Neve – 1

Neve – 1
di Thomas Mann
(da La montagna incantata)

Cinque volte al giorno si udiva esprimere, alle sette tavole, l’unanime malcontento per le condizioni del tempo nell’inverno corrente. Tutti erano del parere che esso adempiva in grado molto insufficiente i suoi obblighi d’inverno d’alta montagna, che non offriva affatto i rimedi meteorologici, ai quali la zona doveva la sua fama, nella misura promessa dall’opuscolo pubblicitario, come i residenti anziani erano avvezzi e i novellini si erano figurato. Si registrarono enormi ammanchi di sole, di radiazioni solari, farmaco importante, senza il cui contributo la guarigione veniva indubbiamente procrastinata… E comunque la pensasse Settembrini circa la sincerità, con cui gli ospiti attendevano alla loro guarigione e al ritorno dalla “patria” alla pianura, in ogni caso essi chiedevano il giusto, volevano rifarsi delle spese, delle somme che i genitori, i mariti sborsavano per loro, e perciò brontolavano, a tavola, nell’ascensore, nel vestibolo. D’altro canto la direzione comprendeva il proprio dovere di porre ripiego e di risarcire il danno. Acquistò una nuova lampada di quarzo, perché le due già esistenti non bastavano a soddisfare le richieste di coloro che desideravano farsi abbronzare con l’energia elettrica, la qual cosa donava alle ragazze e alle signore e conferiva agli uomini, ad onta del tenore di vita orizzontale, un magnifico aspetto sportivo e conquistatore; aspetto che dava in realtà i suoi frutti; le donne, benché pienamente consapevoli della provenienza cosmetico-tecnica di quella virilità, erano abbastanza sciocche o scaltre, abbastanza intestate a lasciarsi ingannare, da inebriarsi di questa illusione e da sentirsi sollecitate nei loro istinti femminili. Dio mio! disse la signora Schonfeld, una malata berlinese dai capelli rossi e gli occhi arrossati, una sera nel vestibolo, a proposito di un cavaliere dalle gambe lunghe e dal petto incavato, il quale sul biglietto di visita si diceva “Aviateur diplomé et Enseigne de la Marine allemande” ed era provvisto di pneumotorace, oltre a ciò compariva a colazione in smoking, ma la sera se lo toglieva affermando che così voleva il regolamento della marina, Dio mio! disse lei guardando avidamente l’”Enseigne” come è diventato bruno col sole di montagna! Sembra un cacciatore d’aquile, questo demonio!… Aspetta, sirena! le sussurrò lui, nell’ascensore, all’orecchio, facendole venire la pelle d’oca, mi dovrà ripagare delle sue occhiate assassine! E per i balconi, lungo i tramezzi di vetro, il demonio e cacciatore d’aquile riuscì a raggiungere la sirena…

Snowy Landscape (aka Frost), dipinto di Berthe Morisot

Si era ben lontani però dall’accettare il sole artificiale come vera compensazione della mancanza di genuina luce celeste. Due o tre limpidi giorni di sole al mese giorni, in verità, che col cupo azzurro vellutato dietro alle vette candide, con uno scintillio di diamanti e un delizioso calore sulla nuca e sul viso degli uomini, erompevano radiosi dal grigiore sfumato delle nebbie e dalla spessa nuvolaglia – due o tre di questi giorni nel corso di settimane erano troppo pochi per il cuore di persone, la cui sorte giustificava straordinarie pretese di conforto, senza dire che tra sé si facevano forti di un patto il quale, contro la rinuncia alle gioie e alle pene della pianura, garantiva loro una vita senza vita ma oltremodo facile e divertente, spensierata fino ad annullare il tempo e in tutto favorevole. Poco giovava al consigliere rammentare che in quelle circostanze la vita del Berghof non somigliava affatto al soggiorno in un bagno penale o in una miniera siberiana, e far notare quali pregi l’aria di lassù, leggera e rarefatta com’era, quasi sgombro etere dell’universo, povero di aggiunte terrene, buone e cattive, offrisse, anche senza sole, in confronto della caligine e dei vapori della pianura: inutile, malumori e proteste dilagavano, le minacce di partenze arbitrarie erano frequenti e di moda, e venivano anche effettuate, nonostante certi esempi, come quello del recente triste ritorno della signora Salomon, la cui malattia, non grave seppure di lunga durata, in seguito al suo arbitrario soggiorno nell’umida e ventilata Amsterdam era peggiorata fino a far prevedere che lei se la sarebbe trascinata per tutta la vita…

Invece di sole però c’era neve, neve in quantità, in una tale abbondanza che Castorp non aveva mai vista. Nell’inverno precedente non era certo mancata, ma le provviste erano state piuttosto povere se paragonate a quelle dell’anno in corso.

Queste erano mostruose e smisurate e davano veramente un’idea della bizzarria e dell’eccentricità della zona. Nevicava un giorno dopo l’altro e durante la notte, a fiocchi radi o a turbini fitti, ma nevicava. Le poche strade che erano tenute sgombre e transitabili, sembravano trincee con pareti di neve ai lati, alte più di un uomo, superfici lisce e alabastrine che era piacevole vedere nel loro cristallino e granuloso luccichio, e servivano agli ospiti montani per scrivere e disegnare, per trasmettere ogni sorta di notizie, di motti scherzosi, di scurrili allusioni. Ma anche tra quelle pareti, nonostante la spalatura, si camminava su un fondo rialzato, lo rivelavano i punti cedevoli e le buche nelle quali il piede affondava, giù giù, magari fino al ginocchio: bisognava stare attenti per non rischiare di rompersi una gamba. Le panchine erano scomparse, sprofondate, un pezzo di spalliera ne sporgeva dal loro bianco sepolcro. Giù nel paese, il livello stradale era così stranamente spostato che i negozi al pianterreno delle case erano diventati cantine, nelle quali si scendeva per gradini di neve dall’altezza del marciapiede.

Thomas Mann, nel 1900, a 25 anni. Foto: H. P. Haack.

E sulle masse nevose continuò a cadere la neve, per giorni e giorni, in silenzio e con freddo moderato, dieci quindici gradi sotto zero, che non penetrava proprio nelle ossa, si sentivano poco, potevano anche essere cinque o due, la bonaccia e l’asciuttezza dell’aria li rendevano meno pungenti.

Le mattine erano molto buie, si faceva colazione alla luce artificiale dei lampadari nella sala ornata di gaie figure lungo la volta. Fuori c’era il nulla cupo, un mondo bene imballato in ovatta biancogrigia che urgeva contro i vetri, in un vaporio di neve e di nebbia. La montagna era invisibile; se mai, col tempo, s’intravedevano le più vicine conifere, tutte cariche, che si perdevano rapidamente nella caligine, e di tanto in tanto un abete si liberava dal carico eccessivo sollevando un polverio bianco sul grigio. Alle dieci il sole sorgeva dal monte come un fumo debolmente illuminato, per recare una scialba vita fantasmagorica, uno smorto riverbero di forme tangibili nel paesaggio evanescente e irriconoscibile.

Tutto era sciolto in una pallida morbidezza spettrale, senza una linea che l’occhio potesse seguire con sicurezza. La sagoma delle vette scomparve, svanì nella nebbia e nel fumo. Campi di neve sotto quella luce sbiadita, susseguentisi, sormontantisi, guidavano l’occhio verso l’irreale.

Infine, davanti a una parete di roccia, poteva librarsi una nuvola illuminata, come un globo di fumo, a lungo, senza mutare forma.

Verso mezzogiorno il sole, in un tentativo di rompere, sembrava che volesse risolvere la nebbia in cielo azzurro. Ma il conato era ben lungi dal riuscire; per qualche momento però si affermava una parvenza di cielo libero, e la poca luce era sufficiente ad accendere uno scintillio di diamanti nella regione bizzarramente deformata dall’avventura nivale. Di solito a quell’ora smetteva di nevicare, come per dar modo di osservare i risultati raggiunti; a tal fine servivano forse anche le poche giornate di sole intercalate, quando il sinibbio cessava e l’improvviso calore del cielo tentava di sciogliere la superficie deliziosamente pura delle masse di neve novella. L’aspetto del mondo era fiabesco, puerile e comico. Gli spessi e soffici guanciali, quasi sprimacciati, sui rami degli alberi, le gobbe del terreno, sotto alle quali si nascondevano piante nane e spunzoni di roccia, le forme del paesaggio accucciate, affondate, buffamente infagottate, tutto ciò formava un mondo di gnomi, ridicolo, da libro di fiabe. Ma se lo scenario vicino, nel quale ci si moveva con fatica, aveva un’aria fantastica e scherzosa, lo sfondo lontano, le Alpi nevose e torreggianti ispiravano sentimenti di sublime santità.

Thomas e Katia Mann nel 1929 a Berlino, durante il viaggio a Stoccolma dove gli conferiscono il premio Nobel per la letteratura

Nel pomeriggio tra le due e le quattro, Castorp stava coricato sul balcone e, bene imbacuccato, la testa sorretta dalla spalliera, né troppo sollevata, né troppo orizzontale della sua eccellente sedia a sdraio, guardava oltre il parapetto imbottito, i boschi e la montagna. La foresta di abeti verdenera, carica di neve, montava su per i pendii, e il terreno tra gli alberi era coperto di morbidi cuscini di neve. Più su si ergevano in bianco-grigio i monti rocciosi, con estesi piani di neve interrotti qua e là da scuri nasi di pietra emergenti, e con le creste svaporanti nell’aria. Nevicava in silenzio. Tutto andava dileguando. Lo sguardo, sperduto in quel nulla ovattato, si lasciava prendere facilmente dalla sonnolenza. Un brivido accompagnava il momento del trapasso, ma non ci può essere sonno più puro di quello che egli dormiva là al gelo, senza sogni che fossero mossi da un inconscio senso del peso della vita, poiché il respiro dell’aria sottile, priva di vapori, non riusciva più difficile di quanto non sia il non-respiro dei morti. Al risveglio la montagna era tutta scomparsa nel nevischio e soltanto qualche parte, una vetta, una punta di roccia, sbucava alternatamente alcuni minuti per velarsi poi un’altra volta. Quel giuoco spettrale era quanto mai divertente. Bisognava stare molto attenti per seguire la fantasmagoria dei veli nelle sue misteriose mutazioni. Alto e selvaggio emergeva dalla caligine un particolare della montagna, di cui non si vedeva né la cima né il piede: bastava voltar l’occhio un minuto, e la montagna non c’era più.

Si scatenarono poi bufere di neve che impedirono di trattenersi sul balcone, perché il turbine bianco irrompeva con masse di neve che coprivano ogni cosa, il pavimento e i mobili.

Nell’alta valle chiusa imperversava anche la tormenta. L’aria sottile era sconvolta e lo sfarfallio dei fiocchi così fitto che non si vedeva a un passo di distanza. Raffiche di una violenza soffocante investivano di fianco il nevischio con moto fulmineo, lo sollevavano di sotto in su, dal fondovalle verso il cielo, lo frullavano in una folle danza vorticosa, non era più una nevicata, era una bianca tenebra caotica, uno scompiglio, era l’eccesso fenomenico d’una regione travalicante le zone moderate, dove soltanto il fringuello nivale, che improvvisamente compariva a stormi, poteva sentirsi a casa propria.

A Castorp però piaceva vivere in mezzo alla neve.

Quella vita gli pareva avesse parecchie analogie con la vita sulla spiaggia: hanno infatti in comune la primordiale monotonia della natura; la neve, fonda, soffice, immacolata, polverosa fa là in alto la stessa parte che laggiù la rena bianco-gialla; il contatto con entrambe è ugualmente pulito, si scuote il gelo bianco e asciutto dalle scarpe e dagli abiti come laggiù il tritume di pietre e conchiglie, privo di polvere, sollevato dal fondo del mare, che non lascia traccia, e similmente faticoso è camminare nella neve come sulle dune, a meno che la superficie non sia stata sciolta dal sole e rigelata la notte: e allora si cammina con maggior facilità e piacere che su un pavimento lucido, con la stessa facilità e con lo stesso piacere che sulla sabbia liscia, soda, elastica della battigia.

Se non che le nevicate e la neve ammassatasi nell’anno erano tali da restringere miseramente la possibilità di moto all’aperto, per tutti tranne che per gli sciatori. Gli spartineve erano in funzione, ma duravano fatica a tener sgombri i sentieri più usati e la strada principale del luogo, e le poche vie aperte che sfociavano subito in zone inaccessibili erano frequentatissime da sani e malati, dai paesani e dalla società internazionale presente negli alberghi; i pedoni poi si trovavano tra le gambe gli appassionati dello slittino, uomini e donne, che piegati all’indietro, i piedi avanti, lanciando grida e avvertimenti tali da far intendere quanto fossero compresi dell’importanza della loro impresa, filavano giù dai versanti con lo slittino da ragazzi, rollando e tombolando, finché, arrivati in fondo, tornavano a salire tirandosi dietro il loro giocattolo di moda.

Di quelle passeggiate Castorp era arcisazio. Ora aveva due desideri: il più forte era quello di poter stare solo con i suoi pensieri e affari di governo, e fin qui il suo balcone lo poteva anche appagare, sia pure superficialmente. L’altro invece, collegato col primo, era la viva aspirazione a un contatto più intimo e libero con la deserta montagna nevosa, che aveva suscitato le sue simpatie, e questo desiderio era inattuabile finché lui lo coltivava da pedone disarmato e senza ali; come tale sarebbe affondato fino al petto, se avesse fatto il tentativo di proseguire oltre il termine, presto raggiunto, di tutte le vie di comunicazione spalate e sgombre.

Perciò, un giorno, nel secondo inverno che passava lassù, Castorp deliberò di acquistare un paio di sci e di imparare a usarli fin dove lo esigeva il suo progetto. Non era uno sportivo, per mancanza di attitudini fisiche non lo era mai stato, né fingeva di esserlo come facevano taluni ospiti del Berghof che, per compiacere la moda e lo spirito locale, si vestivano da elegantoni, specialmente le donne, per esempio Hermine Kleefeld la quale, benché l’insufficiente respiro desse una tinta bluastra alle sue labbra e alla punta del naso, compariva volentieri a pranzo in calzoni di lana, e in quella foggia, dopo il pasto, seduta su una poltrona di vimini nel vestibolo, si comportava villanamente a ginocchia divaricate. Castorp, se avesse chiesto al consigliere il permesso di attuare il suo esagerato proponimento, avrebbe incontrato un netto rifiuto.

L’attività sportiva era assolutamente vietata a tutti gli ospiti sia del Berghof, sia di qualunque altro simile sanatorio; bastava infatti l’aria, così leggera in apparenza, a imporre un notevole sforzo al muscolo cardiaco e, in quanto a lui, Castorp doveva considerare sempre valida la sua intelligente massima dell’ “abitudine a non abituarsi”; e la sua tendenza alla febbre, che Radamanto faceva risalire a una zona umida, continuava ostinata. Poteva forse aspirare ad altro lassù? Ecco, dunque, che il suo desiderio e il suo proposito erano contraddittori e illeciti. Ma bisogna anche capirlo. Egli non era pungolato dall’ambizione di mettersi alla pari degli zerbinotti sportivi e dei galanti naturalisti che, se fosse corsa la parola d’ordine, si sarebbero dedicati con altrettanto zelo e altrettante arie al giuoco delle carte in un locale chiuso e soffocante. Egli sapeva di appartenere a una specie più disciplinata, diversa dal popolino dei turisti, e sotto un più ampio, più nuovo angolo visuale, in base a una dignità allontanante, a un obbligo di moderazione, sentiva che non era affar suo divertirsi in superficie come quelli e avvoltolarsi nella neve come uno scemo. Non aveva in animo di fare scappate clamorose, sapeva moderarsi, e Radamanto poteva approvare tranquillamente il suo piano. Ma siccome, per non venir meno al regolamento, glielo avrebbe vietato, Castorp decise di agire a sua insaputa.

All’occasione espose il suo progetto a Settembrini, il quale per poco non lo abbracciò dalla gioia. «Ma sì, ma sì, ingegnere, lo faccia senz’altro! Non chieda nulla a nessuno e lo faccia… E’ stato il suo angelo tutelare a suggerirglielo. Lo faccia subito, prima che gliene passi la voglia! Vengo con lei, l’accompagno nel negozio, e su due piedi comperiamo insieme quei benedetti arnesi.
L’accompagnerei anche sui monti, volerei come l’alipede Mercurio insieme con lei, ma non devo…
Non mi è lecito. Oh, se mi fosse soltanto non lecito, lo farei lo stesso, ma non ne sono capace, sono un uomo perduto. Lei invece… No, non le farà male, purché sia ragionevole e non voglia esagerare. Ma, via, se anche dovesse nuocere un pochino sarà stato sempre il suo angelo tutelare a… Non dico altro. Che progetto eccellente! Essere qui da due anni e avere ancora codesta trovata… eh, la stoffa è buona, non c’è motivo di disperare di lei. Bravo, bravo! Lei fa tanto di naso al suo re di paglia lassù, compera gli scivoli, li fa mandare da me o a Lukacek o dal droghiere là nella nostra casetta. Là li viene a prendere per fare gli esercizi e se ne scivola via…».

Così fu fatto. Presente Settembrini che faceva la parte del critico competente, mentre di sport non capiva un’acca, Hans Castorp acquistò in un negozio specializzato della via principale un paio di sci eleganti, verniciati di marrone chiaro, di ottimo frassino, con la punta ricurva e con magnifici attacchi di cuoio, comperò anche i bastoncini con puntale di ferro e con la racchetta rotonda, e non rinunciò a prendere tutto ciò in spalla e a portarlo di persona fino all’abitazione di Settembrini, dove si mise subito d’accordo col droghiere per la quotidiana custodia degli arnesi. Imparatone l’uso stando a guardare gli altri, cominciò per conto suo, su un pendio quasi senza alberi, lontano dal brulichio dei campi di scuola, a fare le sue maldestre prove quotidiane; qualche volta, da una certa distanza, vi assisteva Settembrini appoggiato al bastone, i piedi graziosamente incrociati, e salutava con dei “bravo” i suoi progressi di abilità.

Andò ancora bene un giorno, in cui Castorp, scendendo per la svolta spalata verso Dorf con l’intenzione di portare gli sci dal droghiere, s’imbatté in Behrens. Questi non lo riconobbe, benché fosse mezzogiorno, e il principiante gli fosse quasi andato addosso. Avvolto in una nube di fumo di sigaro passò oltre a gran passi.

Castorp notò che si acquista presto un’abilità della quale si sente il bisogno interiore. Non che pretendesse di diventare un campione. Tutto quanto gli occorreva lo imparò in pochi giorni senza scalmanarsi e perdere fiato. Si avvezzò a tenere i piedi vicini e a tracciare orme parallele, imparò a usare il bastoncino per dirigersi in discesa, trovò il modo di superare ostacoli, come piccole gobbe del terreno, prendendo lo slancio a braccia distese, sollevandosi e avvallando come una nave sul mare in burrasca, e dopo la ventesima prova non cadde più quando nell’arresto a telemark frenava in piena corsa con una gamba tesa e il ginocchio dell’altra piegato. A poco a poco allargò il territorio dei suoi esercizi. Un giorno Settembrini lo vide scomparire nella nebbia bianchiccia, gli mandò un avvertimento facendo tromba delle mani e pedagogicamente soddisfatto se ne ritornò a casa.

Era bello lassù sulla montagna invernale – non un bello dolce e gentile, ma simile a quello del Mare del Nord selvaggio, quando vi soffia la furia del ponente senza fragori tonanti, anzi in un silenzio di morte, ma tale da suscitare sensi di rispetto molto affini. Le suole lunghe e flessibili portavano Castorp in tutte le direzioni: lungo il versante sinistro verso Clavadel, oppure a destra davanti a Frauenkirch e Glàris, dietro ai quali sbucava dalla nebbia come un’ombra spettrale il massiccio di Amselfluh; o anche in Val Dischm o su, dietro al Berghof in direzione del boschivo Seehorn, del quale sopra il limite della vegetazione arborea si vedeva soltanto la cima nevosa, e verso la Val Drusacia, dietro alla quale appariva il pallido profilo della catena del Rätikon carica di neve. Egli si faceva anche sollevare, insieme alle sue assicelle, con la funicolare fino alla Schatzalp e lassù, a duemila metri, si aggirava comodamente sui scintillanti pendii di neve polverosa, dai quali con tempo chiaro gli si offriva l’austero panorama del teatro delle sue avventure.

Era lieto della conquista che gli spalancava un mondo inaccessibile e annullava quasi gli ostacoli; esso lo fasciava con la desiderata solitudine, la più profonda che potesse immaginare, una solitudine che gli toccava il cuore con le sensazioni d’un’enorme e critica lontananza dagli uomini. Da un lato talvolta un ripido pendio di abeti precipitava nel nevischio e dall’altro montava un roccione carico di masse di neve enormi, ciclopiche, a pance e gobbe, con caverne e cappucci. Quando si fermava, immobile per non sentire se stesso, il silenzio era assoluto e perfetto, una quiete ovattata, ignota, mai avvertita, senza riscontri possibili. Non c’era un alito di vento che sfiorasse gli alberi, non un sussurro, non una voce d’uccello. Castorp, appoggiato al bastone, la testa china su una spalla, la bocca aperta, ascoltava il silenzio primordiale; e la neve vi continuava a cadere, quieta, incessante, senza alcun rumore.

Ecco, quel mondo che, nel suo abissale silenzio, non aveva nulla di ospitale, accoglieva il visitatore a suo rischio e pericolo, anzi non lo accoglieva, non lo accettava, ma tollerava il suo arrivo, la sua presenza, senza nessuna sicurezza, senza alcuna garanzia, emanando sensazioni di una quieta elementarità minacciosa, non tanto di ostilità, quanto piuttosto di una indifferenza mortale. Il figlio della civiltà, estraneo e fin dalla nascita lontano dalla natura selvaggia, è molto più accessibile alla sua grandezza di quanto non sia il suo rude figlio che, avvezzo fin da bambino, ci vive in fredda confidenza; questo non conosce, si può dire, il timore riverente con cui quello vi si affaccia sollevando le sopracciglia, e da cui è determinato nel profondo quel suo sentimentale rapporto con essa che mantiene nel suo cuore una continua commozione religiosa e una pavida eccitazione.

Castorp, in quel suo panciotto di pelo di cammello con le maniche lunghe, le mollettiere alle gambe e gli sci di lusso ai piedi, si reputava, in fondo, molto audace nel sorprendere il silenzio primordiale, nel visitare il deserto nevoso mortalmente afono, e quel senso di sollievo che si faceva sentire quando, al ritorno, vedeva divilupparsi dai veli le prime dimore umane gli dava la coscienza del suo stato precedente e gli dimostrava che per ore la sua mente era stata dominata da un segreto e sacro terrore. Nell’isola di Sylt aveva sostato in calzoni bianchi, sicuro, elegante e rispettoso, al margine di una immensa risacca come davanti alla gabbia del leone, dietro alle cui sbarre la belva spalanca la voragine delle fauci armata di terribili canini. Poi aveva fatto il bagno, mentre un custode segnalava con la cornetta il pericolo a coloro che sfacciatamente tentavano di avventurarsi oltre la prima ondata e di avvicinarsi troppo all’imminente burrasca; e l’ultimo scarico della cateratta l’aveva colto alla nuca come un colpo d’artiglio. Là il giovane aveva appreso l’entusiasmante gioia del lieve contatto amoroso con forze, il cui completo abbraccio sarebbe fatale. Non aveva invece sperimentato la tendenza ad approfondire quegli entusiasmanti contatti fino a sentire la minaccia dell’abbraccio completo, ad arrischiarsi – da quella creatura debole che era, anche se armata e discretamente equipaggiata dalla civiltà – a procedere sul terreno pauroso, o almeno a non fuggire finché non fosse raggiunto il punto critico e non ci fosse più la possibilità di porgli un termine, finché non si trattasse più di uno scarico di schiume e di un colpetto di artiglio, bensì dell’onda, delle fauci, del mare.

Per farla breve: Castorp aveva coraggio lassù, se coraggio di fronte agli elementi non è ottusa freddezza nel rapporto con essi, bensì consapevole dedizione e paura di morire vinta con la simpatia.

Simpatia? Certo, Castorp nel suo petto angusto e civile provava simpatia per gli elementi; e c’era un nesso tra questa simpatia e il novello senso di dignità di cui si era reso conto alla vista del popolino slittante, mentre d’altro canto aveva giudicato decorosa e desiderabile una solitudine più profonda, più ampia, meno comoda di quella del suo balcone dal quale aveva osservato l’alta montagna nebbiosa, la danza della tormenta, e in fondo all’anima si era vergognato della sua oziosa curiosità al di qua del parapetto che limitava la sua vita agiata.

Per questo, non per tifo sportivo né per innate abitudini ginniche aveva imparato a sciare. Se non si sentiva a suo agio in quella grandezza, nel mortale silenzio della nevicata (e, figlio com’era della civiltà, non poteva sentirsi sicuro), be’, era un pezzo che disagi spirituali ne aveva provati lassù.

Una conversazione con Naphta e Settembrini non era proprio la cosa più comoda; anch’essa portava in zone impervie e altamente pericolose; e se si può parlare di simpatia per l’ampio deserto invernale, bisogna considerare che, nonostante il suo timore riverente, Castorp vi trovava l’ambiente adatto per chiarire i suoi pensieri, il dicevole soggiorno per chi, pur non sapendo bene come fosse toccato a lui, si sentiva addosso il peso di affari di governo circa la posizione e lo stato dell’homo Dei.

Là non c’era nessuno che con la cornetta segnalasse il pericolo ai temerari, a meno che quello non fosse Settembrini il quale vedendolo scomparire, aveva mandato a Castorp un avvertimento facendo tromba delle mani. Questi però, armato di coraggio e simpatia, non badò al grido lanciatogli alle spalle più di quanto non avesse badato, a un certo punto della notte di carnevale, alle parole pronunciate dietro a lui: “Ingegnere, un po’ di buon senso, via!” “Ma va, Satana pedagogo” pensò, “con la tua ‘ragione’ e ‘ribellione’. Però ti voglio bene. Sei, è vero, uno smargiasso, un sonatore d’organetto, ma sei in buona fede, migliore e più simpatico dell’acuto piccolo gesuita e terrorista, di quell’aiuto del boia e bastonatore spagnolo, con quegli occhiali lampeggianti, benché abbia quasi sempre ragione quando disputate, quando litigate da pedagoghi per la mia povera anima, come nel medioevo Dio e il diavolo per il possesso dell’uomo…”. Le gambe incipriate, salì passo passo su pallide alture, coperte di candidi lenzuoli, sempre più in alto, di terrazza in terrazza non si capiva dove; pareva che non conducessero in nessun luogo; la regione superiore sfumava confondendosi col cielo, altrettanto bianco e nebbioso, che non si vedeva dove cominciasse; non appariva una vetta, non una cresta; Castorp si portava in alto verso quel nulla vaporoso, e come dietro a lui il mondo con la valle abitata si chiuse rapidamente e scomparve allo sguardo, né di laggiù arrivava alcun suono; anche la sua solitudine, anzi l’abbandono fu, prima che non pensasse, così vasto come aveva potuto desiderare, profondo fino allo spavento che è il presupposto del coraggio. “Praeterit figura huius mundi” disse tra sé in un latino che non era di spirito umanistico, parole che aveva udite da Naphta. Si fermò e guardò in giro. Non c’era niente da vedere da nessuna parte, tranne singoli minuscoli fiocchi di neve che scendendo dal bianco superiore si posavano sul bianco del fondo, e il silenzio tutt’intorno era enorme e nulladicente.

Thomas Mann (a destra) e Albert Einstein, nel 1938, all’università di Princeton (USA)

Mentre il suo sguardo si frangeva contro il vuoto abbagliante, sentì annunciarsi il cuore che batteva forte a causa della salita, quel muscolo cardiaco del quale aveva osservato di sorpresa (e forse non era lecito) la forma animale e il modo di pulsare, ai lampi scoppiettanti del gabinetto radiologico. E lo prese quasi una commozione, una schietta e riverente simpatia per il proprio cuore, per il palpitante cuore umano, così solo lassù, nel gelido vuoto, con le sue domande e i suoi enigmi.

Si spinse oltre, più in alto, verso il cielo. Talvolta ficcava nella neve l’estremità superiore del bastoncino e stava a guardare la luce azzurra che dal fondo del buco rincorreva il bastone, quando egli lo estraeva. Ci si divertiva e si tratteneva a lungo per ripetere più volte il modesto fenomeno ottico. Era una delicata e caratteristica luce dei monti e delle profondità, verdazzurra, limpida come il ghiaccio e pur velata, misteriosa e attraente. Gli ricordava la luce e il colore di certi occhi, occhi obliqui dallo sguardo fatale, che Settembrini col suo criterio umanistico e con disprezzo aveva definiti “fessure tartare” e “occhi da lupo delle steppe”, occhi visti da ragazzo e poi inevitabilmente ritrovati, gli occhi di Hippe e di Clavdia Chauchat. Volentieri disse a mezza voce nel silenzio. Ma bada di non romperla: il est à visser, tu sais. E con la mente udiva dietro a sé armoniosi inviti al buon senso.

Di fianco, a destra, intravide a qualche distanza un bosco nella nebbia. Prese quella direzione per avere davanti agli occhi una meta terrena invece di quella trascendenza biancastra; e d’un tratto partì in discesa senza aver minimamente notato l’avvallamento. Il barbaglio rendeva impossibile riconoscere le forme del terreno. Non si vedeva nulla, tutto sfumava e gli ostacoli si presentavano improvvisi. Egli si lasciò andare senza distinguere i gradi dell’inclinazione.

La boscaglia che lo aveva attirato sorgeva al di là della gola nella quale era inavvertitamente disceso.

Il fondo di questa, coperto di neve molle, si abbassava dalla parte del monte; egli se ne accorse quando l’ebbe seguita un tratto in quella direzione.

E continuò a scendere; i fianchi obliqui si alzavano; lo spacco pareva s’inoltrasse nel monte come una trincea. Poi le punte delle assicelle si risollevarono; il suolo montava; dopo un po’ non ci fu più parete laterale da superare, e il cieco viaggio di Castorp riprese sul libero pendio verso il cielo.

Vide le conifere al suo fianco e sotto di sé, vi si diresse e in veloce discesa raggiunse gli abeti carichi di neve, che, disposti a cuneo, si spingevano, propaggini di precipiti boscaglie avvolte nella nebbia, fin nella zona sgombra di piante. Sotto i loro rami riposò fumando una sigaretta, sempre un po’ oppresso nell’anima, teso, angosciato dall’eccessivo silenzio, dalla fantastica solitudine, ma orgoglioso di averla conquistata e pieno di coraggio per i diritti che la sua dignità sembrava di poter vantare su quella regione.

Erano le tre del pomeriggio. Era partito poco dopo la colazione col proposito di marinare una parte della grande cura a sdraio e la merenda e di essere di ritorno prima che facesse buio. Era beato all’idea di disporre di alcune ore per vagabondare in quel mondo libero e grandioso. Aveva un pezzo di cioccolata nella tasca dei calzoni alla scudiera e una bottiglietta di Porto nella tasca del panciotto.

Era quasi impossibile distinguere la posizione del sole, tanto era fitta la nebbia. In fondo, verso lo sbocco della valle, nell’angolo della montagna nascosta allo sguardo, la nuvolaglia e le nebbie erano più dense e scure e sembrava che venissero avanti. Si sentiva un’aria di neve, di più neve ancora – come per colmare un fabbisogno urgente – di una vera e propria tormenta. Infatti, i fiocchetti silenziosi infittirono.

Castorp fece un passo avanti per farne cadere alcuni sulla manica e osservarli con la competenza dello studioso dilettante. Sembravano straccetti informi, ma più di una volta egli ne aveva visti attraverso la sua buona lente e sapeva benissimo di che gioielli graziosamente regolari erano composti, di oggetti preziosi, stelle cavalleresche, fermagli di brillanti, che più ricchi e minuziosi non avrebbe saputo creare neanche il più coscienzioso gioielliere, anzi quel bianco polverio, lieve e soffice, che ammassato gravava sul bosco e copriva la landa, e sul quale lo portavano le sue assicelle, era pur diverso dalla natia rena marina, alla quale faceva pensare: questi non erano, si sa, granelli di sabbia, bensì miriadi di particelle d’acqua congelate e variamente cristallizzate – particelle della sostanza inorganica che fa sbocciare anche il plasma della vita, il corpo dei vegetali e dell’uomo – e tra quelle miriadi di stelline magiche nella loro minuta e segreta magnificenza, inaccessibile e d’altronde neanche destinata al nudo occhio umano, non ce n’era una che fosse uguale all’altra; una illimitata gioia d’inventare si manifestava nella variazione e nella finissima elaborazione di uno stesso invariabile schema, quello dell’esagono equilateroequiangolo; ma in se stesso ciascuno di quei freddi prodotti era di una simmetria assoluta, di una gelida regolarità, anzi questo era il loro lato inquietante, antiorganico, ostile alla vita; erano troppo regolari, la sostanza organizzata per vivere non lo è mai fino a tal punto, la vita aborre la precisione esatta, la considera letale, come l’enigma della morte stessa, e Castorp credette d’intuire perché i costruttori di templi antichi abbiano introdotto di nascosto piccole divergenze nella simmetria dei loro ordini di colonne.

Partì slittando coi lunghi pattini, scese sullo spesso tratto di neve lungo l’obliquo margine del bosco tuffandosi nella nebbia, girellò con comodo e senza meta, salendo e sormontando, per la morta landa che, coi suoi piani deserti e ondulati, con la sua arida vegetazione, consistente in singoli neri ciuffi di mughi affioranti, e con il suo limite orizzontale di morbide alture somigliava chiaramente a un paesaggio di dune. Quando sostava a godersi questa rassomiglianza Castorp approvava soddisfatto con cenni del capo; e sopportava con simpatia anche il bruciore del viso, l’incipiente tremito delle braccia, il singolare ed ebbro insieme di eccitazione e stanchezza, perché tutto ciò gli rammentava familiarmente gli affini effetti dell’aria di mare satura di sostanze sferzanti e ad un tempo soporifere. Sentiva con soddisfazione la sua alata indipendenza, il suo libero vagabondaggio. Davanti a lui non si aprivano strade alle quali fosse legato, come non ne aveva alle spalle per il ritorno. Da principio aveva notato delle pertiche, pali piantati per segnavia sulla neve, ma presto si era liberato apposta della loro tutela, perché gli ricordavano il custode dalla cornetta e gli sembravano inadeguati all’interiore rapporto che correva tra lui e il vasto deserto invernale.

Dietro a colli rocciosi e imbiancati, tra i quali egli si insinuò poggiando ora a destra, ora a sinistra, trovò un pendio, poi un pianoro, poi un alto monte, i cui passi e botri dalla soffice imbottitura gli parevano accessibili e invitanti. Anzi, l’attrazione della montagna e dell’altezza, delle sempre nuove solitudini che gli si aprivano dinanzi, era potente nell’animo suo, e a rischio di far tardi si addentrò in quel deserto silenzio privo di sicurezza e garanzia, nonostante che, oltre a tutto, la tensione e l’angoscia interiore diventasse vera paura alla vista dell’anticipato abbuiarsi del cielo che calava i suoi veli opachi su tutta la regione. Questa paura lo fece accorto come fino a quel momento avesse addirittura mirato a perdere l’orientamento e a dimenticare da che parte fossero la valle e il paese: cosa che gli era riuscita con non auspicata compiutezza. D’altro canto gli era lecito pensare che, se faceva dietro-front e scendeva diritto, doveva raggiungere la valle rapidamente, anche se per caso lontano dal Berghof, troppo rapidamente; sarebbe arrivato troppo presto, senza sfruttare il suo tempo, mentre, è vero, sorpreso da una bufera di neve, non avrebbe trovato sul momento la via del ritorno. Ma non per questo era disposto a fuggire anzi tempo, per quanto la paura, la sua sincera paura degli elementi lo angosciasse. Non si può dire che fosse un contegno sportivo: infatti chi pratica lo sport s’impegna con gli elementi solo fin tanto che sa di poterli signoreggiare, usa prudenza e fa il saggio che cede. Ma ciò che avveniva nel cuore di Castorp lo si può definire con una sola parola: una sfida. E per quanto la parola contenga di biasimevole, anche quando – o massime quando – il colposo sentimento relativo si unisce a tanta sincera paura, con un po’ di umana riflessione si può anche comprendere come in fondo all’anima di un giovane, il quale per anni sia vissuto come costui, si accumulino, o come avrebbe detto Hans Castorp, l’ingegnere, si “ammassino” parecchie cose che un bel giorno si scaricano in un elementare “macché!” o in un “che importa?” pieno di amareggiata impazienza, appunto come sfida e rifiuto di ogni prudente saggezza. Proseguì pertanto con le sue lunghe ciantelle, scivolò lungo la discesa e, oltre un altro pendio, sul quale a una certa distanza sorgeva una casetta di legno, malga o fienile che fosse, col tetto gravato di pietre, mosse verso il monte successivo, il cui dorso era irto di abeti, che si elevavano nella nebbia fin oltre la cima. La parete che aveva davanti a sé, popolata da qualche gruppo d’alberi, era scoscesa, ma a destra, di sbieco, si doveva poterla aggirare a metà con moderata salita, per vedere che cosa ci fosse dall’altra parte: Castorp si accinse a questa fatica di esploratore dopo essere sceso ancora dal piano della malga in una forra piuttosto profonda che scendeva da destra a sinistra.

Aveva appena incominciato a salire allorché, come era da prevedere, la bufera e la nevicata si scatenarono con una furia che bisognava vedere: la tormenta, insomma, era arrivata dopo aver minacciato a lungo, se di minaccia si può parlare a proposito di elementi ciechi e ignari che non mirano ad annientarci, il che sarebbe relativamente simpatico, ma sono di una mostruosa indifferenza se per caso accade anche questo. “Olà!” pensò Castorp fermandosi quando il primo colpo di vento lo urtò con un turbinio di nevischio. “Questa è una prima ventata. Penetra nelle ossa”. Era infatti un vento molto odioso: il freddo terribile che faceva in realtà, circa venti gradi sotto zero, non lo si avvertiva e sembrava clemente solo quando l’aria priva di umidità era immobile come di solito; ma non appena si moveva, il vento tagliava come una lama che entrasse nella carne, e quando infuriava come ora – poiché quella prima folata spazzante era stata solo un preavviso, – non sarebbero bastate sette pellicce a proteggere le ossa dal gelido orrore mortale, e Castorp non aveva indosso sette pellicce, ma solo un panciotto di lana che di norma era sufficiente, e anzi al minimo raggio di sole gli dava fastidio. Il vento lo colpiva un po’ di fianco alle spalle, sicché era poco raccomandabile voltare e prenderlo in faccia; e siccome questa considerazione si accoppiava con la sua cocciutaggine e col reciso “macché!” della sua mente, il folle giovane andò avanti ancora, tra singoli abeti, per aggirare il monte che aveva preso d’assalto.

Non era però un divertimento, perché la vista era intercettata dalla danza dei fiocchi che pareva non cadessero nemmeno, ma empivano lo spazio coi loro fittissimi vortici; le raffiche gelate provocavano dolori acuti alle orecchie, paralizzavano le membra, rendevano insensibili le mani, sicché Castorp non si rendeva conto se stringeva o no il bastone ferrato. La neve gli entrava dal colletto e gli si scioglieva lungo la schiena, si posava sulle sue spalle e si attaccava al suo fianco destro; gli pareva di diventare un fantoccio di neve, rigido, col bastone in mano; e questa insopportabile condizione risultava da circostanze relativamente favorevoli: se egli si voltava, era anche peggio; eppure la via del ritorno diventava una fatica che egli non doveva porre indugio ad affrontare.

Si fermò dunque, scrollò in collera le spalle e voltò gli sci. Il vento contrario gli mozzò subito il respiro, sicché egli si sobbarcò un’altra volta allo scomodo procedimento della voltata per prendere fiato ed affrontare poi in miglior forma l’indifferente nemico. A testa bassa, regolando la respirazione con cauta economia, riuscì davvero a mettersi in moto in senso contrario, sorpreso, nonostante i brutti presentimenti, della difficoltà di procedere, derivante soprattutto dalla cecità e dallo scarso respiro. Ogni momento era costretto a fermarsi, in primo luogo per prendere fiato contro la bufera, e poi perché alzando lo sguardo a testa china non vedeva nulla in quella bianca tenebra e doveva pur stare attento a non cozzare contro un albero, a non imbattersi in ostacoli. I fiocchi gli volavano in faccia e si scioglievano facendola irrigidire. Gli volavano in bocca dove si squagliavano con un leggero sapore d’acqua, volavano contro le palpebre che si chiudevano convulse, allagavano gli occhi e impedivano di guardare, che poi sarebbe stato inutile, perché il denso velame steso sul campo visivo e il bianco abbacinante intercettavano quasi interamente la facoltà della vista. Era il nulla, il bianco nulla vorticoso che gli si affacciava, quando tentava di guardare. E solo di quando in quando vi affiorava qualche fantastica ombra del mondo tangibile: un cespuglio di mughi, un gruppo di abeti, e a un certo punto la sagoma del fienile dal quale era passato poco prima.

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Neve – 1 ultima modifica: 2023-12-03T04:29:00+01:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Neve – 1”

  1. Dopo una domenica passata sugli sci in boschi da fiaba nordica nulla di meglio di questa lettura che ci riporta ai valori autentici dello sciare. Grazie Alessandro!

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