenomeni della montagna – morfologia, attività valanghiva, ecc. – e di strumenti indispensabili alla scalata quali corda e piccozza prima, chiodi e ramponi successivamente. Si segnalano casi in cui salite di eccezionale importanza e difficoltà in relazione ai tempi sono compiute da topografi e geografi, come nel caso dello svizzero Johann Coaz che nel 1850 sale la vetta del pizzo Bernina dal difficile versante nord-orientale[8].

William Douglas Freshfield

Melchior Anderegg

Come accennato sopra, la prima metà dell’Ottocento è il momento in cui dal contatto con un nuovo tipo cittadino che frequenta la montagna, l’alpinista, nasce una figura inedita tra le professioni dei montanari: la guida. In questo periodo l’iniziativa è ancora tutta del “signore”, che propone la meta e fornisce i mezzi per tentare la salita, e si affida alla robustezza fisica e all’esperienza del valligiano, un semplice ma fondamentale ausilio, per compiere la propria impresa. Il bagaglio tecnico, ancora limitatissimo, è anch’esso una ricchezza tutta della guida, che, spesso cacciatore, era certamente più avvezzo ad agire su un terreno difficoltoso rispetto ai suoi aristocratici clienti. Non tarderà il momento in cui i valligiani, sempre più attratti da questa nuova prospettiva professionale, prenderanno l’iniziativa, sia dal punto di vista della “volizione” sia nell’introduzione delle tecniche di sicurezza e di affinamento dei movimenti di progressione. Da tempo, infatti, i facoltosi sudditi britannici avevano preso l’abitudine di organizzare vere e proprie spedizioni per conquistare le principali vette alpine, ingaggiando, senza badare a spese, numerosi portatori e guide. Intorno alla metà del XIX secolo, a personaggi come William Douglas Freshfield, Francis Fox Tuckett, Adolphus Warburton Moore, Horace Walker, che legheranno il proprio nome alla salita delle maggiori cime della zona, dal Monviso agli Écrins, si affiancano guide del calibro del chamoniardo Michel Croz e degli svizzeri Jakob e Melchior Anderegg. Il legame tra guide e clienti diviene ora sempre più stretto e personale, le mete sono decisioni condivise, le forze comuni vengono unite in vista di un traguardo che è sollecitamente presente in entrambi: il valligiano ha ora una prospettiva che va oltre il puro guadagno in termini economici. Si pongono le basi per la successiva evoluzione, che vedrà lo svilupparsi parallelo di un alpinismo senza guide, iniziato dal forte alpinista, sempre inglese, Albert Frederick Mummery, e di un ridimensionamento, se non altro nel valore alpinistico, del prestigio dei clienti delle guide, che porterà queste ultime a cercare gloria a affermazione di propria iniziativa. Entrambe le strade si riveleranno fruttuose, e si incroceranno, quando il valore della guida non sarà più soltanto dato dalla provenienza montana, ma dalla sua abilità: cittadini diventeranno allora guide, e valligiani faranno proprie quelle spinte conquistatrici che li porteranno a competere anche in termini ideali con quelli che un tempo erano i “signori”.

Albert Frederick Mummery

2.4 Le Alpi orientali, un mondo diverso
Parlando di Alpi orientali si intendono, genericamente, le Dolomiti. Questo gruppo montuoso è quanto di più diverso ci possa essere rispetto ai corrispettivi centro-occidentali: cime più basse e sottili fanno da contorno a fondovalle fertili e rigogliosi, gaudenti di un’esposizione solare quale non può esserci nel gruppo del Bianco o del Rosa. Le condizioni di vita delle popolazioni sono molto migliori – volendo tenere un punto di vista generale -, e la montagna, più che come oppressione, è vista come risorsa e madre di relativo benessere. Non c’è quindi da stupirsi se l’alpinismo dolomitico affianca alla componente straniera, per lo più tedesca e austriaca, una significativa presenza di valligiani, che presto diventeranno conquistatori di vette di primo piano e guide dall’abilità impareggiabile. Manca però una sufficiente documentazione scritta per risalire agli albori dell’alpinismo orientale; attendibili tradizioni orali, successivamente riportate in più guide e storie dell’alpinismo, come nelle opere di Claire-Éliane Engel e di Motti, datano già al 1802 la salita sulla vetta della Marmolada – a 3342 m la più alta cima delle Dolomiti, l’unica ghiacciata – da parte di un gruppo di agordini[9]. Altro esempio della conquista “locale” delle vette orientali è la conquista dell’Ortles, massiccio alto 3905 m, non appartenente al gruppo dolomitico ma che si affaccia sulle ampie valli del Südtirol: esso fu salito nel 1804 dal cacciatore Joseph Pichler, benché sollecitato dall’arciduca Giovanni d’Asburgo-Lorena, desideroso di veder domata la vetta più alta dell’Impero[10]. Spinta di conquista proveniente dalla città, in questo caso da una delle personalità più importante dello stato, eseguita da un agguerrito abitante della montagna: uno schema usuale nel primo alpinismo.

Giovanni d’Asburgo-Lorena

Per spiegare la predominanza dell’alpinismo di lingua tedesca sulle Alpi orientali per tutto il XIX secolo e parte del XX, Motti fa riferimento a una coppia di fattori: in primo luogo la vicinanza delle Dolomiti alle principali città austriache rendeva la loro esplorazione molto più agevole di quanto non fosse l’organizzazione di una spedizione inglese nel gruppo del Bianco, aprendo quindi la strada dell’alpinismo a classi sociali che in altri tempi e luoghi non avevano certo potuto esprimersi; dall’altro lato si sottolinea la differenza tra romanticismo inglese e tedesco, che in quegli anni di fervida conquista animava le menti di tutti gli alpinisti. L’animo del tedesco, votato al sacrificio, alla lotta, all’accettazione della sconfitta identificata con la morte gloriosa, si trova molto a suo agio sui verticali ed esposti picchi dolomitici, in una dimensione di intima e ferale lotta a pari mezzi tra l’uomo e la montagna. L’inglese, piuttosto, nel suo positivismo, prediligeva montagne dall’aspetto più rassicurante, sebbene più austere, che affrontava con l’ausilio di spedizioni, guide e tutte le cautele del caso[11]. Anche per questi motivi l’abilità tecnica di scalata su roccia raggiungerà nelle Dolomiti livelli che nei gruppi occidentali compariranno solo parecchi anni più tardi, e qui si introdurrà, su iniziativa del rocciatore tedesco Willo Welzenbach, la prima scala sistematica delle difficoltà (sebbene solo nel 1926). L’esponente più significativo di questo filone di alpinismo “romantico” orientale è il formidabile rocciatore austriaco Paul Preuss (1886-1913), attivo sulle pareti dolomitiche nel primo decennio del ‘900; la sua straordinaria abilità gli consentì di farsi forte propugnatore dell’idea di un alpinismo purissimo, in cui l’uomo si doveva incontrare – più che scontrare – con la montagna totalmente spogliato di qualunque artificio: egli compiva le sue salite in modo del tutto “naturale”, senza l’utilizzo di corde e di tutti quei mezzi tecnici che in quel tempo cominciavano a essere sistematicamente utilizzati nelle ascensioni, anche a causa del fiorire di un alpinismo di tipo turistico. Appassionante il dibattito con la guida fassana Tita Piaz, che, seppur lui stesso convinto della preferibilità di una scalata definita “leale”, non disdegnava l’uso di mezzi artificiali quali assicurazioni sulla vita. Parlando dei chiodi da roccia Preuss afferma: ‹‹[…] Io non riesco a comprendere il valore del sentimento né quello dell’opera, quando si riesce a vincere una parete con simili imbrogli. Io stesso volli una volta “domare” una parete immane mediante una attrezzatura completa da fabbro ferraio, ed in ogni tasca un negozio di ferramenta. Per fortuna non vi riuscii, ed oggi capisco con chiarezza l’antisportività del mio antico tentativo››. E ancora: ‹‹Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità››.[12] Preuss pagò egli stesso con la vita il suo stile estremo: precipitò nel 1913 dalla parete del Mandlkogel, in Stiria, a soli 27 anni, durante una difficile arrampicata senza alcuna protezione.

Paul Preuss

3. L’ALPINISMO ITALIANO AGLI ESORDI
Mentre inglesi, tedeschi e austriaci si ergevano protagonisti sulle montagne italiane[13], l’alpinismo italiano faticava ad affermarsi, al di fuori della componente valligiana, al di fuori di un seguito a iniziative straniere. L’alpinismo organizzato nasce infatti in Italia come appannaggio della classe sociale dirigente, che attorno alla metà del XIX secolo, mentre gli inglesi conquistavano tutte le cime più importanti delle vette che sovrastano Savoia e Piemonte, era impegnata nel processo di unificazione dello Stato. Un approccio più popolare, di cacciatori e anche uomini di chiesa, oltre che su alcune vette significative delle Dolomiti, si concentra nel gruppo del monte Rosa, apparentemente dimenticato dai britannici e dal grande alpinismo ottocentesco; in questo modo personaggi umili ma agguerriti come Giovanni Gnifetti, Joseph e Johann Niklaus Vincent, Sebastian Linty e altri, legarono il proprio nome alle principali vette del massiccio. In questa zona l’impulso alla scalata viene proprio dalla componente valligiana, senza l’intervento diretto dei “signori” stranieri. Sono imprese di antica data (la vetta più alta del Rosa, chiamata poi proprio Gnifetti, viene salita già nel 1842), ma episodiche e senza un seguito apprezzabile[14].

Tita Piaz

3.1 La fondazione del Club Alpino Italiano.
Per quanto riguarda la dimensione cittadina, si fa risalire l’inizio dell’alpinismo italiano con la fondazione del Club Alpino Italiano per iniziativa di Quintino Sella (1827-1884) nel 1863. Proveniente dal meglio della società piemontese, accademico naturalista in carriera, protagonista nei primi governi dell’Italia unita in qualità di ministro delle finanze – nel 1862 nel gabinetto Rattazzi, quindi nel governo Lamarmora tra il ’64 e il ’65, infine nel governo Lanza tra il ’69 e il ’73 -, durante la permanenza nella Torino capitale si dedica con passione all’alpinismo in compagnia di eminenti uomini politici e accademici. Protagonisti della prima spedizione italiana al Monviso, la terza assoluta, erano, oltre al Sella, l’accademico militare e ricercatore naturalista Paolo di Saint-Robert con il fratello Giacinto e il barone calabrese Giovanni Barracco, deputato del Regno. Queste personalità, con altri sodali provenienti dal bel mondo dei notabili piemontesi, o comunque legati a Torino per incarichi politici o accademici, saranno i fondatori del Club Alpino Torinese, divenuto Italiano nel 1967 su ispirazione del londinese Alpine Club, dello svizzero CAS e dell’Osterreicher Alpineverein. Sottolinea Massimo Mila, che oltre che musicologo è stato valente alpinista e appassionato ricercatore e scrittore di montagna, come queste personalità utilizzavano come copertura per l’attività alpinistica la ricerca scientifica, per mascherare quello che nell’ambiente dei notabili piemontesi era considerato un eccentrico passatempo: ‹‹Lasciate alle spalle […] le solenni dimore del patriziato torinese, si comportavano come scolari in vacanza, […] scoppiettavano di quel buonumore irresistibile che viene indotto dal sano esercizio fisico all’aria aperta››[15]. In realtà, se si può senza tema di smentita affermare che era proprio l’alpinismo, e non la scienza, il protagonista delle uscite montane di questi pionieri, è comunque da notare la narrazione scientifica, per lo più botanica e geologica, che correda le relazioni delle salite redatte da questi alpinisti-naturalisti, in primis dal Sella. Non manca, in uno Stato ancora in via di costituzione, che intende faticosamente radicarsi tra i suoi sudditi, un certo intento pedagogico dell’alpinismo, motore non secondario dell’associazionismo alpinistico già dalla sua fondazione: ‹‹la nostra gioventù dell’Alta Italia mi pare da qualche anno più robusta, più ardita, più virile; all’ozio della città sostituisce ormai l’aria pura dei monti, le ascensioni difficili, ove ci s’impara a indurare nelle fatiche e a sentirci solidali››. Parole pronunciate proprio dal Sella, in qualità di presidente del CAI, ai soci della costituenda sezione napoletana, per indicare i valori che la pratica alpinistica può radicare nella gioventù[16].

Giovanni Gnifetti

Negli anni successivi alla fondazione del CAI torinese nacquero in diversi centri d’Italia, di ogni dimensione, un buon numero di sezioni; lo stesso Sella, trasferendosi a Roma nel 1873 con tutto l’apparato statale di cui faceva parte, dava vita alla sezione della capitale. Parallelamente venivano fondate, in territorio straniero, ma sulla scorta di sentimenti di identificazione italiana, la Società degli alpinisti Tridentini a Trento e la Società Alpina delle Giulie a Trieste. In Alpinismo e storia d’Italia Alessandro Pastore dedica un corposo capitolo all’analisi delle tabelle degli iscritti alle varie sezioni CAI nella seconda metà dell’Ottocento, al fine di radiografare la composizione sociale dell’associazionismo alpinistico di quel tempo. Se nelle città che hanno avuto un ruolo di primo piano nell’amministrazione dello Stato, come nel caso delle capitali Torino e Firenze, troviamo che una parte considerevole degli aderenti sia fornito dal ceto dirigente dello Stato, politici, spesso aristocratici, funzionari, ufficiali militari, in altre realtà emergono figure sempre eminenti nel contesto sociale cittadino: a Bologna c’è una buona componente di professori universitari, a Milano dell’élite industriale. Il club rimane quindi in questo primo periodo dalla fondazione un circolo a forte caratterizzazione censuale, i cui ruoli di dirigenziali sono tenuti da chi ha già una posizione rilevante nella società. Non manca comunque, come complemento, e spesso come componente addirittura prevalente, quel ceto borghese delle professioni, non inserito nella gestione pubblica né parte della nobiltà, ma che in termici economici sta divenendo la parte trainante della società italiana. Nelle sezioni minori, che vanno costituendosi anche nei centri montani che sono base delle ascensioni più frequentate, la composizione del corpo dei soci rispecchia sempre una partecipazione elitaria: sono i nomi più importanti del paese che compongono il Club, e ne ricoprono gli incarichi dirigenziali; professionisti, amministratori, ecclesiastici, quasi mai quelle persone che in montagna si “sporcano le mani”, come le guide, che rimangono all’esterno, pur beneficiando del lavoro delle associazioni.

Dal punto di vista delle realizzazioni alpinistiche gli italiani rimangono ancora in disparte se confrontati con gli scalatori stranieri. A parte gli episodi di pionierismo localizzati già citati, faticano ad emergere figure davvero notevoli, gli alpinisti locali sono sempre messi in ombra dai determinati inglesi e dagli audaci tedeschi, forti, se non altro, della maturità per poter scovare per primi il terreno di realizzazione di imprese memorabili. Gli italiani in questi anni la fanno da eterni secondi, collezionando ammirate ripetizioni.

4. LE ALPI COME CONFINE
4.1 Irredentismo e Alpinismo in Italia
Patria e scienza sono state, fin dalla fondazione, le parole chiave dell’attività del Club Alpino Italiano. Si promuovevano, in modo naturale, i valori e gli interessi delle personalità che componevano il sodalizio, così come si cercava, attraverso la promozione dell’”andar per monti”, di forgiare la neonata nazione. Più forti connotazioni politiche si riscontrano, già nella seconda metà del XIX secolo, nelle già citate associazioni d’oltreconfine; nel 1876 le autorità imperiali austriache scioglievano la SAT, considerata focolaio di insurrezione antiaustriaca. Immediati i moti di solidarietà delle sezioni CAI italiane, tra cui quella di Bologna, fondata appena un anno prima[17].

Quintino Sella

Con la prima metà del XX secolo, e l’apparire in Europa e in Italia delle ombre del primo conflitto mondiale, l’alpinismo in sé comincerà ad acquisire, specie nel nord della penisola, dei caratteri del tutto filo-militari. La montagna diviene luogo di scontro tra popoli, e non più di affermazione individuale sulla natura, specie per gli italiani, il cui confine coincide per intero con l’arco alpino. Il CAI promuove gite esplicitamente rivolte alla “massa”, intendendo coinvolgere un numero sempre maggiore di partecipanti cittadini così come locali, inserendo nella sua retorica forti finalità politiche, ove l’educazione al patriottismo e la propaganda sono considerati i più importanti doveri del tempo[18]. Anche nella scelta delle mete di queste gite patriottiche si può scorgere il fine politico: nel 1913 teatro dell’iniziativa è il Cadore, dove i giovani partecipanti potevano osservare ‹‹l’ingiusto confine›› e godere della visione di ‹‹lembi di terra italica›› al di là di esso. L’anno successivo, con medesimi fini e uguale retorica viene organizzata l’ascensione al monte Cevedale, anch’esso confine, in questo caso tra la Valtellina e il Südtirol. L’alpinismo diviene soggetto al nazionalismo: ‹‹Lo scopo non è più il superamento delle difficoltà e la conquista della vetta, ma la volontà di toccare la linea di frontiera […], l’incontro sodale e commosso con i fratelli irredenti››[19]. Le montagne di confine vengono così ricoperte di significati, divengono le “mura della nazione”, e arrivano a ricoprire un ruolo nell’immaginario nazionale che mai avevano avuto. Di riflesso l’alpinismo italiano non sarà più la conquista individuale della vetta, la lotta tra l’uomo e la montagna che era promossa dai romantici precursori ottocenteschi, ma si adeguerà alla retorica in quegli anni – attorno alla Grande Guerra – dominante. Un esempio significativo è l’opera di Antonio Berti Dolomiti Orientali”, parte della celebre collana Guida ai monti d’Italia edita dal CAI e dal Touring Club Italiano, la cui prima edizione compare nel 1908, e la seconda nel 1928. Un confronto tra le prefazioni rende esplicito il cambiamento di valore politico che gli introduttori, soci eminenti della sezione veneziana del CAI, a cui Berti faceva riferimento, attribuiscono alla montagna. Si trova già traccia, nello scritto del 1908, di elementi patriottici, ma che paiono più schermaglie sportive e provocazioni, che a uno sguardo d’epoca successiva paiono quasi innocenti: ‹‹[…] forse qualcuno dei giovani [alpinisti italiani] si sentirà meglio invogliato alle nuove imprese, a stupende ma meditate e sicure audacie, in gara con i colleghi stranieri, che oggi sulle montagne d’una regione così patriotticamente nostra tengono tuttora il primato››[20]. E’ invece molto più intenso, e corposo, il richiamo al nazionalismo che si legge nell’introduzione all’edizione di vent’anni successiva, la penna di Alberto Musatti risente fortemente dell’euforia della vittoria del 1918 e della retorica fascista: ‹‹[…] opera [Dolomiti Orientali] che abbraccia tanto più vasto orizzonte, con tanto più respiro, e senza più il nodo scorsoio del confine giallo-nero alla strozza››. E ancora: ‹‹E’ con pieno diritto, diritto di nascita e di guerra, che questa guida Italiana e veneta si presenta a prendere finalmente il posto che le compete, si appresta a dare il posto che gli compete all’alpinismo italiano, nel regno, ormai tutto nostro […]. Ci rallegra e ci esalta il pensiero che in quelle altezze, dove squilla qua e là una toponomastica che si raccomanda alla memoria di tutta la gente italiana (sic), con la potenza del sangue versato e accagliato sul ghiaccio, in quelle crode che sono battute da stranieri d’ogni razza e d’ogni lingua. […]. Ma questa guida non è per noi solo un libro d’itinerari, è un libro di memorie, è un reliquiario di famiglia››[21]. Quest’ultima citazione introduce quella che sarà la grande novità della seconda edizione rispetto alla prima: la guida alpinistica incorpora, rendendola parte fondamentale della trattazione, la narrazione delle vicende belliche compiute nelle zone descritte, con dovizia di figure retoriche dal gusto patriottico, rendendo la storia militare una componente fondamentale dell’itinerario alpinistico, al pari delle relazioni tecniche. La generazione di alpinisti cresciuta nella retorica nazionalista che negli anni Trenta si cimenterà sulle pareti cadorine con alla mano la guida del Berti sarà, nelle proprie scelte, profondamente influenzata da questa nuova dimensione dell’andar per monti, edita solo nel 1928, ma maturata durante le turbolenze della guerra di “riconquista”.

Le montagne sono le “mura della Patria”. Come tali sono i montanari a difenderle, con la piccozza oltre che con il moschetto. Le strutture utilizzate per presidiare il fronte sono ancora oggi visibili in molte zone montuose, tra cui l’Ortles e l’Adamello.

La lotta nazionalista, si sa, si nutre, a livello retorico, di una grande quantità di elementi simbolici, dotando gli stessi feticci della dignità di oggetti sacri e inviolabili, necessari alla glorificazione della patria e, più significativamente e pragmaticamente, all’appropriazione di un territorio. Anche in questo caso le montagne di confine, e in particolar modo quelle orientali contese all’Impero asburgico, saranno loro malgrado protagoniste, in quella che viene definita una “guerra delle bandiere”[22]. Nel ventennio che circonda la conquista italiana dei territori trentini e altoatesini, grossomodo tra gli anni Dieci e Trenta del XX secolo, le vette delle Dolomiti sono interessate da un’agguerrita lotta tra filo-italiani e pangermanisti per poter issare il proprio vessillo sui picchi più inaccessibili, e meglio osservabili, delle valli contese. La guida fassana Tita Piaz si renderà protagonista di un episodio di questo genere nel 1919, scalando personalmente la vetta della punta Santner, per rimuovere il vessillo biancorosso altoatesino che era stato provocatoriamente innalzato a dominare la neo-italiana Bolzano[23]. Personaggi di spicco dell’alpinismo dotavano la propria attività di un significato politico come mai nella storia di questa attività. Stessa logica veniva seguita dalla lotta per la toponomastica: onde allontanare la memoria di un’epoca considerata opprimente e crudele, e per conquistare definitivamente il nuovo territorio, grande fu lo sforzo per rinominare gli elementi geografici e antropici delle montagne venete e trentine, trasformandone le denominazioni tedesche in italiane; in modo simile all’abbattimento delle bandiere, si rimuovevano le targhe da pareti, memoriali e porte dei rifugi, portandole come trofei nei luoghi di nascita dell’alpinismo patriottico, come il museo della SAT a Trento, dove si trova, ad esempio, la targa di vetta dell’ex Kaiser Franz Joseph-Spitze, ora cima Tosa.

Guerra di posizione in montagna 1915-1918

4.2 Alpini e alpinisti
Bisogna ammettere che in molti casi lo stereotipo ha delle solide basi nella realtà, che corroborano di elementi una descrizione generalista. Nel caso del luogo comune che vede la gente di montagna semplice e facilmente soggiogabile, con una mentalità legata alla concretezza della terra, ma poco portata a pensare criticamente fenomeni che giungono dall’esterno, il cliché è ben verificabile in campo militare. E’ vero infatti che i soldati reclutati nelle aree montane erano noti nell’esercito per essere tra i più obbedienti, meno permeati da pensieri politici e problemi di coscienza come potevano essere i camerati provenienti dalle città e dalle zone di pianura. Tra le montagne il socialismo era scarsamente diffuso, in Piemonte come nel bergamasco o in Veneto, e questo era un fatto apprezzato dai vertici militari, che trovavano miglior gioco nell’infondere nella truppa di montanari quei sentimenti di nazionalismo e devozione alla patria, oltre che una certa obbedienza e disciplina[24]. Inoltre, in una guerra che sarebbe stata combattuta principalmente su terreno montuoso, i montanari e i cittadini avvezzi alla vita di montagna erano un’arma preziosa da impiegare ai fini strategici. Il corpo militare degli Alpini viene quindi a formarsi interamente di soldati abituati all’alta quota, che potevano tradurre in campo bellico l’esperienza lavorativa, o sportiva, sulle montagne. La retorica del montanaro-buon soldato trova la massima espressione nel giornalista di guerra Pietro Jahier, alpino volontario nel 1916, che traccia un parallelismo tra montanaro e cittadino in situazioni militari: ‹‹[i montanari sono così disciplinati] perché la montagna è loro maestra e signora assoluta. […] [I montanari sono così docili] perché rispettano i mali sociali allo stesso modo dei pericoli naturali. Non ci si ribella quando le rocce cancellano il proprio campo in un istante, o quando si arriva con la slitta e si scopre che una frana ha spazzato via il proprio deposito invernale di legname. Ci si impone di prevenire e riparare››[25]. La figura dell’alpino si presta quindi a essere ben utilizzata nelle celebrazioni militari: sulle montagne fioriscono i santuari e i memoriali bellici, e i combattenti alpini, per il doppio limite umano che sono riusciti a raggiungere, da un lato l’orrore della guerra, dall’altro i rigori della montagna, divengono i martiri per eccellenza della Grande Guerra che ha riunito una volta per tutte l’Italia. L’alpinismo, da eroismo fine a se stesso e spesso criticato come pericolo del tutto inutile, diviene, con la guerra, un esempio positivo per i soldati, un allenamento al rischio, alla disciplina, al cameratismo. Con la nascita del corpo degli Alpini in Italia non mancherà mai un corpo di militari-alpinisti, coraggiosi, disciplinati e fisicamente rappresentanti della virilità.

Lo standschütze, e guida alpina, Sepp Innerkofler durante la Grande Guerra. Fu sepolto sulla montagna dagli stessi alpini che lo abbatterono, e la memoria ne fu onorata nel 1918 trasferendone le spoglie a Sesto nel 1918.

L’alpinismo, nonostante le perversioni della guerra, rimane pur sempre un’attività in cui, per giungere al successo, si necessitano ideali di lealtà nei confronti dei compagni così come degli avversari, di riconoscimento onesto dei meriti. Ecco quindi che proprio tra gli alpinisti, in un modo del tutto scevro di retoriche e pregiudizi, in ottemperanza allo spirito cavalleresco e cameratesco dei montanari, si hanno le migliori manifestazioni di rispetto, quando non di vera ammirazione, nei confronti del nemico sul campo di battaglia. Famosa anche in Italia è la figura di Sepp Innerkofler (1865-1915), guida alpina di Sesto in val Pusteria, discendente da una famiglia di cultura austriaca e valente alpinista nella sua valle. Arruolatosi volontario negli Standschützen, corpo paramilitare occupato nel reperimento informazioni, metteva a frutto le conoscenza delle montagne compiendo ardite azioni di spionaggio ai danni degli Italiani. L’ultima sua impresa si svolse nell’estate del 1915, quando nei pressi della cima del monte Paterno si scontrava con l’alpino di vedetta, che ebbe la meglio. Il duello venne oltremodo mitizzato, specie dal già citato Antonio Berti, che parlò di ‹‹scontro tra aquile›› e di ‹‹eroismo che ha onorato la Montagna al di sopra di ogni confine di Nazione››. Gli stessi soldati italiani rischiarono la vita per recuperare dai fianchi della montagna il corpo dell’avversario caduto e rendergli onore[26]. In realtà, come si apprende dai diari e dalla corrispondenza di Innerkofler, egli era ben lontano da una retorica del genere, essendo ben più attratto dalla semplicità della vita montana e dalle sue soddisfazioni, ma, come nota Alessandro Pastore, ‹‹se la conclusione si è rivelata tragica sul piano individuale, essa appare nel suo dipanarsi molto distante dalle immagini delle carneficine di massa dei reparti di fanteria falciati dalle mitraglie o neutralizzati con l’impiego dei gas asfissianti››[27], come accadeva nel resto d’Europa.

Una menzione, quando si traccia un parallelo tra alpinismo e politica nei primi anni del ‘900, la merita la figura di Tita Piaz (1879-1948). Nato e cresciuto sotto il dominio politico austriaco sulla natia val di Fassa, si erge come montanaro del tutto atipico, il contrario esatto del citato stereotipo del valligiano succube dell’autorità e dai modi sottomessi. Di natura restìo a agni forma di imposizione forzata, Piaz si distinse per la testardaggine che gli consentì di guadagnare traguardi alpinistici di tutto rispetto e di tenere testa alle autorità austriache che tentarono in ogni modo di ostacolarne la carriera di guida e gestore di rifugio in virtù dei propri ideali filo-italiani e anti-asburgici. Seguace delle idee di Cesare Battisti, unico abbonato fassano de Il Popolo, credeva nella guerra come unica opportunità di ribaltare la situazione di stallo dell’Europa in mano agli imperi centrali. Disse di se stesso: ‹‹Rivendico il diritto di essere orgoglioso del mio modesto contributo portato alla causa santa, di aver con passione contribuito alla demolizione dell’assurdo conglomerato di popoli, come a noi irredentisti appariva l’Austria degli Absburgo››[28]. A degna conclusione della vicenda bellica, che lo vide in forza nell’esercito austriaco e più volte vicino alla morte, accanito sabotatore delle forze armate asburgiche, si recò sulla vetta della torre Winkler, sua prima impresa alpinistica di rilievo compiuta anni prima, fissandone sulla vetta un’asta di tre metri completa di tricolore italiano, aggiungendo un episodio notevole alla già conosciuta “guerra delle bandiere”[29].

Fine prima parte, continua.

Note
[1] Gian Piero Motti, La Storia dell’Alpinismo, 2 voll., Torino, Vivalda, 1997, pp. 48-49.
[2] G.P. Motti, op. cit., pp.60-63.
[3] Massimo Mila, a cura di Anna Mila Giubertoni, Scritti di Montagna, Torino, Einaudi, 1992.
[4] Giudicato difatti da Motti, autore di “Storia dell’alpinismo”, l’unico vero alpinista dell’impresa.
[5] G.P. Motti, op. cit., p.87.
[6] Ivi, p.90.
[7] La più esemplare, anche per lo scalpore che suscitò, arrivando al punto da rimettere in discussione l’opportunità stessa dell’alpinismo nell’opinione pubblica, fu la tragedia che funestò la prima ascensione del Cervino nel 1865. Durante la discesa una scivolata, complice l’inadeguatezza delle tecniche di sicurezza del tempo, costò la vita a quattro dei migliori alpinisti dell’epoca: Hadow con la guida Croz più il reverendo Hudson con Lord Douglas.
[8] Matteo Serafin, Bergvagabunden, in ‹‹Meridiani Montagne. Bernina››, anno VII, 2008, n° 35, p. 91.
[9] G.P. Motti, op. cit., p.121.
[10] it.wikipedia.org/wiki/Ortles, consultato il 10 febbraio 2013.
[11] G.P. Motti, op. cit., pp. 124-127.
[12] Tita Piaz, Mezzo secolo d’alpinismo, Milano, Melograno, 1986, pp. 162-163. La citazione è a sua volta tratta dal Deutsche Alpenzeitung dell’agosto 1911.
[13] Da considerarsi tali, anche se alcune loro parti politicamente ancora erano soggette a dominazione straniera al tempo dei fatti, per fattori culturali e di “sentimento” nazionale di abitanti e frequentatori. Si tratterà in seguito la rivalità nell’appropriazione nazionalistica delle montagne.
[14] G.P. Motti, op. cit., p.177.
[15] Massimo Mila in: Claire-Éliane Engel, Storia dell’alpinismo, in appendice Massimo Mila Cento anni di alpinismo italiano, Milano, Mondadori, 1968, p. 309.
[16] Alessandro Pastore, Alpinismo e storia d’Italia: dall’Unità alla Resistenza, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 23.
[17] A. Pastore, op. cit., p. 55.
[18] Ivi, p. 58.
[19] Ivi, p. 59.
[20] Giovanni Arduini e Giovanni Chiggiato, prefazione in: Antonio Berti, Dolomiti Orientali, Cortina d’Ampezzo, Badia, Braies, Pieve di Cadore, Auronzo: guida turistico-alpinistica, Milano, Club Alpino Italiano e Touring Club Italiano, 1971, pp. 5-6.
[21] Ivi, pp.6-7.
[22] A. Pastore, op. cit., p. 63.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 83 e Marco Armiero, A Rugged Nation, Mountains and the Making of Modern Italy, Cambridge, The White Horse Press, 2011, p.98.
[25] M. Armiero, op. cit., p. 98. Traduzione dell’Autore.
[26] Alessandro Gualtieri in www.lagrandeguerra.net, consultato il 23 gennaio 2013.
27] A. Pastore, op. cit., p. 85
[28] T. Piaz, op. cit., p. 106.
[29] Ivi, p. 124.

Carlo Battista Mazzoleni, valtellinese di 26 anni, è rifugista e montanaro per vocazione. Cresciuto nei boschi e sulla neve della Valgerola, fin da piccolo crea preoccupazioni nei parenti anziani sparendo spesso e volentieri per ricercare emozioni verticali. Cerca, in modo sfacciatamente edonistico, di soddisfare in ogni modo le proprie passioni: alpinismo, buon cibo, scoperta del mondo; la scelta di gestire il rifugio Salmurano è stato il modo migliore per collegare il tutto seguendo anche un soddisfacente percorso professionale. Apprezza tutte le discipline dell'”andar per monti”, prediligendo attentamente le esperienze con alto valore storico e ambientale (anche perchè riesce a superare soltanto difficoltà “umane”). Non apprezza particolarmente l’acqua allo stato liquido, quando va al mare è soltanto per scalare…  Amante della lettura, è laureato in storia all’università di Bologna con questa tesi sull’alpinismo.

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Montagne, uomini e idee – 1 ultima modifica: 2017-08-15T05:51:25+02:00 da GognaBlog

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